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IL DILEMMA PROGRESSISTA

English PEN e la battaglia per la libertà di opinione nel mondo.
Le ultime pubblicazioni nella nostra Libreria Internazionale.

Data: 2006-03-01

di Jonathan Headwood 
                                                   
Quando sono stato nominato direttore dell'English PEN nel novembre del 2005, l'organizzazione mondiale degli scrittori festeggiava il suo ottantacin-quesimo anniversario. Come capita a molti ottantenni, PEN era allo stesso tempo incostante e ispirato, saggio e smemorato. In questi ultimi ottantacinque anni il mondo è cambiato, e tanto. Per questo mi son sentito investito del compito di dar nuovo smalto al senso di risolutezza di PEN, pur restando fedele alla sua lunga tradizione.
Ma come possono venire interpretati i valori interculturali degli Anni '20 nell'era della globalizzazione? E, soprattutto, cos'ha da dire di utile un'organizzazione di scrittori sulla multiculturalità del Regno Unito, o sulla crescente tendenza all'illiberalità nel mondo?

PEN è stata fondata nel 1921 da un gruppo di scrittori idealisti (Poets e Playwrights poeti e commediografi è la P, Essaysts ed Editors saggisti e giornalisti è la E, e Novelists romanzieri per la N), che credevano che la parola scritta avesse una forza tale da poter facilitare il dialogo tra i popoli e le nazioni. Non ci mise molto a crescere e a trovare consensi nell'ambito dei più importanti circoli intellettuali del mondo.
Oggi, i centri di PEN sono saliti a quota 144 e contano più di 15 mila membri. Solo in Inghilterra ne abbiamo più di mille, tra cui compaiono i nomi di commediografi del calibro di Harold Pinter e Tom Stoppard, di scrittrici come Doris Lessing e Zadie Smith, e di giornalisti al livello di Polly Toynbee.

La Costituzione di PEN stabilisce che la letteratura "non conosce frontiere, e dovrebbe circolare liberamente tra le nazioni, a dispetto degli sconvolgimenti politici e internazionali". Conseguentemente, i membri di PEN "si impegnano ad opporsi ad ogni forma di soppressione della libertà di espressione nel paese e nella comunità cui essi appartengano, nonché nel resto del mondo, ovunque sia possibile operarsi in tal senso".

Nei primi anni di vita, questo impegno si traduceva nella difesa del diritto di espressione di alcuni scrittori che, a causa dei loro scritti, si ritrovavano a dover rispondere ai regimi totalitari di Germania, Unione Sovietica e Cina.
Poi i problemi che si prospettavano sul cammino intellettuale degli scrittori sono cominciati ad aumentare, e la risposta di PEN, parallelamente, si è ampliata, fino al giorno in cui è stata creata la Writers in Prison Commettee, proprio nel periodo in cui la Guerra Fredda sfiorava il suo culmine.
La WiPC ha il compito di sorvegliare senza tregua quegli scrittori tenuti sotto assedio di censura, piccole violenze, imprigionamento, tortura e, talvolta, perfino di cruda esecuzione fatale.
In ogni paese dove esista un centro di PEN esiste anche una WiPC, che comunica costantemente col nostro quartier generale di Londra. Alexander Solzhenitsyn, Vaclav Havel, Boris Pasternack, Wole Soynka sono tra i primi nomi illustri che PEN ha tutelato. E tante sono state le relazioni (non solo intellettuali) che si sono consolidate tra i membri.
Nel 1984, lo scrittore turco Orhan Pamuk scortava in giro per Istambul una delegazione su missione di PEN composta da Harold Pinter e Arthur Miller.

Oggi sulla nostra agenda sono scritti più di 1.000 nomi.
E per ogni accusa che decade, ce n'è una nuova che viene formulata. Le sfide che dobbiamo affrontare si sono evolute (stiamo difendendo un numero sempre maggiore di bloggers, per esempio), ma i principi rimangono gli stessi, e PEN è rimasta una costante presenza nella vita degli scrittori di tutto il mondo da molti decenni ormai. Il giorno che è stato rilasciato, nel 1988, lo scrittore iraniano Faraj Sarkouhi ha usato per PEN queste parole: "è una meravigliosa e promettente manifestazione di solidarietà quella di coloro che tengono in gran conto la libertà d'espressione, il pensiero, la creatività culturale e la dignità umana".

