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Lucio Caracciolo, Limes, 8 gennaio 2009,

Per i fratelli Castro l'avvento di Obama alla Casa Bianca è un segno di malaugurio. Fra i fedelissimi di Fidel (meno fra i pragmatici uomini di Raùl), il timore è che il nuovo leader americano levi finalmente l'embargo contro Cuba, imposto quasi mezzo secolo fa, così togliendo al regime l'ultimo alibi.

Nell'Avana diroccata e piuttosto depressa che si appresta a celebrare in tono minore il cinquantenario della rivoluzione il bloqueo è il perno intorno al quale ruota la pseudomobilitazione permanente contro l'invasione a stelle e strisce. Qualsiasi persona informata e di buon senso sa che nessuno a Washington pensa di ripetere la disastrosa impresa della Baia dei Porci (17 aprile 1961). Cose da guerra fredda quando gli Stati Uniti davvero vedevano Cuba come avanguardia dell'Unione Sovietica nello Stretto di Florida. Oggi per gli strateghi Usa Cuba è poco più che una questione di politica interna. Nel senso che chiunque voglia conquistare il voto floridiano alle elezioni presidenziali o parlamentari deve tener conto della robusta comunità degli esuli cubani. Peraltro ormai in maggioranza propensi al dialogo con ciò che residua del regime castrista.

Di fatto, l'embargo è già allegramente aggirato. Gli Stati Uniti sono un partner commerciale fondamentale per Cuba. Senza i beni di base provenienti dagli yankees e da altri occidentali (tra cui in prima fila anche noi italiani) i cubani sarebbero alla fame. Sotto il velo di una propaganda in cui nessuno crede più, la vita quotidiana di Cuba è quella di un paese che non produce quasi nulla. E quindi deve importare il necessario, compresa la frutta tropicale surgelata servita nei paladares (ristorantini privati ad uso dei turisti e altri privilegiati) che viene dritta dalle serre canadesi. Le tessere alimentari offrono sempre meno. Per fortuna c'è il confratello Chávez, che baratta il suo petrolio con medici e istruttori cubani, garantendo così che l'isola non resti al buio. L'unica vera risorsa economica di Cuba è il turismo. Non più fiorente come qualche tempo fa, ma almeno offre quella valuta pregiata di cui il regime dei fratelli Castro ha disperatamente bisogno.

Spazzata via dalle dure repliche della storia l'ideologia castrista, peculiare miscela di nazionalismo e comunismo (con prevalenza del primo, il che spiega il relativo consenso su cui il regime ha potuto contare almeno fino agli anni Novanta), che cosa resta della rivoluzione dei barbudos? Un palcoscenico di cartapesta, che minaccia di crollare da un momento all'altro. Ma resiste. Almeno fino a che ci sarà Fidel, malandato ma tuttora incombente sul fratello Raùl, a capo di un'opaca direzione collettiva. Raùl tenta ogni tanto qualche apertura, salvo venire nemmeno troppo implicitamente rimbeccato dal fratello maggiore sulle colonne del Granma, organo ufficiale del Partito comunista cubano. Intorno a Raùl, accreditato di simpatie per il modello cinese, l'élite di comando, nella quale prevalgono i militari. I quali sommano al monopolio della forza quello dell'economia, grazie al controllo delle infrastrutture turistiche. Per i dirigenti relativamente disponibili a qualche cauta riforma, come Carlos Lage, il clima non è propizio. I fidelisti duri e puri sostengono – probabilmente a ragione – che socchiudere la porta delle riforme farebbe crollare l'intero edificio.

Oggi a Cuba tutti o quasi praticano con successo una doppia morale, riassumibile nel motto per cui la gente fa finta di lavorare e lo Stato finge di pagarla. In ufficio o in fabbrica si va per chiacchierare, farsi compagnia, raccontare barzellette sul regime. I funzionari pubblici mimano le virtù rivoluzionarie, mentre sfogano la frustrazione nel piacere dell'arbitrio burocratico. Le regole vengono quotidianamente reinventate da questa potentissima falange, capace di resistere per inerzia agli ordini del líder maximo e dei suoi pallidi epigoni.

Anche i cubani più indifferenti al richiamo dell'ideologia ufficiale sembrano comunque adattarsi. Forse perché di rivoluzioni ne hanno abbastanza. O semplicemente perché non vedono alternative, finché i fratelli Castro sopravvivono e finché gli Stati Uniti continuano a sostenerli con il bloqueo, o meglio con la sua retorica. Giacché anche Washington sembra aderire alla doppia morale, tenendo in vita la finzione di una guerra congelata. In tanti anni il blocco ha solo impoverito i cubani, frenato gli investitori americani, servito la propaganda di regime e delegittimato l'opposizione democratica. Già, l'opposizione. Più virtuale che reale, anche se alcuni dissidenti ancora languono in carcere, vittime dei capricci di Fidel, il solo abilitato a liberarli. Ciò che fa con il contagocce, soprattutto per la pressione non ostentata ma efficace degli spagnoli, di gran lunga il paese straniero (ma non troppo) più influente all'Avana. I gruppi clandestini sono sparuti, infiltrati dalla polizia. Pare ci siano ben cinque partiti liberali, la cui attività consiste nel litigare fra di loro. Quanto alla Chiesa, capace di organizzare una sua rete di welfare alternativo, la visita di papa Wojtyla dieci anni orsono non sembra aver prodotto risultati duraturi.

Sullo sfondo dell'eroica rivoluzione contro Batista e delle grandiose ambizioni geopolitiche del carismatico Fidel, questa Cuba immiserita e sopravvivente, cucita su misura di turista (sessuale, non più ideologico) sembra rassegnata a recitar se stessa. Il lungo tramonto di un patriarca che non vuole tramontare e che pare indifferente al futuro della sua “creatura” pare senza sbocchi. Quasi Cuba fosse condannata a precipitare in quel Terzo Mondo cui, in fondo, non ha mai appartenuto.

Più che nell'asse bolivariano con il Venezuela di Chávez, la speranza di Cuba sta forse nel petrolio, a quanto pare di buona qualità, che giace nel suo profondo offshore caraibico. Qui le tecnologie di Petrobras stanno scandagliando giacimenti promettenti. Ci vorranno eventualmente decenni per sfruttarli e per inondare Cuba di petrodollari. Ma se i primi risultati dei carotaggi brasiliani fossero confermati, possiamo star sicuri che la lobby petrolifera statunitense, già in agitazione, si batterà con il machete tra i denti per costringere la Casa Bianca a smettere la farsa del bloqueo. Per i propri interessi, ma infine a vantaggio degli stessi cubani.
 

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