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COSA E' MORTO E COSA RESTA DELLA SOCIALDEMOCRAZIA
Tony Judt, The New York Review of Books, Volume 56, Numero 20, 17 dicembre 2009,

Gli americani vorrebbero che le cose andassero meglio. Secondo una recente ricerca, essi vorrebbero che i propri figli avessero più probabilità di sopravvivere alla nascita, che le loro mogli o figlie avessero le stesse chance delle donne degli altri Paesi sviluppati di superare indenni una maternità. Molti apprezzerebbero una copertura medica completa ad un costo più basso, una più lunga aspettativa di vita, migliori servizi pubblici e meno criminalità.
Quando viene detto loro che queste cose sono disponibili in Austria, Scandinavia o nei Paesi Bassi, ma grazie ad una tassazione più elevata e a un forte interventismo statale, molti di questi stessi americani rispondono: "Ma questo è socialismo! Non vogliamo che lo Stato si intrometta nei nostri affari e soprattutto non vogliamo pagare più tasse."
Questa curiosa dissonanza cognitiva rimanda a una vecchia storia. Un secolo fa, il sociologo tedesco Werner Sombart si domandava: Perché non c'è il socialismo in America? Esistono molte risposte a questa domanda. Alcune hanno a che fare con le dimensioni del paese: per una nazione del genere e' difficile organizzare e mantenere propositi condivisi. Vi sono comunque da considerare alcuni fattori culturali, inclusa la naturale diffidenza americana verso il governo centrale.
In effetti, non è un caso che la socialdemocrazia e il welfare abbiano attecchito al meglio in paesi piccoli, omogenei, dove fenomeni quali la sfiducia e il reciproco sospetto non si avvertono in modo così acuto. La disponibilità a pagare per i servizi e i benefit di cui godono anche altre persone si fonda sulla presa di coscienza che costoro fanno la stessa cosa per voi e per i vostri figli: il fatto è che queste persone sono come voi e vedono il mondo come voi lo vedete.
Viceversa, dove l'immigrazione e la presenza visibile e massiccia di minoranze hanno alterato l'equilibrio demografico di un paese, si osserva tipicamente un crescente sospetto nei confronti del prossimo e una perdita di entusiasmo verso le istituzioni del welfare. Infine, è incontrovertibile la circostanza per cui la socialdemocrazia e i sistemi di welfare stiano oggi vivendo una seria fase di difficoltà. La loro sopravvivenza non è in questione, ma è indubbio che il loro prestigio e la loro coesione non siano paragonabili a quelli di un tempo.
Ad ogni modo, la mia preoccupazione è la seguente: Perché negli Stati Uniti fatichiamo così tanto anche ad immaginare un modello di società diverso dall'attuale, che genera tante disfunzioni ed ineguaglianze? Sembra che abbiamo perso la capacità di mettere in questione il presente e di proporre soluzioni nuove per il futuro. Perché è oltre le nostre capacità concepire una differente modalità di governo che ci possa aiutare a raggiungere un vantaggio comune?
Il nostro difetto - e perdonate il linguaggio accademico - è discorsivo. Semplicemente non sappiamo come discutere di questi argomenti. Lo studio della Storia può essere utile per chiarire il concetto: come osservò Keynes, "Lo studio della storia delle opinioni è una condizione preliminare per l'emancipazione della mente." Per emancipare le nostre menti, propongo un breve ripasso della storia di un pregiudizio: i contemporanei fanno ricorso all' "economismo"; l'utilizzo di terminologie e considerazioni economiche in ogni discussione relativa alle questioni di pubblico interesse.
Negli ultimi trent'anni, nella gran parte del mondo anglofono (anche se in modo meno pronunciato nell'Europa continentale e altrove), al momento di decidere se sostenere o meno un'iniziativa o una proposta, il fatto che essa fosse buona a cattiva non è mai stato decisivo. Piuttosto, ci si è interrogati su altro aspetto: E' efficiente? E' produttiva? Apporterà benefici al Pil? Contribuirà alla crescita? Questa propensione ad evitare accuratamente le considerazioni morali, a concentrarci peculiarmente su profitti e perdite - le questioni economiche nel senso più stretto - non mi sembra frutto dell'istinto e della natura umana. Mi sembra piuttosto un comportamento acquisito.
Ci siamo già passati. Nel 1905 il giovane William Beveridge, il cui rapporto del 1942 gettò le basi dello Stato sociale britannico, tenne un discorso ad Oxford, nel quale chiedeva per quale motivo l'economia classica avesse oscurato la filosofia politica nel dibattito pubblico. La domanda di Beveridge si ripropone oggi con la stessa forza di allora. Notate, comunque, che l'eclisse del pensiero politico non ha diretta relazione con gli scritti dei grandi economisti classici. Nel diciottesimo secolo quelli che Adam Smith chiamava "sentimenti morali" erano elementi preponderanti nelle dispute tra economisti.
In realtà, il solo fatto di ricondurre le considerazioni sulle politiche pubbliche a un mero calcolo economico è già di per sé fonte di preoccupazione. Il marchese di Condorcet, uno dei più perspicaci analisti degli albori del capitalismo commerciale, prevedeva con disappunto la prospettiva che "la libertà potrebbe diventare null'altro, agli occhi delle nazioni avide, che la condizione necessaria alla sicurezza delle operazioni finanziarie."
Nel corso dei secoli si è spesso rischiato di far confusione tra la libertà di accumulare denaro e...la libertà stessa. Ma come abbiamo potuto, ai nostri giorni, arrivare a ragionare esclusivamente in termini monetari? Questa fascinazione dei contemporanei per il lessico economicista non viene dal nulla.