L'immutata importanza di questo lavoro, e la profonda esperienza di PEN nella lotta internazionale a favore degli scrittori messi a tacere: questo è ciò che sta dietro la mia convinzione che dobbiamo stare in guardia anche da nuove leggi repressive in Occidente addirittura qui, da noi, in Inghilterra.
Dopo aver avuto a che fare con la Turchia, la Cina, l'Iran, le Maldive, il Myanmar, e un'innumerevole schiera di paesi in via di sviluppo, abbiamo maturato l'opinione che i governi hanno sempre una buona scusa per dare una passata di censura. I motivi ufficiali per cui vengono poste limitazioni alle libertà degli scrittori da parte dei governi sono di 'coesione sociale' o di 'sicurezza nazionale'. Per loro sarebbe un onere politico troppo gravoso ammettere che sono solo disturbati da quello che sentono e leggono.
Ovunque ci sia un governo che decide cosa può essere detto e cosa no, lì c'è censura. Ovunque un governo non faccia di tutto per proteggere uno scrittore dalla minaccia alla sua vita e al suo lavoro, perpetrata da violente bande scandalizzate dalle sue parole, lì pure c'è censura.

In Gran Bretagna assistiamo ormai da qualche tempo ad una disputa che vede opposti gli scrittori, da una parte, e, dall'altra, alcune minoranze, che credono che sia loro diritto non essere raccontati in teatro, al cinema o in un romanzo. Nel gennaio 2005, a Birmingham, lo spettacolo teatrale di Gurpreet Kaur Bhatti, Bezhti ("disonore") venne chiuso in seguito alle proteste di alcuni Sikh che ritenevano offensivo il punto della sceneggiatura in cui una donna viene stuprata in un tempio Sikh. Anche la successiva produzione, messa in scena nello stesso teatro, ha messo in pericolo lo sceneggiatore. Si trattava di Bells di Yasmin WhittakerKhan, una pièce sul chiuso mondo delle Mujira, dancing clubs tipici nel Sudasiatico e ormai diffusi anche in Gran Bretagna. Nello stesso periodo, in Irlanda del Nord, lo spettacolo teatrale, e televisivo, di Gary Mitchell sulla comunità lealista (i Loyalists sono i protestanti che nell'Irlanda del nord vogliono restare uniti alla Gran Bretagna) della Belfast del nord gli ha fruttato una serie di minacce di morte che lo hanno obbligato a nascondere la propria famiglia. La pubblicazione del romanzo di Monica Ali, Brick Lane, è stato ostacolato dai membri della comunità bengalese di origine Sylheti dell'East London, che l'accusavano di pregiudizio razziale (Ali è solo metà bengalese, e suo padre è originario degli ambienti ricchi di Dakar). Ancor più recentemente la produzione del film Brick Lane è stata bloccata da un'ennesima campagna ostruzionista.

In tutti questi casi, la produzione e la diffusione dei lavori artistici è stata ostacolata da rappresentanti comunitari non eletti. Il diritto di queste comunità a non venire offesi da quelle opere d'arte che le mettono in cattiva luce va, ovviamente, difeso. C'è bisogno di uno spazio nel dibattito nazionale in cui si discuta delle problematiche relative alle derive radicalmente critiche di questi lavori. Ma, se il governo non onorerà il suo impegno nei confronti di scrittori e artisti, il loro diritto di libera espressione non sarà salvaguardato. La Gran Bretagna non avrà le stesse leggi della Turchia, come quella che previene "la diffamazione dello stato turco", ad esempio; ma se un governo non esprime un chiaro segnale nell'interesse della libera espressione, si rischia di scivolare nella direzione di una censura senza controllo, dove le comunità si sentono in diritto di censurare qualsiasi opera che metta in discussione la loro visione di se stesse. Spesso, infatti, ci si trova in una situazione in cui ci sono delle élites della comunità che si autonominano custodi di visioni, che non necessariamente rispecchiano la realtà vissuta dagli altri membri della comunità in particolare dalle donne. È un nostro dovere preoccuparci quando la censura culturale proibisce la fioritura di lavori innovativi all'interno delle comunità stesse. Come potremo mai riuscire a capire chi sono i nostri nuovi vicini se essi non hanno la libertà di raccontarcelo?

