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I DIRITTI NEL TERZO MILLENNIO

Le democrazie davanti alla ripresa dell’autoritarismo e il modello dell’Osce. Intervista a Matteo Mecacci

Data: 2010-04-14

Critica Sociale

Matteo Mecacci, parlamentare italiano, è Rapporteur for Rights and Democracy presso l'Assemblea dell'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.  Lo incontriamo a Ginevra, a margine della Conferenza per i diritti umani, la tolleranza e la democrazia.

A Ginevra Lei ha moderato un'importante sessione relativa ad autoritarismo e dissenso nel ventunesimo secolo. In tema di diritti, viene alla mente il lavoro di Samuel Huntington, il noto studioso americano recentemente scomparso, che ha descritto “l'ondata di democratizzazione” che ha investito il mondo negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, raggiungendo il suo apice nel 1989. Da allora quel processo sembra essersi arrestato, soprattutto nell'ultimo decennio. Quale è la sua interpretazione?

Negli anni novanta del novecento la comunità internazionale ha tratto indubbiamente spunto dall'avanzare del processo di democratizzazione per approvare delle norme di notevole importanza. Mi riferisco alla campagna per l'eliminazione delle mine anti-uomo, all'istituzione della Corte penale internazionale (Cpi), che risale al 2002, all'affermazione della moratoria universale sulla pena di morte. Una serie di risultati significativi, che hanno posto la tutela dei diritti umani al centro della politica internazionale. Risultati ottenuti grazie alla nuova atmosfera che caratterizzava le relazioni tra Stati dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Con la fine del sistema sovietico a Mosca venne infatti a mancare il più insidioso ostacolo all'allargamento dei diritti e del pluralismo, anche se è da notare come Russia e Cina siano rimaste ai margini del processo di liberalizzazione che ha preso piede in quegli anni.
A mio avviso, proprio in quella fase i paesi democratici persero la grande occasione per formalizzare, a livello politico e istituzionale, un'organizzazione internazionale che raccogliesse tutti i paesi che si riconoscevano nei valori libertari e liberali.

Una comunità delle democrazie?

Mi riferisco a una vera e propria "Organizzazione mondiale delle democrazie e della democrazia", che sia non solo e non tanto un'alleanza strategico-militare come è stata e può continuare a essere la Nato - che ha svolto e svolge una funzione fondamentale - ma un'istituzione più vasta, aperta ad altri paesi e con istituzioni politiche comuni che monitorino il rispetto dei diritti umani, si diano strumenti d'intervento nelle crisi umanitarie e possano affrontare le grandi questioni globali sulla base di principi democratici condivisi e con valore di legge. Un'istituzione che si occupi però anche del degrado dei paesi di democrazia meno recente, come l'Italia e non solo, sulla base dell'esperienza di istituzioni come l'Osce che hanno fatto tanto per consolidare la democrazia nell'area euro-asiatica attraverso il monitoraggio elettorale, ma che purtroppo sono inadeguate ad affrontare questioni più profonde, come la libertà di informazione dei cittadini nelle democrazie moderne.
Insomma, si tratta di lavorare per l'istituzionalizzazione di un'alleanza tra le democrazie, che storicamente ha coinvolto e riguardato le relazioni transatlantiche ma che ora, grazie anche alle citate ondate di democratizzazione che sono avvenute in altri continenti, deve essere necessariamente estesa a paesi Brasile, India, Sudafrica e agli altri paesi emergenti che hanno scelto la via democratica, seppur alla fine di un processo più lento e accidentato. Non si tratta di un'alleanza contro le dittature, contro la Cina, la Russia, l'Iran o i paesi del Golfo. Se fosse concepita così, come la proponevano alcuni ambienti neoconservatori americani, sarebbe già morta in partenza. Si tratta di un'operazione propositiva che potrebbe e dovrebbe coinvolgere tutti i paesi che si dicono democratici e che accettino di far monitorare i propri sistemi politici da istituzioni giurisdizionali, come avviene ad esempio nel Consiglio d'Europa dove la Russia è presente, ed oggetto di serie critiche (come del resto viene aspramente criticato il sistema giudiziario italiano).
Come ho detto, negli anni novanta si è purtroppo persa l'occasione storica di trasformare "l'obiettivo democratico" nel faro dell'azione geopolitica degli Stati che lo hanno messo a fondamento dei propri ordinamenti interni. Non è stato così possibile sfruttare il processo di globalizzazione per diffondere i principi e le buone prassi democratiche all'interno dei regimi autoritari.
Quello di cui occorre essere consapevoli è che nelle dinamiche dell'attuale competizione globale vi è il rischio che i modelli politici proposti da paesi come Cina e Russia finiscano per imporsi grazie alle significative performance economiche che vengono ottenute al netto del rispetto dei principi democratici e dello Stato di diritto. Non escludo, infatti, che qualche leader europeo, a partire dal nostro paese sia nella maggioranza che nell'opposizione, sia molto affascinato dalla prospettiva di un modello di governo semi-autoritario che possa garantire una condizione economica accettabile a buona parte delle popolazione, ma con forti limitazioni delle libertà individuali; a partire dalla libertà di informazione. Con il crollo dell'Unione Sovietica, il Mercantilismo sembra essere tornato la priorità politica di molti paesi europei, e questo dovrebbe far preoccupare molti, perché se continuerà a essere così, significa che il progetto politico dell'Unione Europea è già morto.
Davanti all'ascesa economica dei nuovi autoritarismi, la forza attrattiva della democrazia come area di libertà e fonte di benessere - prospettiva che negli ultimi 20 anni ha incentivato molti paesi dell'est Europeo a fare importanti riforme attraverso il processo di adesione all'UE - è ormai molto affievolita. E allora, nessuno si stupisca a fronte del grande successo politico ottenuto dalla Cina nel continente africano, dove la Repubblica popolare investe pesantemente da anni senza porsi (e soprattutto porre) troppe domande sulla natura e le pratiche dei regimi con cui collabora, Sudan in primis.

