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DOSSIER MEDIO ORIENTE/2 DIRITTO E DIPLOMAZIA REGIONALE

Un merito al vertice di Annapolis va senz’altro riconosciuto: aver favorito la decisione della diplomazia mediorientale di entrare direttamente in campo nel peace-building regionale

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Simona Bonfante

Annapolis non è stata la panacea per il Medio Oriente che il Presidente Bush – più che ancora che il suo Segretario di Stato, Condoleezza Rice -  si attendeva, ma un merito le va senz'altro riconosciuto : aver favorito la decisione della diplomazia mediorientale a entrare direttamente in campo nel peace-building regionale.
 Da una parte, Doha, l'accordo mediato dal Qatar nella primavera del 2008, per la soluzione dell'impasse politico-istituzionale che gravava il Libano dal 2005, con l'omicidio del premier anti-siriano, Rafic Hariri.  Infine, la scelta di Israele di trattare con il nemico, anche quando quel nemico non è uno stato ma un'organizzazione del terrore, che si chiami Hamas o Hezbollah. Israele ha firmato con Hamas un cessate il fuoco di sei mesi che, dopo quattro mesi non è ancora stato violato, se non marginalmente, e sono in corso negoziati, attraverso la mediazione del Presidente egiziano, Hosni Moubarak, per uno scambio di prigionieri e l'apertura del passo di Rafah, tra Gaza e l'Egitto.

L'engagement di Qatar, Turchia, Egitto è un fatto diplomatico importante, che non sostituisce ma integra il ruolo dell'Occidente, ovvero di quei paesi - Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna - storicamente legati alla regione da interessi economici e strategici. Un fatto importante, si diceva, il ritorno della diplomazia regionale, soprattutto dal punto di vista simbolico, ma non risolutivo, come dimostra la fragilità ed indeterminatezza dei successi sin qui conseguiti sui principali fronti negoziali. 

La pacificazione del Libano tuttavia è ancora di là da venire, almeno finché la Siria continuerà ad impedirla, foraggiando la violenza e lo scontro tribale, ed usando Hezbollah come suo braccio armato e politico nel paese.
 

Tripoli è un bastione sunnita che, in gran parte, sostiene il Movimento anti-siriano di Hariri. Ma ospita anche la più bellicosa comunità della resistenza salafita, ovvero il molto pro-siriano Hezbollah. Sunniti entrambi, ma non sodali.
 Alla fine di settembre, la Siria dispiega lungo il confine con il Libano – in pratica, ad un passo da Tripoli – quasi 10.000 militari. L'obbiettivo dichiarato dalla autorità di Damasco è la lotta al contrabbando.La manovra precede di poco due attentati che, a due giorni l'uno dall'altro, colpiscono la capitale siriana e la cittadina portuale libanese. Nessuna chiara rivendicazione, né nell'uno né nell'altro caso.

Per Saad Hariri, tuttavia, dietro l'attentato di Tripoli ci sarebbe Damasco. « La Siria – sostiene - vuole seminare il terrore per giustificare una nuova occupazione militare ». Assad ha inoltre fatto sapere di aver avviato già da tempo, cioè da prima del dispiegamento delle forze siriane a nord del Libano, un negoziato con il Presidente Sleiman per una « cooperazione » sulla sicurezza lungo la comune linea di confine. Ora, “cooperazione” è una parola pericolosa poiché lascia intendere la legittimità di un ritorno delle forze militari siriane su territorio libanese, anche se come forze di “cooperazione” e non di “occupazione”. Una differenza, si comprenderà, che il precedente russo in Georgia rende quantomeno sospetta. In un'intervista rilasciata al quotidiano pan-arabo al-Sharq al-Awsat, il primo ottobre scorso, il Ministro degli Esteri Moualem ha dichiarato che « non è corretto ritenere che la Siria fornisca armi ed equipaggiamenti ad Hezbollah », poiché ha osservato, « Hezbollah non ne ha bisogno. » In effetti, oggi Hezbollah non solo tiene le armi, ma si arroga anche il diritto ad una prerogativa militare che dovrebbe invece essere monopolio assoluto dell'esercito regolare. Secondo Der Spiegel, addirittura, Hezbollah avrebbe recentemente scritto al Capo dell'esercito regolare libanese per intimare la cessazione dei voli dell'aeronautica libanese sulle aree giudicate « off limits » dal gruppo islamista, ovvero una estesa porzione di territorio libanese che, dalla Valle di Bekaa, a sud, si estende fino al confine settentrionale con la Siria.  Il Presidente Nicolas Sarkozy ha ancora molto da riscuotere dall'omologo siriano, al quale ha spalancato le porte dell'Unione per il Mediterraneo, e dischiuso quelle per un reintegro di Damasco nella Comunità internazionale. Una delle condizioni su cui ha lavorato la diplomazia francese per giustificare una simile “rottura” con la tradizione Chirachiana, è stata naturalmente il disimpegno - totale e effettivo – della Siria dagli affari interni libanesi, un primo passo verso il quale, apparentemente, è già stato compiuto con il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Libano e Siria e l'imminente apertura delle rispettive sedi diplomatiche a Beirut e Damasco.Il che è molto, ma ancora troppo poco.  Dopo una serie di omicidi che, nella primavera 2008, hanno centrato obiettivi umani strategici, nell'una e nell'altra fazione, Hamas – che ha il legittimo controllo di Gaza – e Fatah – ovvero, il partito dell'Autorità palestinese – hanno aperto un nuovo fronte di lotta : la durata legale del mandato del Presidente Mahmoud Abbas.