Viviamo l'onda lunga di un dibattito che risulta semisconosciuto alla maggior parte della gente. Se ci si domanda chi abbia esercitato la più profonda influenza sul pensiero economico contemporaneo di matrice anglofona, vengono alla mente cinque pensatori nati fuori dall'America e dalla Gran Bretagna: Ludwig von Mises, Friedrich Hayek, Joseph Schumpeter, Karl Popper e Peter Drucker. I primi due furono gli eminenti decani della macroeconomia liberista della Scuola di Chicago. Schumpeter è meglio conosciuto per la sua entusiasta descrizione dei poteri "creativi, distruttivi" del capitalismo, Popper per la sua difesa della "società aperta" e la sua teoria sul totalitarismo.  Così come Drucker, i suoi scritti sul management esercitarono un'enorme influenza sulla teoria e la pratica del business durante le opulente decadi del boom economico post-bellico.
Tre di questi uomini nacquero a Vienna, un quarto (Von Mises) nell'austriaca Lemberg (ora Lvov), il quinto (Schumpeter) in Moravia, poche dozzine di miglia a nord della capitale asburgica. Tutti rimasero profondamente colpiti dalla catastrofe che si abbatté sulla loro terra natìa (l'Austria) tra le due guerre mondiali. In seguito al primo cataclisma bellico e a un breve esperimento socialista a livello municipale in Vienna, il paese divenne preda di un colpo di Stato reazionario nel 1934 e poi, quattro anni dopo, dell'invasione e occupazione naziste.
Tutti furono costretti all'esilio da queste circostanze e tutti, Hayek in particolar modo, elaborarono i loro scritti all'ombra di una questione che avvertirono pressante per tutta la loro vita: Perché la società liberale è collassata, lasciando via libera, almeno nel caso austriaco, al fascismo? Questa la loro risposta: il tentativo della sinistra (marxista) di introdurre nell'Austria del primo dopoguerra la pianificazione statale, la municipalizzazione dei servizi pubblici e la collettivizzazione dell'attività economica non si rivelò semplicemente infruttuoso, ma addirittura controproducente e condusse a una svolta reazionaria.
La tragedia europea sarebbe così stata un portato del fallimento della sinistra; prima di tutto, nel conseguire i suoi obbietti e, secondariamente, nel difendere sé stessa e la sua eredità liberale. Ciascuno degli studiosi citati, sebbene mediante diverse chiavi di lettura, giunse alla stessa conclusione: il modo migliore per difendere la società aperta e le sue libertà era mantenere il governo ben distante dalla gestione della vita economica. Tenere lo Stato a distanza di sicurezza, impedendo ai politici, per quanto animati da buone intenzioni, di pianificare, manipolare o dirigere gli affari dei concittadini avrebbe permesso di emarginare gli estremisti di destra e di sinistra.
La medesima sfida - comprendere cosa fosse capitato durante le due guerre ed evitare che si ripetesse - venne raccolta da John Maynard Keynes. Il grande economista inglese, nato nel 1883 (lo stesso anno di Schumpeter), crebbe in una stabile, fiduciosa, prospera e potente Gran Bretagna. E poi, dal suo osservatorio privilegiato al Tesoro e in quanto partecipante alla Conferenza di Versailles, vide il suo mondo collassare, portando via con sé tutte le rassicuranti certezze del suo ambiente culturale e della sua classe di appartenenza. Keynes, così, si interrogò sulla stessa questione che Hayek e i suoi colleghi austriaci si erano posti. Ma raggiunse una conclusione decisamente differente.
Certo, Keynes comprese che la disintegrazione dell'Europa tardo-vittoriana rappresentava l'esperienza più significativa della sua esistenza. In effetti, l'essenza dei suoi contributi alla teoria economica sta nell'insistenza rispetto all'incertezza: in contrasto con le rassicuranti asserzioni degli economisti classici e neo-classici, Keynes ha sempre ribadito l'irriducibile imprevedibilità delle vicende umane. Se esiste una lezione da cogliere dalla Depressione, dal fascismo e dalla guerra, è possibile definirla in questo modo: l'incertezza - elevata al livello di insicurezza e paura collettiva - fu la forza corrosiva che minacciò e ancora può minacciare il mondo liberale.
Di conseguenza, Keynes immaginò un ruolo sempre più significativo per lo Stato in ambito sociale ed economico. Un ruolo che comprendesse l'intervento economico in funzione anti-ciclica e molto altro ancora. Hayek propose l'opposto. In un suo classico scritto del 1944, The Road to Serfdom, scriveva: "Nessuna descrizione in termini generali può dare un'idea adeguata della somiglianza della letteratura politica inglese contemporanea con i lavori che hanno distrutto le basi della civilizzazione occidentale in Germania e creato le condizioni perché il nazismo prosperasse."
In altre parole, Hayek proiettava esplicitamente sulla Gran Bretagna le ombre del fascismo nel caso il Partito laburista avesse vinto le elezioni post-belliche. Cosa che puntualmente accadde, permettendo al Labour di dar attuazione a scelte politiche chiaramente ispirate alle idee keynesiane. In effetti, per i tre decenni successivi la Gran Bretagna (e il mondo occidentale in genere) fu governata secondo le convinzioni emerse dai lavori di Keynes.
Da allora, come risaputo, gli austriaci hanno avuto la loro rivincita. Il perché questo sia avvenuto è una questione interessante, ma per un'altra occasione. Ad ogni modo, qualunque sia stata la ragione, noi stiamo vivendo oggi una riedizione di un dibattito svoltosi già settant'anni fa tra uomini nati, per la maggior parte, addirittura nel diciannovesimo secolo. Siamo spinti a confrontarci usando termini economici che non sono convenzionalmente associati a quelle lontane dispute politiche. Di conseguenza, senza un'accurata comprensione di quei dibattiti, rischiamo di non cogliere pienamente il significato del linguaggio che ci troviamo a parlare.
Il welfare ha ottenuto grandi risultati. In alcuni paesi ha avuto una connotazione socialdemocratica, caratterizzata da un ambizioso programma legislativo di ispirazione socialista; in altri, in Gran Bretagna ad esempio, si è risolto in una serie di politiche pragmatiche intese ad alleviare lo svantaggio sociale e a ridurre il divario tra benessere e indigenza
La tematica ricorrente e la realizzazione più compiuta dei governi neo-keynesiani del dopoguerra sono stati i loro innegabili successi nella riduzione dell'ineguaglianza. Se si osserva il gap che separa i ricchi dai poveri, sia come livello di reddito che come risorse a disposizione, in tutta l'Europa continentale (ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) si nota come esso si sia ridotto sensibilmente nelle decadi successive al 1945.
