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LA SECONDA VITA DI TONY BLAIR

L'addio a Downing Street non è stato che l’inizio di un nuovo capitolo

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Simona Bonfante

Esattamente un anno fa Tony Blair lasciava Downing Street. Il Premier della pace in Irlanda del Nord e della guerra in Iraq, della riforma liberale dei servizi pubblici e  della modernizzazione del Partito Laburista lasciava la carica di Primo Ministro al culmine dell'impopolarità. Secondo molti, la vita politica di Tony Blair si sarebbe conclusa lì, con una fine simbolicamente sancita dal passaggio di consegne al sodale-rivale, Gordon Brown.

Ed invece l'addio al “top job” per Blair non è stato che l'inizio di un nuovo capitolo. A 55 anni, di cui 10 trascorsi alla guida della Gran Bretagna, Tony Blair ha oggi in cantiere un gran numero di attività “professionali” – consulenze per i governi del Rwanda e della Sierra Leone, un impegno di lobbying internazionale sul clima, una cattedra a Yale, contratti multimilionari con banche d'affari ed altrettanto generosi impegni editoriali. Ma il cuore dell'ex leader laburista batte ancora per la politica, come spiega lo stesso Blair a Lesley White in una lunga intervista-colloquio registrata tra Gerusalemme e i territori palestinesi, e pubblicata domenica 6 luglio sul Sunday Times.

Il Blair che ne viene fuori mostra la stessa passione per le sfide “impossibili” che la tenacia della volontà politica hanno reso realtà.“Essere Primo Ministro è stato un onore. Ma occuparsi di questioni che riguardano l'esistenza stessa di milioni di persone e dalle quali dipendono la sicurezza della regione e del mondo, conferisce al lavoro una dimensione più grande.” L'artefice dell'appeasement in Irlanda del Nord guarda oggi al Medio Oriente come alla nuova frontiera della pace possibile. “In effetti – osserva – le somiglianze sono straordinarie. In Irlanda del Nord ciascuno diceva che la pace era impossibile perché era l'avversario a non volerla. Il che è lo stesso di quanto dicono adesso palestinesi e israeliani. Hanno entrambi ragione – i palestinesi sull'ingiustizia dell'occupazione, e gli israeliani sulla sicurezza. Si devono affrontare queste realtà e cambiare le cose praticamente.”

Il ruolo che gli è stato conferito dal Quartetto – Usa, Europa, Onu, Russia – lo espone non solo al rischio dell'incolumità personale, ma ancor più a quello del fallimento. Un'ipotesi, questa della sconfitta, che tuttavia Blair non sembra nemmeno contemplare. “Sono ottimista – confessa. Sebbene molti mi accusino di aver perso i miei ideali, dopo dieci anni al potere, la verità è che continuo ad essere lo stesso idealista di sempre.”

L'amicizia con gli Usa e Israele spiega la diffidenza con cui la sua designazione è stata inizialmente accolta dai palestinesi. E tuttavia, come racconta lo stesso Blair è stato proprio il leader dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, a spiegare che è proprio la sua vicinanza agli Usa e ad Israele a renderlo un mediatore utile.”
Contribuire a pacificare i popoli palestinese ed israeliano è divenuto per lui una sorta di “imperativo morale”.

“Sento un forte senso di responsabilità per questa regione – confessa Blair. Vedo il mio impegno attuale come parte di una stessa battaglia: rovesciare il regime di Saddam, il processo di pace in Palestina, contenere l'Iran, stabilizzare il Libano.”
Blair trascorre ormai in Medio Oriente almeno una settimana al mese. Affiancato da uno staff diplomatico di 13 persone, messo a disposizione dalle Nazioni Unite e da donatori istituzionali internazionali – il Dipartimento britannico per lo Sviluppo Internazionale, la Banca Mondiale, la Gendarmerie e il Foreign Office – Blair ha ottenuto di estendere le proprie competenze   - inizialmente limitate allo sviluppo economico dei territori palestinesi - anche alle questioni legate alla sicurezza. Questo gli conferisce l'autorità di intervenire su aspetti cruciali del negoziato d pace, come il transito attraverso i varchi lungo la frontiera israelo-palestinese.

D'altra parte, si tratta di due aspetti intimamente legati, come si riconosce nel piano, Towards a Palestinian State, elaborato dall'Inviato del Quartetto, alla metà di maggio.
“L'accordo – osserva Blair – non è l'atto iniziale. Si deve cominciare sul campo, cambiando la vita quotidiana delle persone.”

Gaza ha una prospettiva concreta di sviluppo. Israele dovrà accettare di compiere il primo passo, accettando la progressiva, ma pur sempre rischiosa rimozione dei check-point che oggi impediscono il transito dai territori a merci e persone. Ma l'implementazione dell'intero progetto – dal quale dipendono la creazione di posti di lavoro, l'afflusso di capitali stranieri, la nascita di imprese e la costruzione di asset infrastrutturali strategici per lo sviluppo industriale della Striscia –  grava sulle spalle dei palestinesi, ai quali spetta, in ultima istanza, la responsabilità di garantire che la fiducia degli israeliani non venga ripagata dallo spargimento di nuovo sangue. “Gli israeliani devono compiere un salto psicologico. Non devono pensare “se accade, ok”, ma che stà a loro permettere che la pace “accada”. Credo che stia cominciando a succedere. Solo pochi mesi fa, non avrebbero mai approvato un piano così.”
 La conversione al Cattolicesimo – ufficializzata solo dopo la fine dell'incarico di Premier – si è tradotta in “dottrina politica”: per Blair, è la fede il nuovo baricentro della politica. “La politica non ha più a che fare con “destra” e “sinistra” –  spiega - ma con “apertura” e “chiusura”. Impegnarsi nel dialogo inter-religioso non significa altro che aprire quelle menti che l'estremismo cerca di serrare”. “La globalizzazione può avvicinare i popoli. La fede può dividerli. Fare in modo che ciò non accada – osserva - significa far funzionare la globalizzazione. È questo l'impegno al quale voglio dedicarmi per il resto della mia vita”. Nasce da qui la Tony Blair Faith Foundation che, ufficialmente inaugurata lo scorso giugno, è impegnata nella promozione della conoscenza reciproca tra fedeli di fedi diverse.

Blair è profondamente convinto di poter dimostrare che le differenze dottrinarie alimentate dall'estremismo possano essere superate affermando la matrice che accomuna tutti i credenti, attraverso la prova concreta che la convivenza, la collaborazione tra popoli sono nell'interesse di tutti e nella possibilità di tutti. 
Nessun rimpianto per il vecchio lavoro, insomma, e grande rispetto per chi oggi si trova a dover gestire responsabilità complesse e compiere scelte talvolta sofferte ed impopolari. Ed è proprio il prezzo dell'impopolarità che Blair ha imparato a conoscere dopo l'11 settembre. È stato quello “il momento personalmente più difficile della mia vita – riconosce l'ex Premier britannico – perché ero consapevole di esporre delle persone ad un pericolo reale”. Tuttavia – insiste - nessun rimpianto.






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