A giugno 2008, l'Ufficio legislativo e giuridico del Ministero della Giustizia dell'Autorità Palestinese ha deciso che il mandato del Presidente dell'Autorità sarà prolungato fino al 25 gennaio 2010, in coincidenza con la fine mandato del Consiglio legislativo palestinese. La decisione si basa su un emendamento della legge elettorale che, nel 2005, ha stabilito che le elezioni presidenziali e legislative debbano aver luogo simultaneamente. Secondo Hamas, tuttavia, « la legge fondamentale limita il mandato del Presidente a quattro anni ». Secondo Ghassan Khatib – già Ministro della pianificazione dell'Autorità Palestinese, oggi accademico e giornalista – « Israele non si fa un problema del controllo di Hamas su Gaza. Oltre a indebolire le aspirazioni dei palestinesi per l'indipendenza, la divisione tra Hamas e Fatah – rispettivamente egemoni a Gaza e nel West Bank - innesca una sorta di competizione tra chi, dei due, è più capace di controllare la violenza contro Israele. » Come nel caso del Libano, anche qui la mediazione mediorientale - egiziana nella fattispecie - aiuta ma non risolve. Il Presidente Mubarak ha tuttora in mano la trattativa per il rilascio dei soldati israeliani – da anni prigionieri di Hamas - ed ha contribuito all'accordo sul cessate-il-fuoco, messo in atto con successo sotto il controllo dell'organizzazione islamista palestinese. Tuttavia, se in Libano l'autorità istituzionale è debole, nei territori palestinesi, non si sa più chi sia l'autorità. 

« Anche se la crescita economica, in sè, non garantisce la pace, povertà diffusa, disoccupazione e disperazione rendono più ardua la ricerca di una soluzione al conflitto israelo-palestinese e le prospettive di uno Stato palestinese »
- osserva Anne Le More, associate fellow del Middle East Program del think tank londinese Chatham House, nonché autrice di « International Assistance to the Palestinians after Oslo: Political Guilt, Wasted Money ». Nei soli primi otto mesi del 2008, la comunità internazionale ha sborsato l'inedita cifra di 1 miliardo e 200 milioni di dollari in aiuti all'Autorità Palestinese. Dal 1994 le popolazioni di Gaza e West Bank hanno ricevuto oltre 10 miliardi di dollari, che si aggiungono al budget regolarmente stanziato dalle Nazioni Unite che, tra il 2004 e il 2007, è più che raddoppiato, passando dai 0 milioni del 2006 ai 0 milioni stanziati per il 2008, il 30% del bilancio annuale della AP.« Si tratta – scrive la Le More – della più elevata e prolungata quota pro-capite di aiuti internazionali mai impiegata. »    Sull'altro fronte, Israele ha clamorosamente mancato di rimuovere le restrizioni economiche ai territori, accelerandone il declino e rendendo sostanzialmente improduttivo l'investimento di denaro nello sviluppo economico dei palestinesi che, dal 2000 in avanti, hanno progressivamente visto aggravarsi la propria condizione fino a raggiungere la vera e propria emergenza umanitaria. La questione centrale che Washington ha ri-posto ad Annapolis – il rispetto delle Risoluzioni dell'Onu – risulta infatti, ancora oggi, inevasa. Né Israele né la flebile Autorità Palestinese hanno fatto progressi sul fronte della legalizzazione dei rispettivi status : Israele continua a infrangere la Risoluzione 1701, che definisce i confini legittimi tra Israele e Autorità palestinese e intima a Israele lo smantellamento degli insediamenti abusivi e la liberazione del transito nei territori palestinesi ; i palestinesi continuano a violare la sicurezza di Israele non impedendo – o promuovendo – attacchi terroristici contro la popolazione civile israeliana. 
(continua)

Dossier Medio Oriente/1 Diritto e psicologia della pace






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