David Goodhart , Prospect, aprile 2011,
Tunisi appare sin troppo calma e normale per essere la capitale del paese che per primo è stato travolto dal più grande rivolgimento che il mondo arabo ricordi dai tempi della prima guerra mondiale. A giudicare dall'età combinata del nuovo presidente tunisino e del primo ministro (161 anni), non sembra vero che il governo provvisorio sia frutto di una rivoluzione guidata da giovani esasperati dall'immobilismo nazionale e abili nell'utilizzo dei new media. Tuttavia, i due anziani governanti stanno colmando il gap generazionale e sinora tengono bene la scena. Nel frattempo, l'attenzione del mondo si è spostata altrove, anche se, come ho potuto verificare durante un mio recente viaggio nel Paese, i tunisini non sembrano accontentarsi della cacciata di Ben Ali, che ha lasciato Tunisi lo scorso 14 gennaio. Siamo giunti infatti al terzo governo, dopo l'abbandono anche dell'impopolare primo ministro di Ben Ali, Mohamed Ghannouchi, alla fine di febbraio. Il nuovo premier, l'ottantaquattrenne Beji Caid Essebsi, un veterano del movimento d'indipendenza degli anni cinquanta non compromesso con il regime di Ben Ali, ha annunciato le elezioni per un'assemblea costituente, che si terranno il 24 luglio.
Dall'aver mai vissuto, davvero mai, una reale tornata elettorale, la Tunisia si prepara ad averne ben tre in rapida successione - culminando nella scelta del nuovo presidente e del nuovo parlamento entro, forse, la fine dell'anno in corso. Questa modesta ex colonia francese potrebbe così tracciare il solco della transizione del mondo arabo verso le riforme democratiche. "Possiamo diventare il banco di prova per l'intero mondo arabo, ma non dobbiamo correre troppo", sostiene Raoudha Ben Othman, professore di linguistica all'Università di Tunisi.
Il dilemma per la Tunisia - e anche per l'Egitto in verità - è se favorire o meno una transizione democratica troppo veloce che potrebbe negare a nuovi partiti e leader il tempo per organizzarsi e far sentire la propria voce. D'altro canto, un eccessivo rallentamento del processo potrebbe indurre all'impazienza, e alla violenza, gli attivisti che hanno lottato per il cambio di regime. Senza contare che la Tunisia deve inventarsi una cultura democratica - per rimpiazzare ciò che Ben Othman definisce "la cultura della fedeltà" - , una stampa libera, un nuovo ordinamento giudiziario e un sistema partitico pluralistico, oltre a trovare il modo di gestire l'eredità del vecchio regime. Facebook non può aiutare granché, anche se il 18% della popolazione lo utilizza (e più di un terzo è in rete).
Ma se esiste una nazione araba che può riuscire in tutto questo, ebbene sì, è la Tunisia. Su dieci milioni di abitanti, il 42% è sotto i venticinque anni di età. E' un paese etnicamente e religiosamente omogeneo, notoriamente stabile - una sorta di Slovenia del Nord Africa, dove anche tra gli islamisti l'estremismo è poco diffuso. Il Pil pro capite è di 5.900 dollari all'anno, in assenza di rendite energetiche considerevoli. Le infrastrutture sono decenti. Le migliori risorse del Paese sono state dirottate verso il mondo degli affari per tenerle lontane dalla politica e solo in anni recenti, quando la famiglia di Ben Ali ha conquistato fette consistenti del settore privatizzato, la divisione tra pubblico e privato si è fatta più indistinta. La Tunisia può contare su una popolazione preparata, grazie a investimenti nell'istruzione che raggiungono il 7% del Pil. Sarà per questo motivo che le donne tunisine godono di diritti notevoli se si opera un confronto con il resto del mondo arabo.
Oltretutto, benché i morti siano stati 240, la rivoluzione si è rivelata rapida e quasi incruenta. Il clan di Ben Ali se n'è andato, insieme a figure di primo piano del governo e dell'esercito, ridotto e apolitico. Si è assistito a un rapido riposizionamento di alcuni settori dell'èlite al potere, ma non ci sono i segnali di una imminente resa dei conti. Ciò detto, un uomo del sud che ho incontrato parla con astio dei poliziotti che mangiano sempre gratis nel suo locale. Piccoli abusi sono spesso all'origine di odii feroci.
Sebbene il regime sovvertito fosse indubbiamente repressivo, Ben Ali - ma non i membri della sua famiglia - ha goduto sino all'ultimo di un certo supporto popolare. Le prigioni non erano piene di detenuti politici e la violenza si è resa di rado necessaria - molti conoscevano le regole e le rispettavano. "Vi era un notevole livello di auto-censura, oltre alla censura vera e propria", ammette Essia Atrous, giornalista di punta del giornale Assabah. Il 20% della popolazione era iscritto al partito dominante Rcd (ora dissolto).
