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IL CRIPTO-MARXISMO DELLA SINISTRA "LIBERALE"

La sinistra contemporanea, negli Stati Uniti come in Europa, si è presentata al suo ingresso nel XXI secolo con l’identità immacolata di chi è sempre stato dalla parte giusta della storia

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Simona Bonfante

In un esilarante contributo - How crypto-Marxism won the Cold War – apparso sulla rivista American Thinker, si riflette sulla straordinaria abilità con la quale la sinistra contemporanea, negli Stati Uniti come in Europa, si sia presentata al suo ingresso nel XXI secolo con l'identità immacolata di chi è sempre stato dalla parte giusta della storia dell'umanità: dalla parte dell'ambiente, del capitalismo equo e solidale, delle libertà.

Come se non avesse combattuto sul fronte del totalitarismo contro quello della democrazia; come se non avesse mai considerato l'America  un impero del male ma, al contrario, un campione di democrazia; come se non avesse mai avuto – come un riflesso condizionato – l'istinto ad issare la falce ed il martello del proletariato represso alla semplice evocazione del termine “capitalismo”. Come se non avesse atteso che l'ultima pietra del muro di Berlino cadesse prima di ammettere che sì, forse il comunismo non era quella meraviglia che si credeva; e che sì, forse i compagni che fuggivano dall'Unione Sovietica cercando rifugio nel mondo libero occidentale non erano dei traditori venduti alle lusinghe del capitale, ma dissidenti, combattenti per la libertà, vittime degli orrori di un regime asfissiante e mortifero perché marxista.
Il lifting ideologico operato dalla sinistra negli ultimi venti anni – dalla caduta del regime sovietico in poi – invece ci ha restituito una generazione politica linda, virginale, eticamente pura.

Quella sinistra che, nel volgere di una nottata, vira dal rosso ciliegia al verde pisello, è la stessa che da ventanni si è arrogata il diritto di sedere sulla cattedra di storia del mondo contemporaneo ad impartirci lezioni sul bene e il male, a stilare la lista dei buoni e dei cattivi, preoccupandosi di chiarire che dalla parte dei primi non si contano altro che figure provenienti dalla tradizione solidaristica, liberale, ambientalista che è appunto quella dalla quale proviene la sinistra.

Ora, osserva James Lewis, autore di questo insolentissimo, breve manuale di anti-comunismo applicato, se la sinistra è riuscita in un'impresa così azzardata di lavaggio di ideologia sporca, non è solo per merito proprio ma perché, dopo aver vinto la battaglia della libertà, sconfiggendo il comunismo – non solo l'Unione Sovietica ma la sua stessa essenza dottrinaria, il marxismo – la destra ha lasciato ad altri la responsabilità di scrivere la storia. E questo qualcun altro ha ben pensato di approfittarne, lasciando ai posteri una versione della realtà depurata delle atrocità ideologiche e materiali commesse in nome di Carlo Marx, sbianchettata delle responsabilità epocali di un'intera tradizione ideological, falsificata, mistificata.

Insomma, la storia di una sinistra che ha sempre avuto la libertà nel proprio DNA, che non è mai stata totalitaria ed ancor meno comunista!

Non si può non cogliere nella provocazione culturale del nostro “American thinker” la tragica verità delle democrazie contemporanee.

Ma non ci si può esimere dall'osservare come nella sua pur fondata denuncia dell'opportunismo gauchiste vi sia una buona dose di approssimazione. Innanzitutto, perché l'autore mette sul medesimo piano sinistra americana e sinistra europea – una leggerezza, se non un vero e proprio errore; ed in secondo luogo, perché il postulato dal quale parte il ragionamento di Lewis è che sinistra e marxismo sono esattamente la stessa cosa. E questa, se non proprio una bestemmia, è quanto meno una scorciatoia semantico-ideologica.

I lettori di Critica Sociale sanno meglio di chi scrive quanto radicale, profonda, geneticamente immodificabile sia la distinzione tra socialismo democratico e marxismo (comunismo); una distinzione talmente cruciale da aver marcato la storia personale di molti di loro; di quanti, almeno, hanno animato, sostenuto, accompagnato le battaglie liberali del Partito Socialista di Bettino Craxi.

Non è questa la sede per ripercorrere quel virtuoso – e purtroppo anche doloroso – cammino sulla strada della democrazia italiana che si è concluso con la vittoria culturale del leader socialista, la sua morte giudiziaria, e la cancellazione del PSI dagli annali della storia patria.

È evidente a tutti, infatti, che quello che è successo in Italia è esattamente quello che Lewis denuncia nel suo breve essay: la penna che ha scritto la nostra recente storia repubblicana è finita in mano ai comunisti. O meglio, i comunisti hanno fatto in modo che finisse nelle loro mani. Loro hanno stilato la classifica dei buoni e dei cattivi; loro ci hanno raccontato la storia del socialismo italiano; e loro si sono auto-raccontati quando, ormai conosciuti come “democratici di sinistra”, si candidavano a traghettare il paese verso la normalità democratica della Seconda Repubblica.

Loro sì, sono quei “cripto-marxisti” di cui parla Lewis: quelli che – si potrebbe dire - comunisti erano e comunisti sono rimasti. Che non hanno mai fatto “mea culpa”, ma lo hanno fatto fare agli altri. Che si sono ripuliti del peso del passato, degli orrori della loro storia, delle responsabilità talvolta personali talvolta ereditarie, semplicemente cambiando colore all'abito indossato da sempre. È così che il rosso è diventato verde, rosa, arcobaleno. Una ricca varietà ideologico-cromatica che non è mai riuscita a far sparire il rosso di fondo.

Il discorso potrebbe essere esteso ai socialisti francesi che oggi – solo oggi – si presentano “decomplessati”, emancipati da un passato illiberale che hanno rivendicato fino a due anni fa, quando si battevano per il “no” al referendum sulla costituzione europea perché giudicata “liberale”.

Oggi, invece, tocca a Bertrand Delanoe, un socialdemocratico intellettualmente acuto e, senz'altro il miglior candidato leader  che il Partito Socialista francese sia oggi in grado di esprimere, sdoganare il portato semantico del termine “liberale”. Nel suo “De l'audace”, appena pubblicato in Francia per i tipi di Robert Laffont, l'apprezzato sindaco di Parigi compie un distinguo tra “cultura liberale” e “liberismo economico”: la prima – che Delanoe non esita a sposare – è ideologia di libertà; il secondo – che opportunamente liquida come un residuato della cultura conservatrice – non è che il paradigma di un capitalismo irresponsabile e insensato sostenuto tradizionalmente da una destra desiderosa di mantenere l'egemonia delle minoranze abbienti sulle masse dei lavoratori privati dei mezzi per accedere al tavolo di gioco del libero mercato.

Delanoe fa bene a prendere in mano la bandiera delle libertà – che nel suo caso coniuga la causa liberale a quella libertaria; e fa bene anche a rivendicare l'appartenenza alla tradizione social-democratica, con la convinzione che solo un socialista democratico - come lui è sempre stato – può permettersi di esprimere. “Il principio è semplice – scrive il nostro. Non c'è oppressione giusta, non ci sono catene che sia legittimo imporre, non c'è dunque ineluttabilità alla schiavitù”.

Essere liberali significa amare e rispettare la libertà. La propria e quella degli altri. E non si può amare la libertà – amarla e rispettarla autenticamente – se la si è denigrata, combattuta, annichilita in nome di un'ideologia liberticida e distruttiva come è il marxismo.

Forse allora varrebbe la pena riflettere su un dato: non basta vincere la storia, bisogna anche saperla scrivere.






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