Insieme a una più marcata eguaglianza, si sono prodotti altri benefici. Nel tempo, la paura di una rinascita dell'estremismo politico - la politica della disperazione, la politica dell'invidia, la politica dell'insicurezza - è venuta meno. L'Occidente industrializzato è entrato in un'era di sicurezza e benessere: una bolla forse, ma comunque una bolla confortevole, nella quale la maggioranza si è trovata molto più a suo agio di quanto avesse potuto immaginare in passato, con la speranza, costruita su solide basi, di guardare con fiducia al futuro.
Il paradosso del welfare state e di tutti gli Stati socialdemocratici (e cristiano-democratici) d'Europa appare piuttosto semplice. Il loro successo ne ha nel tempo indebolito l'appeal. La generazione che ancora ricordava con orrore gli anni trenta è stata indubbiamente la più attiva nel preservare le istituzioni, i sistemi di tassazione, i servizi sociali e le sovvenzioni pubbliche che vedeva come i baluardi per impedire il ritorno dei fantasmi del passato. Peraltro, la generazione successiva, persino in Svezia, ha cominciato a scordarsi del perché in passato si fosse perseguito un tale livello di sicurezza sociale, quasi eccessivo.
Fu la socialdemocrazia a legare la classe media alle istituzioni liberali sulla scia della Seconda guerra mondiale (uso "classe media" nel senso europeo del termine). In molti casi i medi e piccoli borghesi ricevevano i medesimi servizi di welfare garantiti ai poveri: istruzione gratuita, servizio sanitario gratuito o a costi ridotti, pensioni pubbliche e similari. Di conseguenza, negli anni sessanta le classi medie europee potevano contare su livelli di reddito e capacità di spesa mai visti nella storia, senza contare che molti dei servizi essenziali venivano forniti dallo Stato e non necessitavano di ulteriori esborsi individuali. E così la classe sociale che si era sentita così esposta alla paura e all'insicurezza nell'interludio tra i due conflitti mondiali, trovava piena gratificazione all'interno del consenso democratico.
Entro la a fine del decennio successivo lo scenario sarebbe mutato drasticamente. Partendo dalle riforme fiscali e occupazionali degli anni del binomio Thatcher-Reagan e proseguendo, a breve giro di posta,  con la deregolamentazione del sistema finanziario, nelle società occidentale i tassi di disuguaglianza ripresero a salire. Dopo essersi ridotti notevolmente tra gli anni dieci e sessanta del secolo scorso, hanno ricominciato stabilmente ad aumentare nel corso delle ultime tre decadi.
Negli Stati Uniti, oggi, il coefficiente di Gini - una misura della distanza che separa i ricchi dai poveri - è comparabile a quello della Cina[1]. Se noi consideriamo che la Cina è comunque un paese in via di sviluppo dove l'esistenza di grossi divari di reddito appare fisiologica, il fatto che gli Stati Uniti abbiano simili coefficienti di ineguaglianza dice molto su quanto il paese si sia allontanato dalle aspirazioni enunciate in passato.
Prendiamo in considerazione il Personal Responsibility and Work Opportunity Act (un titolo più orwelliano è difficile da concepire), la legislazione clintoniana che ha tentato di svuotare gli istituti di welfare americani.  Il contenuto di quella legge riporta alla mente un altro testo legislativo, approvato in Inghilterra quasi due secoli or sono: la New Poor Law del 1834. Alcuni aspetti di quella legge ci sono familiari grazie alla descrizione del loro funzionamento lasciata da Charles Dickens in Oliver Twist. Quando Noah Claypole, e siamo nel 1838, deride il piccolo Oliver appellandolo Work'us (workhouse, casa di lavoro), egli implica lo stesso significato di chi  oggi in America accusa molte donne di approfittare illecitamente od eccessivamente dei benefici dello Stato del benessere, apostrofandole welfare queens.
La New Poor Law fu un oltraggio, poiché costringeva gli indigenti e i disoccupati a scegliere tra un lavoro, di qualsiasi tipo e pagato anche pochissimo, e l'umiliazione delle case di lavoro. In questa e altre forme di assistenza in voga nel diciannovesimo secolo (ancora pensate e descritte come enti di beneficenza) il livello di aiuto e sostegno veniva calibrato in modo da apparire meno attraente della peggiore alternativa possibile. Un sistema che traeva la sua giustificazione dal vecchio adagio dell'economia classica, secondo il quale la disoccupazione era impossibile in condizioni di piena efficienza del mercato: se solo i salari fossero scesi abbastanza e non ci fossero state alternative valide al lavoro, automaticamente ognuno avrebbe trovato un impiego.
Nei centocinquant'anni successivi i riformatori cercarono di abolire quelle pratiche degradanti. In tal modo, la New Poor Law e le analoghe disposizioni adottate oltre Manica vennero sostituite dalla previsione di una pubblica assistenza erogata alle persone in corrispondenza di un diritto. I cittadini senza impiego non dovettero più dimostrare di meritare l'assistenza, non vennero più penalizzati a causa della loro condizione. Molti degli ostacoli alla loro piena integrazione nella società vennero rimossi. Più di ogni altra cosa, il welfare della metà del ventesimo secolo si ribellò alla profonda iniquità di determinare la status civico di una persona in funzione della sua partecipazione economica.
Negli Stati Uniti contemporanei, mentre la disoccupazione aumenta, un uomo e una donna senza lavoro di fatto perdono lo status di membri della comunità. Per ricevere anche il più esiguo sussidio sociale essi devono aver prima cercato e accettato un lavoro a prescindere dal salario, generalmente basso, e dalla tipologia, tendenzialmente sgradevole.  Solo allora essi avranno i titoli per ricevere l'assistenza dei loro concittadini.