Così, per gli standard regionali, una dittatura relativamente mite è stata rovesciata da una rivoluzione soft. Alla fine di febbraio, quando ho visitato Kasbah Square nel centro di Tunisi, poche centinaia di irriducibili contestatori rimanevano accampati fuori dall'ufficio dell'allora primo ministro. Vi era qualcosa di carnevalesco quanto di serio in quella protesta, condita da approfondite discussioni sui diritti umani e la separazione dei poteri. Mi accompagnavo con alcuni giovani tunisini, formati in Occidente e stupiti dalla preparazione dei contestatori. Aleggiava uno spirito divertito: " Grazie facebook" si poteva leggere sui muri in inglese. Mi è stato consegnato un Cd di canzoni rap rivoluzionarie. Mi ricordo di una che deride i discorsi pronunciati da Ben Ali.
Non è peraltro scontato che la Tunisia completi con pieno successo la sua transizione democratica. L'annuncio di un'assemblea costituente è stato ben accolto e ha rilegittimato il governo provvisorio. Il nuovo premier, Essebsi, deve la sua popolarità in parte all'età avanzata, che significa che la sua presenza al potere non andrà oltre i cinque mesi previsti, e in parte all'equilibrio mostrato consultandosi con tutti (dagli islamisti ai comunisti) e arginando l'odiata polizia politica.
Allo stato attuale, il Paese è scosso dalla crisi dei rifugiati libici, ma nel lungo periodo le preoccupazioni riguarderanno la dislocazione economica e le diffuse crescenti aspettative. La rivoluzione ha innescato un'ondata di scioperi per chiedere innalzamenti salariali. Anche l'hotel dove soggiornavo non è stato risparmiato dalle agitazioni. "Molti lavoratori sentono che la rivoluzione dà loro diritto a un aumento salariale del 20% e non c'è autorità che riesca a fermarli", sostiene Fares Mabrouk, impegnato nella fondazione del primo think tank politico di Tunisi. Inoltre, la principale organizzazione sindacale (la Ugtt) inizia a far sentire politicamente il suo peso. Il calo del turismo e degli investimenti interni non aiuteranno a ridurre la disoccupazione, che dovrebbe aggirarsi intorno al 30% tra i giovani e che è stata una delle cause principali della rivolta popolare. Mohamed Bouazizi, la cui orribile immolazione ha innescato le proteste nelle strade, era un operatore del mercato azionario cui era stato impedito di lavorare.
E che dire del fondamentalismo islamico? Hanno avuto luogo dimostrazioni davanti alla sinagoga di Tunisi e alcuni bordelli sono stati chiusi; in entrambi i casi sembra evidente il coinvolgimento del più radicale dei partiti islamisti tunisini, Hizb ut-Tahrir. Il principale partito islamista, Ennahdha, guidato da Rachid Ghannouchi (nessuna relazione con l'ex primo ministro), si è impegnato a rispettare la democrazia e l'uguaglianza di genere - sebbene molte donne istruite temano il peggio. "Non ho la minima fiducia in loro", dice Essia Atrous, giornalista.
In ogni caso, l'ottimismo di fondo dei tunisini per la loro rivoluzione è emerso durante il primo dibattito politico libero nel Paese, che si è tenuto a Tunisi il 22 febbraio. Tim Sebastian, ex reporter della Bbc, ha presieduto un dibattito, in onda su Bbc World News nella sezione "Doha debates" e centrato su un argomento di fondo: il rischio che le rivoluzioni arabe finiscano per produrre nuove dittature. E' toccato a Shibley Telhami, un accademico palestinese-americano, il tentativo di rassicurare rispetto al rischio prospettato, descrivendo il rivolgimento tunisino come "un incubo per Bin Laden". Più tardi gli ho chiesto cosa avesse causato la rivoluzione. "E' la rivoluzione dell'informazione. Ai governi è stato sottratto il monopolio sull'informazione e ora non potranno più ignorare il punto di vista della gente, soprattutto perché le popolazioni possono ora contare su altre fonti di notizie e organizzarsi attraverso questi nuovi canali", ha detto.
Fares Mabrouk, anch'egli contrario all'idea che le rivoluzioni arabe possano essere seguite da una restaurazione o dal radicalismo, illustra un altro aspetto. "Vi sono molti fattori da tenere in considerazione: alcuni di lungo periodo, come la disoccupazione, la vicenda di WikiLeaks (che ha dimostrato l'avversione crescente degli Usa nei confronti del regime) e il fatto che Ben Ali stesse pianificando di rimanere al potere oltre il 2014; altri di lungo periodo, come il buon livello generale di istruzione e internet." Ma la causa più rilevante, ha aggiunto, deve essere rintracciata nella discrepanza tra l'elevato grado di sviluppo dell'economia tunisina e la chiusura cui era costretta la società civile.
Che accade ora? "Il modello potrebbe essere qualcosa di simile alla Turchia", azzarda Mabrouk, "ma lasciateci almeno cinque anni per sviluppare una cultura democratica e una società civile nelle quali la nostra gente potrà finalmente specchiarsi". (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)