Cosa contrapporre a questo  scarno pragmatismo, che prescinde da valutazioni etiche?

Bisogna recuperare la convinzione che tutela della democrazia, dello stato di diritto e il rispetto dei diritti umani costituiscano l'essenza stessa dell'azione geopolitica dell'Occidente, e che non si tratta di inutili orpelli privi di significato concreto. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Ue e la Nato non sono nate semplicemente per contrastare un nemico comune, ma soprattutto per ribadire l'adesione dei paesi membri a un modello di società ben preciso, ispirato al comune sentire liberaldemocratico. Se si perde di vista quell'originaria ispirazione comune si minano alle basi i presupposti della sopravvivenza dei sistemi liberali. Lo vediamo negli accordi di varia natura conclusi con governi autoritari in nome di una fraintesa realpolitik. Mi spiego. Quando i paesi di quello che un tempo veniva definito il "mondo libero" si lasciano guidare unicamente da considerazioni economicistiche nei loro rapporti politici e commerciali con regimi intrinsecamente anti-liberali (un esempio su tutti, l'Iran), essi finiscono per indebolire fatalmente il blocco "liberale" che finora si è manifestato solo nell'area euro-atlantica. Un'area che ha ancora le potenzialità per far sentire la propria voce negli affari globali, sia a livello politico che economico militare, a patto però di recuperare un'ispirazione globale condivisa e coerente.

Il tentativo della precedente amministrazione Usa di esportare la democrazia in tutto il Medio Oriente non sembra aver dato risultati entusiasmanti e diffusi. Allora come è possibile agevolare l'attecchimento dei principi democratici in maniera equilibrata e duratura? Sotto questo profilo le affermazioni elettorali di movimenti come Hamas ed Hezbollah rappresentano indubbiamente delle criticità.

