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LA PANDEMIA ECONOMICA GLOBALE

La crisi finanziaria americana non può essere fermata ed ha già cominciato ad infettare diversi Paesi. L’analisi di Nouriel Roubini per Foreign Policy e di David Leonhardt del New York Times

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Per mesi si è discusso attorno all'ipotesi che gli Usa stessero scivolando verso la recessione, ma ora non vi sono più dubbi in proposito. Nonostante gli sforzi dell'amministrazione Bush e della Fed,  la crisi finanziaria è già in corso. La carenza di liquidità causata dal crollo dei mutui subprime sta devastando il sistema creditizio e il prezzo del petrolio ben sopra i 100 dollari al barile sta impoverendo i consumatori. Nel frattempo, come evidenziato da un rapporto governativo, la disoccupazione cresce.  L'economia Usa non è afflitta da un malanno passeggero, ma è affetta dai primi sintomi di una malattia molto seria.

Molti altri Paesi si augurano di sfuggire al contagio, ma il rischio è enorme. Negli ultimi anni l'economia internazionale ha vissuto su di un equilibrio instabile, con gli americani intenti a spendere più di quanto guadagnassero e perciò costretti ad accumulare ingenti debiti verso il resto del mondo. I consumatori americani spendono 9000 miliardi di dollari all'anno, quelli cinesi 1000 soltanto, mentre gli indiani si limitano a 600 miliardi. In Europa e in Giappone la bassa crescita e l'insicurezza rispetto ai futuri sviluppi dello scenario globale fanno sì che i consumatori preferiscano risparmiare. Appare dunque altamente improbabile che altri Paesi possano compensare la riduzione del consumo statunitense, che peraltro si sta già verificando, ed evitare in tal modo un marcato rallentamento globale.

Del resto, gli Stati Uniti rappresentano ancora un'enorme fetta della global economy, producono il 25% del Pil mondiale e sono coinvolti in una parte ancora maggiore delle transazioni finanziarie. Il virus che sta crescendo in seno all'America è destinato purtroppo a propagarsi, causando non necessariamente una recessione a livello mondiale ma determinando senz'altro l'impoverimento di molti.

In particolare, Roubini, direttore del centro di consulenza economica RGE Monitor e professore alla New York University's Stern School of Business, prevede nel prossimo futuro una contrazione negli scambi commerciali, un ulteriore indebolimento del dollaro, la diffusione globale degli effetti dell'esplosione della bolla immobiliare, la drastica riduzione dei prezzi delle materie prime e, last but not least, il crollo della fiducia degli operatori finanziari. Se un simile scenario dovesse materializzarsi, ben pochi potrebbero trarre vantaggi mentre molti verrebbero pesantemente penalizzati. La lista dei Paesi in difficoltà rischierebbe di essere molto lunga, gli effetti della recessione Usa devastanti sulla salute dell'economia di molte regioni e macro-aree.

Gli ottimisti confidano nella capacità delle banche centrali di anestetizzare l'effetto panico ingenerato dalla recessione Usa, prendendo come augurale riferimento il recupero mondiale dalla crisi americana del 2001. Oggi, il margine di manovra delle banche centrali nell'utilizzo di strumenti monetari per stimolare l'economia e limitare i danni del rallentamento globale risulta peraltro più limitato rispetto al passato. Esse devono fare i conti con più alti livelli inflazionistici. Inoltre, un continuo taglio del tasso di interesse indebolirebbe ancora il dollaro. Ma un dollaro svalutato rappresenta un gioco a somma zero per l'economia globale, beneficiando la competitività Usa ma colpendo quella dei partner commerciale dell'America.

Questa volta le misure di politica monetaria sarebbero dunque di scarsa utilità, anche a causa dell'attuale saturazione del mercato dei beni di consumo, della casa e dell'automobile, poco sensibili nel breve e medio periodo a variazioni del tasso d'interesse. Gli Usa stanno fronteggiando una crisi finanziaria che va oltre le problematiche legate ai subprime e che coinvolge aspetti della vita economica che la Fed non è in grado di influenzare significativamente con le sue politiche. Come se non bastasse, anche la leva fiscale sembra inadeguata a scongiurare lo spettro recessivo. Gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone sono afflitti da deficit strutturali che non permettono interventi radicali sulle finanze pubbliche da parte dei rispettivi governi. Durante la scorsa recessione, l'America, manovrando la politica fiscale, è passata da un surplus pari al 2.5%  del Pil nel 2000 ad un deficit del 3.2 nel 2004. Il governo Usa oggi, trovandosi a gestire un ampio deficit di bilancio, non può più permettersi operazioni del genere.

Il pacchetto di interventi fiscali elaborato dal presidente Bush è troppo limitato per conseguire obbiettivi apprezzabili nel breve termine e il recente attivismo della Fed è insufficiente e intempestivo. Serviranno anni per porre rimedio alle carenze strutturali che sono all'origine della situazione attuale, ossia scarsa regolamentazione del sistema dei mutui, mancanza di trasparenza nella gestione di complessi prodotti finanziari, inadeguata gestione del rischio da parte delle istituzioni finanziarie ecc.

In conclusione, se l'interdipendenza economica globale diffonde la crescita nei periodi felici, sfortunatamente i legami commerciali e finanziari che interconnettono il mondo fanno in modo che uno scompenso avvertito in punto del sistema internazionale finisca col ripercuotersi altrove. Non tutte le nazioni seguiranno gli Usa nella spirale recessiva, ma nessuna di esse potrà esser certa di rimanerne immune.







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