Come mai soltanto pochi di noi hanno condannato le "riforme" poste in essere da un presidente Democratico (tra l'altro!)? Perché lo stigma applicato alle vittime non ha stimolato la nostra reazione? Lungi dal condannare questo ritorno alle pratiche del primo capitalismo, noi ci siamo adattati sin troppo bene ad esse; un silenzio consensuale in netto contrasto con il fervore contestatario della generazione precedente. Del resto, come Tolstoj ci ricorda, "non esiste condizione di vita alla quale un uomo non posso accostumarsi, specialmente se nota che essa viene accettata da ogni persona intorno a lui."
Questa "disposizione ad ammirare, quasi a venerare, i ricchi e i potenti e a disprezzare, o quanto meno emarginare, le persone umili che vivono in modeste condizioni...è...la più grande e universale causa della corruzione dei nostri sentimenti morali." Non sono parole mie. Furono scritte da Adam Smith, che considerava la tendenza ad ammirare la ricchezza e a disprezzare la povertà, ad ammirare il successo e a deridere il fallimento, come il più grosso rischio che l'uomo avrebbe incontrato nella società commerciale della quale egli aveva previsto l'avvento. Ora è sopra le nostre teste.
Il segnale più evidente del tipo di problemi che ci troviamo ad affrontare promana dal processo di privatizzazione. Negli ultimi trent'anni il culto della privatizzazione ha ipnotizzato i governi occidentali (e molti altri, non occidentali). Perché? La risposta più breve è che in un periodo caratterizzato da vincoli budgetari, la privatizzazione ha permesso di risparmiare. Se lo Stato deve sostenere un programma pubblico inefficace o gestire servizi pubblici inefficienti - acquedotti, industrie pubbliche, ferrovie - cercherà di liberarsene, vendendoli ad acquirenti privati.
La vendita procurerà fondi per lo Stato, mentre l'ingresso dei privati renderà i servizi in questione più efficienti, grazie a una maggiore razionalità nell'impiego delle risorse, motivata dalla ricerca del profitto. Ognuno trarrà dei benefici: i servizi miglioreranno, lo Stato si libererà di un peso e di una responsabilità; insomma sia gli investitori privati che il settore pubblico guadagneranno dalla vendita.
Questo in teoria, ma la pratica si è rivelata essere molto differente. Ciò che abbiamo osservato nelle ultime decadi è stato un trasferimento della responsabilità pubblica verso il settore privato, senza che ne derivasse un apprezzabile vantaggio collettivo. In primo luogo, la privatizzazione si è dimostrata inefficiente. La gran parte degli asset che i governi vorrebbero cedere al settore privato operano in perdita: che siano compagnie ferroviarie, miniere di carbone, servizi postali, utility energetiche, il loro accollo non appare ai privati razionale in termini di costi-benefici.
Motivo per cui questi beni pubblici sono intrinsecamente poco attrattivi per i compratori privati, a meno che non vengano loro svenduti. Ma quando lo Stato svende è il pubblico ad andare in rosso. E' stato calcolato che, durante l'era delle privatizzazioni thatcheriane, il prezzo deliberatamente basso a cui sono stati venduti a privati diversi asset pubblici ha causato un trasferimento netto di 14 miliardi di sterline dai contribuenti agli azionisti e agli altri investitori.
A questa perdita dovrebbero essere aggiunti 3 miliardi di dollari di tasse pagate alle banche che hanno orchestrato le privatizzazioni. Così lo Stato ha pagato 17 miliardi di sterline (30 miliardi di dollari) al settore privato per agevolare la cessione di servizi pubblici per i quali non avrebbe altrimenti avuto acquirenti. Si tratta di una cifra considerevole - approssimativamente la dotazione dell'Università di Harvard, il Prodotto interno lordo del Paraguay o della Bosnia[2]. E' difficile descrivere tutto ciò come un uso efficiente delle risorse pubbliche.
In secondo luogo, è da sollevare la questione dell'azzardo morale. L'unica ragione per cui gli investitori privati sono propensi ad acquistare beni pubblici apparentemente inefficienti è legata alla decisione dello Stato di eliminare o ridurre la loro esposizione al rischio. Nel caso della metropolitana di Londra, ad esempio, alle compagnie acquirenti fu assicurati che qualsiasi cosa fosse successa esse sarebbero state assicurate da ogni pesante perdita - svuotando così l'argomento dell'economia classica a favore delle privatizzazioni, ossia che la spinta al profitto incoraggiasse all'efficienza. "L'azzardo" consiste nel fatto che il settore privato, a simili condizioni privilegiate, finirà per essere inefficiente tanto quanto la controparte pubblica, poiché tenderà ad accaparrarsi i profitti e a scaricare le perdite sulle spalle dello Stato.
La terza, e forse più cogente, argomentazione contro la privatizzazione è la seguente: non vi è dubbio che gran parte dei beni pubblici che lo Stato tenta di svendere siano stati gestiti in maniera infelice (cattivo management, investimenti inadeguati, ecc.). Ciò nonostante, per mal condotti che possano essere, i servizi postali, le infrastrutture ferroviarie, le case di riposo, le prigioni e le altre prestazioni pubbliche in odore di privatizzazione rimangono sotto la responsabilità delle pubbliche autorità. Anche se cedute a privati, esse non possono essere lasciate completamente in balìa del mercato. Esse sono intrinsecamente il genere di attività che qualcuno deve regolare.
Questa riallocazione semi-privata, semi-pubblica, di responsabilità pubbliche essenziali offre lo spunto per riallacciarci alla vecchia storia di cui si discorreva sopra. Qualora le vostre contribuzioni fiscali finissero sotto inchiesta negli Stati Uniti di oggi, anche nel caso fosse il governo a decidere di procedere, sarebbe molto probabile che le investigazioni sul vostro conto venissero condotte da un'agenzia privata. Molte di queste agenzia hanno infatti  concluso contratti con lo Stato per svolgere una simile funzione per suo conto, così come è avvenuto nel settore della sicurezza, dei trasporti e del know-how tecnico e scientifico in Iraq e altrove. Similmente, il governo britannico conclude accordi con i privati per fornire servizi residenziali di cura per gli anziani - una responsabilità che un tempo era di diretta pertinenza dello Stato.