Come ho detto esiste il precedente storico dell'Osce, che nel 1975 riunì sotto la sua egida paesi che ben poco avevano da spartire dal punto di vista dei principi liberal-democratici, se non la contiguità geografica. Parteciparono, infatti, anche paesi allora sottoposti all'egemonia sovietica e anche se non furono0 stipulati tratti vincolanti, cionondimeno, il fatto di aver trovato una intesa che prevedesse discussioni congiunte su tematiche quali sicurezza, l'economia e diritti umani - con impegni politici precisi - finì per creare contraddizioni e lacerazioni all'interno di quei sistemi politici che non rispettavano determinate prerogative e garanzie nei confronti dei propri cittadini. Oggi, pur tra mille difficoltà, in Cina, in Russia e in Iran esistono delle forme di dibattito interno e una dialettica che in alcuni casi hanno dato vita anche  movimenti di opposizione, come abbiamo visto in Iran. La risposta privilegiata da quei governi è stata la repressione e spesso le contestazioni sono rimaste isolate, nonostante una qualche attenzione dell'opinione pubblica internazionale. Da qui nasce la mia considerazione sull'utilità di un organismo internazionale che permetta un dialogo tra i governi su di una pluralità di temi: dalle intese sulle regole per scongiurare il ciclico ripetersi delle crisi economiche, alle misure per prevenire il terrorismo transnazionale, con una chiave di lettura che non può non mettere in discussione il fallimento globale del proibizionismo, dagli impegni per limitare gli effetti del riscaldamento globale al riconoscimento della centralità dei diritti dell'individuo. Costituire un organismo dove fosse possibile discutere all'interno di una nuova cornice internazionale, delle tematiche che più stanno a cuore alla comunità internazionale creerebbe le condizioni per strappare impegni agli Stati autoritari, se non di tipo giuridico, quantomeno politici. Tutto questo, credo, favorirebbe il reciproco rispetto e la mutua comprensione delle differenze che esistono e segnerebbe un passo avanti rispetto allo spirito da crociata che ha provocato molti guasti nel recente passato. L'amministrazione Bush ha commesso l'errore di conferire alla guerra in Iraq i tratti di una missione civilizzatrice, con una guerra voluta ad ogni costo e contro le evidenze e prospettive alternative (sappiamo oggi) scatenando così la reazione negativa della stragrande maggioranza del mondo musulmano che ha interpretato la "esportazione della democrazia" come uno slogan vuoto al servizio di altri interessi.
Questo organismo avrebbe inoltre il vantaggio di valorizzare finalmente il ruolo dell'Europa. Se è vero infatti, che l'azione degli Stati Uniti si è recentemente esposta a critiche e contestazioni, è altrettanto incontestabile come negli ultimi tempi si sia persa ogni traccia del soft power tanto decantato da Bruxelles. Con il suo atteggiamento ondivago rispetto all'ammissione della Turchia all'UE, al controllo delle frontiere e ai rapporti con le comunità islamiche, l'Unione non ha certo contribuito ad abbattere i muri che si frappongono al dialogo con i paesi dell'area mediorientale e mediterranea, che dovrebbe invece essere, per affinità culturali e prossimità geografica, l'interlocutrice privilegiata. Sotto questo profilo, l'Europa dovrebbe muoversi con il suo peso e la sua autorevolezza per indurre i governi della sponda sud del mediterraneo a mettere in pratica quei solenni principi di tutela dei diritti che essi dichiarano solennemente di rispettare in sede Onu, ma che nella pratica spesso disattendono.

Analizziamo un caso concreto. Il presidente sudanese Omar al-Bashir è stato il primo capo di Stato incriminato  dalla Corte penale internazionale per gravi violazioni dei diritti umani in Darfur. Contro di lui è stato spiccato uno storico mandato d'arresto per crimini di guerra e crimini contro l'umanità.  In questo momento la sentenza è sospesa in attesa di nuovo giudizio, che potrebbe aggiungere il riconoscimento di colpevolezza anche per genocidio. Quale futuro per la giustizia penale internazionale?

La vicenda di al-Bashir è vitale per il destino della Cpi. Voglio sottolineare il valore della semplice incriminazione del presidente sudanese,  che ha costituito una pietra miliare in decenni di lotta per la difesa delle vittime delle atrocità commesse dai governi. Dopo anni di gravissime violenze nella regione del Darfur, l'emissione del mandato d'arresto ha avuto un valore simbolico rilevante: in via di principio, mai più in futuro saranno tollerati simili comportamenti, tanto meno da parte di un capo di Stato.
Un motivo in più per respingere con vigore gli attacchi alla Corte da parte del presidente libico Muhammar Gheddafi in merito al caso al-Bashir. I paesi che hanno voluto e sostenuto la Cpi, europei in testa, hanno il dovere di evidenziare come la condanna del presidente sudanese sia scaturita da un procedimento giudiziario con tutti i crismi della legalità e non (come suggerisce Gheddafi) dall'ennesima losca manovra occidentale per colpire un avversario. Gli oltre cento paesi che hanno aderito alla Corte dovrebbero essere vigili per evitare che un organismo di tale rilevanza finisca preda di veti contrapposti o venga screditato come "agente terroristico" (definizione sempre del leader libico). Invece, ravviso un silenzio assordante e poco rassicurante; forse il petrolio libico fa sentire il suo peso, in Africa e altrove.
Dal 31 maggio all'11 giugno si discuterà in un vertice a Kampala (Uganda) della revisione dello Statuto della Corte. E' un passaggio delicato e c'è da augurarsi che la presenza dell'Occidente sia adeguata. Sarebbe auspicabile che si mobilitassero i vertici dei ministeri degli Esteri e delle cancellerie, non i diplomatici di professione che, con tutto il rispetto per la loro preparazione, non hanno l'autorevolezza politica per discutere di una tematica di tale rilevanza. (Intervista a cura di Fabio Lucchini)






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