All'inizio del 2005, il Presidente di English PEN, Lisa Appignanesi, ha condotto una campagna contro un disegno di legge del Governo sull'odio religioso. Questa campagna battezzata col nome "Free Expression is NO OFFENCE" ha riunito un numero mai visto di gruppi intellettuali e religiosi a favore della libertà di parola. Il timore era che il tentativo governativo di promulgare una legge contro l'incitamento all'odio religioso avrebbe criminalizzato l'espressione di qualsiasi sentimento antireligioso. Questa paura si è attizzata quando il parlamentare laburista Khalid Mahmood ha sostenuto nel corso di un dibattimento che I Versetti Satanici di Salman Rushdie sarebbero stati passibili di processo penale.
Nonostante le assicurazioni del contrario manifestate dal Ministero dell'Interno e del Dipartimento per la Cultura, lo Sport e i Media, English PEN rimase preoccupato che il disegno di legge rappresentasse un intollerabile minaccia alla libertà di espressione nel Regno Unito, e, grazie al sostegno di alcuni parlamentari, leader nel campo dei diritti umani, in entrambe le Camere in particolare Evan Morris (MP) e Lord Anthony Lester (QC) siamo riusciti far correggere la legge, con l'inserimento di una clausola che garantisse che nessun lavoro artistico rischiasse di cadere sotto accusa di offesa.
Il cosiddetto "PEN Amendment" alla legge sull'odio religioso custodisce il principio secondo cui la libera espressione è fondamentale per una sana democrazia. I lobbisti musulmani hanno sostenuto che la legge britannica contiene dei pregiudizi nei loro confronti, nel senso che l'attuale legislazione in tema di blasfemia od odio razziale non offre loro la stessa protezione che viene garantita ai cittadini di religione Cristiana, Ebraica e Sikh. Siamo d'accordo che la legge è squilibrata e imperfetta; ma la nostra opinione è che la legge non dovrebbe spingersi troppo in profondità nell'arena dell'arte e della religione, ma, piuttosto, ritirare i suoi tentacoli. Noi di English PEN stiamo cominciando ad indagare sui molteplici modi in cui la legge inglese proibisce la libertà di espressione. Alcune di queste limitazioni, come quella sulla diffamazione a mezzo stampa o sui casi di oltraggio, possono essere giustificabili sulla base della protezione che offrono alla reputazione delle persone. Altre, come la legge contro la blasfemia o contro la violazione della riservatezza, rischiano di decurtare libertà preziose. Solo dipanando la matassa arruffata della legge, e riportando queste supposte offese al livello dei valori fondamentali, possiamo sperare di fare un po' di luce sulla realtà. Questi non sono affari che interessano solo gli scrittori e gli artisti che desiderano rappresentare le religioni e le culture nelle loro opere, ma riguardano tutti noi che diamo il giusto valore alla libertà di parlare pubblicamente della nostra identità.
Anche se in apparenza la nostra missione sembrerebbe essersi allontanata molto dalla concezione che ne avevano i fondatori di PEN nel 1921, io credo che noi ancora oggi condividiamo il loro punto di vista che poi è quello stabilito dalla nostra Carta che la letteratura "non conosce frontiere". Fin dalle sue origini, PEN si è trovata in prima linea nella gestione dei conflitti ideologici che hanno straziato l'Europa e il mondo nel corso del XX° secolo. Questi conflitti sono mutati fino a diventare quasi irriconoscibili, ma non per questo hanno perso la facoltà di generare tensione intorno alla libertà d'espressione. E queste tensioni sono particolarmente acute nella sinistra liberale, dove si sta rischiando di distruggere quel "consenso progressista", che lega i liberali di centrosinistra ai socialisti democratici nell'irrequieta coalizione del New Labour. Molti, sia da destra sia da sinistra, hanno osservato che oggi siamo obbligati a scegliere tra il nostro impegno a favore della libertà e il nostro credo nell'uguaglianza. La controversia scaturita in seguito alla pubblicazione delle vignette sul giornale danese Jillands Posten nel settembre del 2005, ad esempio, lasciava intendere che la satira, tanto amata dagli Europei, andava limitata, se non si volevano offendere gli Europei musulmani. Ma l'esperienza che PEN ha maturato in ben ottantacinque anni di campagne a favore degli scrittori mostra che c'è sempre una buona ragione per allargare il raggio d'azione della censura. Non fare niente per evitare che la censura allarghi i suoi confini è facile, molto, ma molto, più facile che spingerla di nuovo entro i suoi limiti in un secondo tempo.

Non è necessario scegliere tra libertà e uguaglianza. Invece, dobbiamo sforzarci tenacemente di dimostrare che, perché una società sia giusta ed aperta, non si può prescindere da una cultura letteraria libera e vigorosa, che tanto può offendere, ma tanto può ricompensare. Senza questa libertà, credo, la Gran Bretagna multiculturale del XXI° secolo farà fatica a sviluppare un senso di strategia comune, necessaria perché il nostro paese faccia un passo avanti.

Direttore di English PEN - Londra

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