I governi, in breve, danno in appalto le proprie responsabilità alle aziende private che sostengono di amministrarle meglio e più economicamente di quanto lo Stato possa fare. Nel diciottesimo secolo queste scelte furono denominate tax farming. I primi governi dell'era moderna spesso non avevano i mezzi per raccogliere le tasse e decidevano di affidarsi a individui privati che agissero per loro conto.
Dopo la caduta della monarchia in Francia, si riconobbe la grottesca inefficienza di quel sistema di riscossione. In primo luogo, screditava lo Stato, impersonato nell'immaginario popolare da individui rapaci in cerca di profitti. In secondo luogo, fruttava entrate decisamente minori rispetto ad un sistema amministrato direttamente dal governo, se non altro per il margine di profitto che spettava agli esattori privati. Infine, il sistema di riscossione irritava notevolmente i contribuenti.
Negli Stati Uniti di oggi, lo Stato è screditato e può contare su risorse pubbliche inadeguate.  Curiosamente, non esistono contribuenti irritati - o meglio, solitamente essi si irritano per le ragioni sbagliate. Nonostante ciò, i problemi che ci siamo creati sono essenzialmente comparabili a quelli fronteggiati a suo tempo dall' ancien régime.
Come nel diciottesimo secolo, così oggi: svuotando lo Stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano "comunità fortezza", intese nelle varie accezioni del termine: settori della società che considerano sé stesse fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini.
Un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona: "La società non esiste affatto. Esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie." Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno Stato che agisce da "guardiano di notte" - supervisionando da lontano attività nelle quali non prende parte - che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello Stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo "privatizzato" esattamente quelle responsabilità che lo Stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo.
Che cosa farà da cuscinetto tra cittadini e Stato? Sicuramente non la società, impegnata a sopravvivere allo svuotamento del dominio pubblico. Lo Stato non è in procinto di sparire. Se anche venissero eliminati tutti i servizi che esso ancora eroga, resterebbe comunque una forza presente - se non altro sul fronte del controllo e della repressione. Il rischio è che scompaiano le istituzioni intermedie e le fedeltà che legano lo Stato ai cittadini: non rimarrebbe alcunché dell'intreccio di reciproci servizi e obbligazioni che vincolano i cittadini l'un l'altro nello spazio pubblico occupato dalla collettività. Ciò che risulterebbero da una simile disgregazione sarebbe un coacervo di individui e corporazioni impegnati in una lotta competitiva per sabotare lo Stato nel proprio interesse egoistico.
Le conseguenze non sono più consolanti oggi di quanto lo fossero prima della crescita dello Stato moderno. In realtà, l'impeto creatore con cui furono edificate le sue istituzioni derivò dalla consapevolezza che una semplice sommatoria di individui non sarebbe sopravvissuta a lungo senza obbiettivi comuni e valori condivisi. La nozione forte che gli interessi privati potessero essere semplicemente moltiplicati per addivenire al benessere collettivo appariva già assurda alla critica liberale del nascente capitalismo industriale. Nelle parole di John Stuart Mill, "è ripugnante l'idea di una società tenuta insieme dalle relazioni e dalle considerazioni legate agli interessi pecuniari."
E allora, cosa deve essere fatto? E' necessario cominciare a discutere il ruolo dello Stato come incarnazione degli interessi, dei propositi e dei beni collettivi. Se non si riesce a "ripensare lo Stato", non si andrà lontano. Ma cosa dovrebbe fare Stato per la precisione?  Almeno, non dovrebbe duplicare inutilmente. Come scrisse Keynes: "La cosa importante per un governo è non fare le cose che gli individui stanno già facendo e farle poco meglio o poco peggio; esso deve impegnarsi in attività che al momento nessuno sta svolgendo." E sappiamo dall'amara esperienza del secolo scorso che esistono questioni di cui lo Stato farebbe bene a non occuparsi.
La narrativa dello Stato progressista del ventesimo secolo si appoggia, precariamente, sul presupposto che "noi" - riformisti, socialisti, radicali - staremmo dal lato giusto della Storia, che i nostri progetti, per usare le parole dell'ultimo Bernard Williams, "sarebbero sostenuti dall'Universo3." Oggi non c'è una storia così rassicurante da raccontare. Siamo sopravvissuti a un secolo caratterizzato da dottrine che indicavano allo Stato cosa fosse giusto fare e che ribadivano alle persone, se necessario mediante la coercizione, che lo Stato sapesse cosa fosse giusto e desiderabile per tutti. Dunque, se dobbiamo ripensare lo Stato,  sarà bene partire con lo stabilirne i limiti.
Per quest'ordine di motivi, sarebbe futile resuscitare la retorica della socialdemocrazia dei primi anni del novecento. Allora, la sinistra democratica emergeva come un'alternativa a un socialismo rivoluzionario marxista che non accettava compromessi e, più tardi, al comunismo. La socialdemocrazia si caratterizzava così per una curiosa schizofrenia. Mentre marciava fiduciosa verso un futuro migliore, doveva sempre guardare nervosamente alla propria sinistra, riaffermando la propria natura anti-autoritaria, anti-repressiva e libertaria. I socialdemocratici si dichiaravano democratici, fedeli al concetto di giustizia sociale e favorevoli a un'economia di mercato regolata.
Fino a quando l'obbiettivo primario dei socialdemocratici è stato convincere gli elettori che essi rappresentassero una rispettabile opzione radicale nell'ambito di una gestione politica liberale, l'approccio difensivo di cui sopra aveva un senso. Ma oggi quella retorica appare incoerente. Non è un caso che, nel bel mezzo di una seria crisi finanziaria, i cristiano-democratici di Angela Merkel abbiano vinto le elezioni tedesche a discapito della socialdemocrazia, proponendo un pacchetto di politiche che in gran parte ricalcano la piattaforma della stessa Spd.
