WHAT AMERICA MUST DO ? - 2
A parlare è Reza Aslan, scrittore iraniano di fama internazionale e studioso delle religioni presso prestigiose università americane come la Harvard University e la California University
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... ccio tra religione e nazionalismo ha caratterizzato da sempre la politica estera americana. Fin dalle origini si è diffusa la credenza che gli Stati Uniti sono una nazione benedetta da Dio, nata per un disegno provvidenziale con il compito di difendere e diffondere nel mondo valori di libertà. L'idea che l'America ha una missione da compiere nel mondo deriva dal puritanesimo e rappresenta una matrice religiosa tuttora radicata nell'identità collettiva americana. Lo stesso concetto di “democrazia” è impregnato di senso religioso in quanto è inteso come “dono divino di libertà”. Non è un caso che tutti i presidenti americani abbiano sovente concluso i loro discorsi con le parole “God Bless America”, ovvero invocando la benedizione di Dio sull'America, o fatto riferimento alla fede nel Creatore. Tutt'oggi la società americana, nonostante sia secolarizzata, presenta al suo interno una religiosità molto forte, addirittura più marcata rispetto a numerosi Stati occidentali notoriamente cattolici. L'85% degli statunitensi sostiene di avere qualche credo religioso e, sebbene le fedi professate in terra americana siano molteplici, gli Stati Uniti continuano a configurarsi come nazione cristiana.
Dopo l'11 settembre 2001 si è assistito a un risveglio delle componenti religiose presenti nella società civile statunitense che si sono unite al tradizionale patriottismo. Interprete di questo risveglio confessionale è stato George W. Bush che, da subito, ha pubblicamente professato la sua fede (è protestante metodista) e usato un linguaggio imbevuto di riferimenti religiosi. Secondo la tesi espressa da Emilio Gentile, professore di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma, nel suo libro “La democrazia di Dio”, la tragedia dell'11 settembre è stata usata dall'amministrazione di Bush «per arrogarsi il monopolio della definizione del bene e del male e l'esclusiva prerogativa di definire i valori e i principi del “vero americano”, promuovendo la rinascita dei miti della religione civile, dal mito del popolo eletto al mito del “destino manifesto” della nazione missionaria, secondo una visione tradizionalista e integralista della religione e della politica». Il professore sostiene, in sintesi, che l'alleanza tra Bush e la destra religiosa americana mira a trasformare le istanze religiose insite nella mentalità statunitense in una «religione politica americana». Altre tesi, provenienti da ambienti religiosi, ritengono invece auspicabile l'associazione tra politica e fede che non avrebbe il drammatico effetto di infrangere la separazione tra Stato e Chiesa ma rafforzerebbe una politica fatta di valori e consapevolezza morale. Credere che in Occidente la politica possa trasformarsi nel “braccio armato” della religione, sarebbe dunque un estremismo di prospettiva.
Certo è che nell'elezione di un presidente gioca un ruolo fondamentale il riferimento a valori religiosi poiché per gli americani il loro leader deve credere in qualcosa. Lo dimostra anche la vittoria del mormone Mitt Romney alle primarie di ieri in Massachusetts (sebbene al suo successo abbiano contributo altri fattori). La maggior parte degli statunitensi si rifiuterebbe infatti di votare un candidato che si professasse ateo, sebbene la maggior parte di loro sia convinta che per essere una persona moralmente ineccepibile non è necessario credere in Dio. Un altro paradosso americano, che sicuramente i candidati alla presidenza terranno in considerazione. Nelle prossime puntate, le analisi di Philip Stephens, Jessica T. Mathews, Yang Jianli, Newt Gingrich, Kavita Ramdas, Nadine Gordiner, Jorge I. Dominguez, Dmitri Trenin, Fouad Ajami e Desmond Tutu.
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