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PUTIN'S RUSSIA - LIFE IN FAILING DEMOCRACY
Una pubblicazione promossa da ENGLISH PEN
di Anja Politkovskaja
Editore: Harvill Press 296 pgg


(pagina 2)

... so cui opera la Commissione WiPC è il Rapid Action Network, con cui PEN esorta, tramite email, i membri ad agire a favore della liberazione degli intellettuali prigionieri, pregandoli mandare appelli individuali in forma di lettera alle autorità dei paesi dove vengono detenuti. Poche sono le risposte a questi appelli (senza dimenticare che talvolta il solo tentativo di mettersi in contatto da parte degli stranieri rappresenta un rischio per il detenuto, o un'ennesima prova a carico della sua infedeltà alla nazione), ma, come ha affermato Sylvia Casale, presidente della Commissione europea per la prevenzione della tortura, "ogni singola lettera conta, quando si tratta di salvare un essere umano da condizioni di degrado fisico e morale. È comunque un mezzo di pressione".
Il primo pensiero di PEN, dato che la strada che può portare alla liberazione di uno scrittore è lunga, accidentata, e talvolta senza uscita, va alla salute di quei letterati che vivono in condizioni igieniche e alimentare insostenibili, com'è successo all'ex direttore dell'Havana Press, Jorge Olivera Castillo, uno dei 75 dissidenti cubani arrestati dalla polizia del Lider Maximo nel marzo 2003. Condannato a 18 anni di reclusione, è stato rilasciato per motivi di salute dopo 21 mesi passati in cella in seguito ad una protesta internazionale. Ma quasi due anni chiuso in una cella buia e cieca, con altre quattro persone, una sopra l'altra ("non c'era nemmeno lo spazio per sdraiarsi a terra tutti e cinque contemporaneamente", ricorda Naomy May, commissario del WiPC di English PEN, che si è occupata del suo caso), ha causato un gravissimo tracollo fisico del giornalista, che è uscito barcollando dal carcere, con una quindicina di chili in meno, qualche parassita in più a rosicchiargli il corpo da dentro, la pressione più alta di una palma della spiaggia di Varadero, e un bel divieto di scrivere e pubblicare. "Spesso, una volta usciti di prigione, i nostri protetti non trovano una vita molto migliore", racconta Naomy May, "Jorge non ha più un lavoro e di conseguenza non si può permettere nemmeno le medicine per curare quelle malattie che la gattabuia gli ha lasciato in eredità. Poi, ce n'è una di malattia da cui non potrà mai guarire: il continuo, persistente, atroce, disumano terrore di tornare in prigione senza aver fatto niente di male".
Ma non è necessario attraversare gli oceani per trovare casi di efferata oppressione della libertà intellettuale. Qui vicino a noi, in Turchia, come si sa, non sono rari i casi in cui si chiude un occhio sui diritti umani per la ragion di stato, e non meno rari sono i casi in cui si chiude direttamente la bocca a chi critica, o semplicemente descrive sinceramente, attraverso i suoi scritti le vicende del paese. La scrittrice Leyla Zana è stata condannata a 15 anni di detenzione l'aprile scorso. Aveva fatto riferimento nei suoi libri alle difficoltà di vita dei curdi in Turchia, quindi non è stato difficile per il governo attribuirle una militanza nel Kurdish Worker's Party (PKK).
Il magico strumento in mano al governo è quell'articolo 301 del codice penale turco, entrato in vigore nel 2005, che proibisce di parlar male della nazione. Quell'articolo che Oli Rehn, commissario europeo per l'allargamento, ritiene assolutamente necessario modificare, perché la Turchia possa effettivamente aspirare ad entrare nell'Unione Europea.
Se tutto fosse veramente relativo, le storie di Aung, Mohamed, Faraj, Jorge e Leyla sarebbero storie a lieto fine, almeno loro sono ancora vivi, lusso che non è stato concesso né alla poetessa e attivista iraniana Parvaneh Forouhar, massacrata insieme al marito nel 1998, né alla ventiduenne giornalista algerina Malika Sabour, uccisa nel suo salotto davanti ad un pubblico d'eccezione: la sua famiglia. E nemmeno a quei 400 esseri umani di fine intelletto e sconfinato coraggio che sono stati assassinati a causa del loro lavoro negli ultimi 10 anni.
Come avremmo fatto a saperlo se PEN non ce l'avesse detto? Come farebbero questi grandi martiri della parola a continuare a credere di poter dire quello che pensano e raccontare quello che vedono se non esistesse un'organizzazione che li difende? Questa società di scrittori liberi che preme perché anche i loro colleghi abbiano il diritto di parlare, di pensare, di scrivere e, perché no, urlare che nel loro paese ci vorrebbero delle riforme, che la gente ha paura, che i bambini hanno fame, che il governo ruba i soldi ed è al potere solo perché l'ha rapito alle elezioni, che non è vero che il regime è democratico, è solo una dittatura. Perché la libertà di espressione, e i diritti dell'essere umano, non siano solo una frase morta all'articolo 19 di una Dichiarazione, che dona un sacco infilata nell'occhiello di quei governi che sorridono tanto nelle foto di gruppo alle Nazioni Unite, e ringhiano come cani rabbiosi alla prima critica di un povero poeta. Perché la libertà di espressione non è offensiva. Non solo Maldive, Siria, Cuba, Turchia, Myanmar, ma anche Turkmenistan, Vietnam, Tunisia, Marocco, Sierra Leone, Messico, Arabia Saudita, e tanti altri, quasi tutti membri delle Nazioni Unite, e perciò firmatari della Carta sui diritti umani.
PEN, naturalmente, sognerebbe di non dover esistere, ma finché il mondo continua a dimenticarsi che quello che conta è l'essere umano, la comunicazione, il dibattito e non la stabilità ottenuta con la repressione di ogni voce coraggiosamente dissenziente, possiamo solo ring...


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