La socialdemocrazia, in una forma o nell'altra, è la prosa della politica europea contemporanea. Esistono pochi politici europei, e ancora meno in posizione preminente, che dissentono rispetto alle assunzioni socialdemocratiche di base sui doveri dello Stato. Le posizioni semmai si differenziano quando si passa ad analizzare gli obbiettivi di fondo dell'azione statale. Nella pratica, i socialdemocratici non hanno alcunché di originale da offrire all'Europa di oggi: in Francia, ad esempio, nemmeno la loro irragionevole insistenza nel favorire le acquisizioni statali li distingue dall'istinto colbertista della destra gollista. La socialdemocrazia ha bisogno di ripensare sé stessa.
Il problema risiede non tanto nelle politiche socialdemocratiche, ma nel linguaggio mediante il quale vengono presentate. Da quando la minaccia autoritaria promanante da sinistra è stata debellata, l'enfasi sul concetto di "democrazia" si è fatta ridondante. Ormai siamo tutti democratici. Tuttavia, l'utilizzo del termine "social" davanti a democrazia aggiunge qualcosa, oggi più di ieri, quando il ruolo del settore pubblico era generalmente accettato. Qual è l'aspetto distintivo che il termine "social" conferisce all'approccio socialdemocratico alla politica?
Immaginate una stazione ferroviaria. Non la decadente Pennsylvania Station di New York, ma Waterloo Station a Londra, Gare de l'Est a Parigi, Victoria Terminus a Mumbai o la nuova Hauptbahnhof di Berlino. In queste appariscenti cattedrali della vita moderna il settore privato funziona perfettamente. Non c'è ragione, dopo tutto, che i chioschi o i bar delle stazioni vengano gestiti dallo Stato. Chiunque ricordi i sandwich rinsecchiti e plasticosi serviti dai café della British Railway concorderà sul fatto che un minimo di concorrenza nel settore debba essere incoraggiato.
Ma non è possibile gestire il settore ferroviario in maniera puramente competitiva. Le ferrovie, così come l'agricoltura e le poste, sono allo stesso tempo attività economiche e beni pubblici essenziali. Non è possibile rendere il sistema ferroviario più efficiente mettendo due treni sui binari e calcolando quale dei due sia più performante: le ferrovie sono un monopolio naturale. Non plausibilmente, gli inglesi hanno realmente istituito una simile competizione tra diversi servizi di trasporto passeggeri su strada. Tuttavia, il paradosso del trasporto pubblico e che quanto più esso funzionerà e meno sarà "efficiente". 
In soldoni, un autobus che fornisce un servizio espresso, evitando i paesini dove per solito salgono a bordo pochi pensionati, si rivela senz'altro più redditizio per l'imprenditore che organizza il servizio medesimo. Ma qualcuno -lo Stato o la municipalità - dovrà pur provvedere. Se ciò non dovesse accadere, i benefici  a breve termine  dell'eliminazione dalla tratta degli autobus nei paesini verrebbero più che compensati dagli effetti negativi sulla comunità in senso lato. Tralasciando il caso di Londra, dove esiste una domanda talmente elevata da non creare problemi, è facile prevedere che le conseguenze di una svolta competitiva nel settore del trasporto passeggeri su strada consisterebbero in un aumento dei costi per il settore pubblico; un incremento delle tariffe e un'attraente fonte di profitto per le compagnie specializzate nel trasporto espresso.
I treni, come gli autobus, sono soprattutto servizi sociali. Chiunque potrebbe realizzare enormi guadagni se fosse possibile organizzare viaggi diretti da Londra a Edinburgo, da Parigi a Marsiglia, da Boston a Washington. Ma cosa ne sarebbe dei collegamenti ferroviari frequentati da chi prende il treno solo occasionalmente? Nessun individuo può permettersi di sobbarcarsi il costo di un simile servizio per le poche volte che si troverà ad utilizzarlo. Soltanto la collettività - lo Stato, il governo, le autorità locali - può farlo. Una simile sovvenzione apparirà sempre inefficiente agli occhi di una certa tipologia di economisti: ma sarebbe forse più conveniente obbligare ognuno a usare la propria automobile?
Nel 1996, l'anno prima che le ferrovie britanniche venissero privatizzate, la British Rail vantò il più basso sussidio pubblico in Europa. Quell'anno i francesi pianificarono per le loro ferrovie un tasso di investimento di 21 sterline per cittadino; gli italiani raggiunsero le 33 sterline; i britannici, per l'appunto, si fermarono a 94. Queste differenze si sono evidenziate a pieno al momento di valutare la qualità dei servizi erogati dai rispettivi sistemi nazionali. Esse spiegano anche perchè, data l'inadeguatezza delle sue infrastrutture, il sistema ferroviario britannico sia stato privatizzato a costo di gravi perdite.
Le contrastanti strategie di investimento chiariscono il mio ragionamento. Francesi e italiani hanno considerato per lungo tempo le loro ferrovie alla stregua di una prestazione sociale. Sostenere una tratta ferroviaria che tocca una remota regione  del paese, per quanto possa essere inefficiente a livello di costi, permette di non emarginare diverse comunità locali, riduce il danno ambientale che risulterebbe da un maggiore utilizzo delle automobili e degli altri mezzi di trasporto su strada. In questo modo, le stazioni ferroviarie e i servizi che esse forniscono diventano sintomo e simbolo di una società tenuta insieme da aspirazioni condivise.
Sopra ho spiegato come la previsione di un servizio ferroviario che raggiunga i distretti più remoti di un paese rivesta un alto significato sociale per quanto sia economicamente "inefficiente". Tutto ciò schiude un'altra importante considerazione. Le socialdemocrazie non faranno molta strada proponendo lodevoli finalità sociali e fornendole a un costo maggiore rispetto alle alternative rintracciabili sul mercato.  Seguitare nell'esaltazione fine a sé stessa delle virtù dei servizi sociali e nella sottovalutazione dei loro costi serve a nulla. E' necessario ripensare i parametri utilizzati per calcolare tutti i costi: sia sociali che economici.
Ancora un esempio. E' più conveniente concedere una benevola elemosina a un povero piuttosto che garantirgli un'ampia serie di servizi sociali come suo diritto. Quando parlo di benevolenza, faccio riferimento ad associazioni caritatevoli religiose, iniziative private o indipendenti, forme di assistenza basate sul reddito e via discorrendo. Tuttavia, è risaputo quanto sia umiliante ricevere questo tipo di assistenza. I means test applicati dalle autorità britanniche alle vittime della Depressione degli anni trenta vengono ancora ricordati con disgusto e rabbia dalle generazioni più anziane5.
Al contrario, è tutt'altro che umiliante ricevere ciò che corrisponde a un diritto. Se una persona ha titolo per accedere a un sussidio di disoccupazione, a una pensione, a una casa popolare, o ad altre modalità di assistenza pubblica riconducibili ad un proprio diritto - e non subordinate a controlli per valutare se la persona stessa abbia fatto abbastanza per "meritare" un aiuto - in nessun modo potrà provare imbarazzo nell'accettare il sostegno pubblico. Il problema è che garantire la tutela di un simile diritto è costoso.
Ma cosa succede se consideriamo l'umiliazione stessa come un costo a carico della società? Cosa succede se decidiamo di quantificare il danno arrecato quando le persone si ritrovano coperte di vergogna agli occhi dei loro concittadini prima di ricevere gli aiuti necessari a sopravvivere? In altre parole, cosa succede se includiamo nelle nostre stime relative alla produttività, all'efficienza o al benessere, la differenza tra elemosina umiliante e benefit quale diritto? Potremmo concludere che l'erogazione di servizi pubblici universali, di assicurazioni sanitarie pubbliche o di trasporti garantiti sia realmente una modalità efficiente a livello di costi per raggiungere gli obbiettivi che ci poniamo come comunità.
E l'esercizio potrebbe continuare: Come quantificare "l'umiliazione"? Qual è il costo misurabile di impedire a cittadini isolati di accedere alle risorse metropolitane? Quanto siamo disposti a pagare per aver una società buona? Non è chiaro. Tuttavia, se non riusciamo ad evadere queste domande, come potremo mai sperare di trovare delle risposte6?
Cosa intendiamo quando si parla di una "società buona"? Da una prospettiva normativa, possiamo iniziare con una "narrativa" morale dove situare le nostre scelte collettive. Tale narrativa  dovrebbe sostituire la stringente logica economicista che soffoca usualmente le nostre conversazioni. Ma definire i nostri propositi generali in questo modo non è una questione semplice.
In passato, la socialdemocrazia indubbiamente si è a lungo interrogata sui concetti di giusto e sbagliato: soprattutto perché essa ha ereditato un vocabolario etico pre-marxista abbinato a un disagio di matrice cristiana verso l'eccessivo benessere e il culto del materialismo. Peraltro, queste considerazioni sono state frequentemente annunciate da interrogativi ideologici. Il capitalismo era stato condannato? Se è così, una data politica poteva anticiparne o rischiava di posticiparne la definitiva scomparsa? Se invece il capitalismo non fosse stato destinato al fallimento, le scelte politiche avrebbero dovuto seguire una differente prospettiva. In entrambi i casi le questioni rilevanti riguardavano le prospettive stesse del sistema piuttosto che le virtù o i difetti di una determinata iniziativa politica. Simili problemi non ci preoccupano più. Ora, dobbiamo confrontarci con le implicazioni etiche delle nostre scelte.
Precisamente, cosa aborriamo del capitalismo finanziario o della "società commerciale" così come è sorta nel diciottesimo secolo? Che cosa troviamo istintivamente sbagliato nella nostra organizzazione sociale e cosa possiamo fare al riguardo? Cosa ci pare ingiusto? Cosa offende i nostri sentimenti etici quando assistiamo all'azione rapace di lobby sregolate a danno di chiunque altro? Cosa abbiamo perso?
Le risposte a simili questioni dovrebbero prendere la forma di una critica morale delle inadeguatezze di un mercato non regolato o di uno Stato inetto. E' importante capire perché tutto ciò offenda il nostro senso di giustizia ed equità. In breve, bisogna tornare al regno dei fini. In questo caso la socialdemocrazia ci è di scarso aiuto, poiché la sua risposta ai dilemmi del capitalismo si riduceva a timide espressioni di Illuminismo morale applicate alla "questione sociale". I nostri problemi sono piuttosto differenti.
Stiamo entrando,  io credo, in una nuova era di insicurezza, L'ultimo periodo storico ad essa paragonabile, descritto mirabilmente da Keynes in The Economic Consequences of the Peace (1919), faceva seguito a decadi di prosperità e progresso e a una improvvisa internazionalizzazione dell'esistenza umana: una "globalizzazione" in tutto e per tutto, tranne che nel nome. Come descriveva Keynes, l'economia commerciale si era diffusa a tutto il mondo. Il commercio e le comunicazioni si stavano velocizzando a un tasso senza precedenti. Prima del 1914, era ampiamente riconosciuto che la logica degli scambi economici pacifici avrebbe trionfato sull'interesse nazionale. Nessuno si aspettava che tutto sarebbe crollato improvvisamente. Ma successe.
Anche noi abbiamo vissuto attraverso un'era di stabilità e certezze, coltivando l'illusione di miglioramenti economici illimitati. Ma tutto questo è ormai alle nostre spalle. Per il futuro prevedibile dobbiamo aspettarci insicurezza economica e incertezza culturale. Senza dubbio, dai tempi della Seconda guerra mondiale, è la prima volta che scopriamo di essere così sfiduciati riguardo ai nostri propositi collettivi, al nostro benessere ambientale, alla nostra incolumità personale. Non abbiamo idea di quale mondo i nostri figli erediteranno, ma non possiamo seguitare a ingannare noi stessi supponendo che quel mondo possa somigliare a quello dove abbiamo vissuto noi.
Dobbiamo rivisitare le strategie adottate dai nostri nonni per rispondere a sfide e minacce paragonabili a quelle che ci troviamo ad affrontare oggi. La socialdemocrazia in Europa, il New Deal e la Great Society negli Stati Uniti furono esplicite risposte alle insicurezze e alle iniquità dei tempi. Pochi nel mondo occidentale hanno l'età per sapere cosa significhi assistere al crollo del proprio mondo7. Troviamo difficile persino da concepire un completo dissesto delle istituzioni liberali, una disintegrazione totale del consenso democratico. Ma fu proprio un simile dissesto a scompaginare gli esiti del dibattito fra Keynes e Hayek, dal quale emerse il successo keynesiano e nacque il compromesso socialdemocratico: il consenso e il compromesso nei quali noi siamo cresciuti, il cui richiamo è stato affievolito dal suo stesso successo.
Se la socialdemocrazia ha un futuro, lo avrà come socialdemocrazia della paura8.Piuttosto  che ripristinare un linguaggio di ottimistico progresso, dovremmo riconsiderare con attenzione il nostro passato recente. Il primo passo che i polemisti radicali di oggi dovrebbero compiere dovrebbe essere quello di rammentare ai propri interlocutori i raggiungimenti del ventesimo secolo e le probabile conseguenze dell'eventuale opera di smantellamento di quanto costruito.
La sinistra ha ancora qualcosa da conservare. E' la destra che ha ereditato l'ambizioso e modernista impeto alla distruzione e all'innovazione in nome di un progetto universale. I socialdemocratici, caratterialmente modesti nello stile e nelle ambizioni, hanno bisogno di parlare con più assertività delle loro passate conquiste. La nascita del servizio pubblico statale, la costruzione lunga un secolo del settore pubblico (i beni e i servizi da esso forniti hanno rappresentato e promosso la nostra identità collettiva e i nostri comuni propositi), l'istituzione del welfare come acquisizione di un diritto e le sue prestazioni intese come doveri sociali: non sono risultati da poco.
Il fatto poi che questi risultati siano stati parziali non dovrebbe inquietare più di tanto. Se abbiamo tratto qualcosa dalle vicissitudini del ventesimo secolo, dovremmo quantomeno aver compreso la pericolosità di quelle dottrine che ricercano a tutti i costi la perfezione. Risultati imperfetti in circostanze non soddisfacenti: è quanto di meglio possiamo augurarci e, probabilmente, tutto ciò che dovremmo perseguire. Altri hanno consumato le ultime tre decadi sezionando e screditando metodicamente le conquiste e i miglioramenti degli anni precedenti: ciò dovrebbe scatenare in noi, che ci abbiamo creduto, una reazione rabbiosa. Dovremmo anche preoccuparci, quantomeno riflettere su un punto: Perché abbiamo tutti questa fretta di abbattere ciò che i nostri predecessori hanno costruito così laboriosamente? Siamo sicuri che alla distruzione indiscriminata non farà seguito una terribile alluvione?
Una socialdemocrazia della paura è qualcosa per cui vale la pena combattere. Abbandonare il lavoro di un secolo sarebbe il tradimento di chi è venuto prima di noi e delle generazioni che seguiranno. Sarebbe piacevole, ma ingannevole, sostenere che la socialdemocrazia, o qualcosa di assimilabile, rappresentasse il futuro che noi dipingeremmo per noi stessi in un mondo ideale. Essa ha caratterizzato un passato non certo ideale, che non è perciò corretto idealizzare. Tuttavia, allo stato presente, rimane la migliore tra le opzioni che abbiamo a  disposizione. Nelle parole di Orwell, che rifletteva in Homage  to Catalonia sulla sua esperienza nella Barcellona rivoluzionaria:

C'era molto che non capivo di quella causa, in un certo modo non vi era molto che condividessi, ma riconobbi immediatamente che, date le circostanze, valeva la pena di combattere per essa.

Ecco, io credo che ciò non sia meno nei confronti della socialdemocrazia e del suo decisivo contributo alla vicenda del ventesimo secolo. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)


Tony Judt è uno storico britannico, scrittore e professore universitario. E' specializzato in Storia europea, professore di Studi europei alla New York University  e direttore del Nyu's Erich Maria Remarque Institute.
E' membro dell'American Academy of Arts and Sciences e della British Academy. E' autore di Postwar: A History of Europe Since 1945 e di Reappraisals: Reflections on the Forgotten Twentieth. Collabora regolarmente con la New York Review of Books.



[1] Si veda High Gini Is Loosed Upon Asia, The Economist, August 11, 2007.

[2] Si veda Massimo Florio, The Great Divestiture: Evaluating the Welfare Impact of the British Privatizations, 1979-1997 (MIT Press, 2004), p. 163. Per Harvard, si veda Harvard Endowment Posts Solid Positive Return, Harvard Gazette, September 12, 2008. Per il Pil del Paraguay o della Bosnia-Erzegovina, vedi www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/xx.html.

3 Bernard Williams, Philosophy as a Humanistic Discipline (Princeton University Press, 2006), p. 144.

4 Per questi dati si veda il mio "'Twas a Famous Victory," The New York Review, July 19, 2001.

5 Si veda The Autobiography of Malcolm X (Ballantine, 1987). Sono grato a Casey Selwyn.

6 La Commission on Measurement of Economic Performance and Social Progress, presieduta da Joseph Stiglitz e supportata da Amartya Sen, ha recentemente raccomandato un diverso approccio per misurare il benessere collettivo. Nonostante l'ammirevole originalità delle loro proposte, né Stiglitz né Sen sono riusciti ad andare oltre, suggerendo modalità più chiare per  valutare le performance economiche; le preoccupazioni non economiche non trovano grande spazio nel loro report. Vedi www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/en/index.htm.

7 L'eccezione è costituita dalla Bosnia, i cui cittadini sono sin troppo consapevoli di ciò che un simile crollo possa significare.


8 Per analogia con The Liberalism of Fear, il penetrante saggio sull'ineguaglianza politica di Judith Shaklar.

 

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