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LEGGE BIAGI: UN BILANCIO DUE ANNI DOPO

Un saggio del direttore della Fondazione Marco Biagi dell'Università di Modena e (all'interno) un intervento sul sindacalismo inglese di Malcom Sergeant della Middelsex University.


Data: 0000-00-00

di Michele Tiraboschi


1. Trascorsi due anni dalla sua entrata in vigore , la dottrina giuslavoristica italiana si interroga sugli effetti e sul futuro della «legge Biagi» di riforma del mercato del lavoro . L'approssimarsi della scadenza della XIV Legislatura non agevola tuttavia il confronto. Come del resto già accaduto di recente in Germania e Norvegia , l'imminente competizione elettorale influisce negativamente anche sul dibattito scientifico che ne risulta fortemente condizionato. L'analisi tecnica e di merito - ma anche la stessa verifica empirica - degli effetti della riforma risultano così viziate, il più delle volte, da valutazioni politiche e pregiudiziali ideologiche. Con il risultato, per più di una ragione paradossale, che ben pochi passi in avanti paiono essere stati compiuti rispetto alle posizioni assunte, in ambito dottrinale, all'indomani della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge n. 30 del 2003 e, invero, ancora prima a partire dalle proposte e linee di riforma del mercato del lavoro contenute nel Libro Bianco dell'ottobre 2001. Quanti, a caldo e in prima lettura, si erano espressi in termini negativi sulla legge n. 30 del 2003 e sui relativi decreti di attuazione confermano oggi, senza alcun minimo ripensamento legato alla prima fase di applicazione, la necessità di una profonda revisione se non addirittura della abrogazione pura e semplice di una legge divenuta, suo malgrado e prima ancora di essere stata messa alla prova, il simbolo della precarietà e della mercificazione del lavoro. Non sono dunque bastati i dati, complessivamente più che positivi, sulla occupazione registrati dai principali e più autorevoli centri di rilevazione , per portare un po' di tregua sulla riforma Biagi. Siamo l'unico Paese che registra, da alcuni anni a questa parte, un costante incremento del tasso di occupazione regolare e una significativa contrazione del lavoro temporaneo . Lo stesso tasso di disoccupazione è drasticamente sceso al 7,7 per cento. Ben al di sotto della media europea (pari all'8,3 per cento), e con performances di gran lunga migliori rispetto a quanto avviene in Paesi come Francia, Spagna e Germania che ancora arrancano per non superare la soglia critica del 10 per cento . La serie storica dell'ISTAT dal 1992 ad oggi segnala un trend positivo rispetto a tutti i principali indicatori del mercato del lavoro. Eppure i significativi sforzi compiuti sulla strada della modernizzazione del mercato del lavoro, in una chiara linea di continuità tra «pacchetto Treu» e «legge Biagi» , stentano ad essere riconosciuti. Quasi si rimpiangesse quello che, almeno sino a pochi anni fa, veniva considerato dalla Unione Europea e dalle istituzioni internazionali - che non a caso ora plaudono alla riforma - il peggiore mercato del lavoro in Europa. Invero, almeno nei termini di cui diremo nel prossimo paragrafo, non si registrano ancora dati inequivocabili per sostenere che la «Legge Biagi» abbia davvero consentito, come auspicato dall'articolo 1 del decreto legislativo n. 276 del 2003, di incrementare i tassi di occupazione regolare e di qualità e rendere più effettive e fluide le regole che governano l'incontro tra domanda e offerta di lavoro. E certamente, come molti hanno notato, sulle buone performances degli indicatori occupazionali ha inciso anche il contestuale provvedimento di regolarizzazione di un numero cospicuo di immigrati irregolari . Ciò detto risulta tuttavia sicuramente possibile, già in sede di primo e provvisorio bilancio, smontare le principali e più feroci critiche formulate dalla dottrina sui presunti effetti destrutturanti della riforma Biagi. Vero è semmai contrario come segnalano tutte le più accurate rilevazioni empiriche e analisi econometriche. I primi due anni di applicazione indicano infatti con chiarezza che non si è innanzitutto verificata la tanto temuta e preannunciata precarizzazione del mercato del lavoro italiano. Al di là di della propaganda politica e sindacale, tanto i più accreditati confronti internazionali quanto i dati INPS e la serie ISTAT, ricostruita dal 1992 al 2004, segnalano infatti come l'occupazione temporanea e atipica sia rimasta sostanzialmente stabile dal 1995 ad oggi . Come si può vedere dalla tavola che segue, si tratta di poco meno di 2 milioni di lavoratori, almeno un terzo dei quali impiegati con contratti a contenuto formativo, rispetto a una popolazione lavorativa di oltre 22 milioni di soggetti. Appare dunque davvero difficile immaginare, anche mettendoci una buona dose di ideologismo, che la riforma Biagi abbia rivoluzionato radicalmente, e in termini tanto negativi, un mercato del lavoro che risulta ancora oggi, per la sua massima parte ben strutturato e basato su rapporti di lavoro stabili e a tempo indeterminato. Le più recenti rilevazioni ISTAT , già anticipate nel rapporto CNEL del 2004 curato da Aris Accornero , hanno peraltro consentito di fare chiarezza anche nell'area grigia delle collaborazioni coordinate e continuative e occasionali. Degli oltre 3 milioni di iscritti alla gestione separata poco più di 500 mila lavoratori operano in reale regime di parasubordinazione, là dove è oramai accertato che la stragrande maggioranza dei collaboratori è vincolata a un committente per lo svolgimento di attività per le quali pare più che giustificato il ricorso a prestazioni di lavoro autonomo quali sono le collaborazioni coordinate e continuative. Rimane invero largamente impregiudicata la grave anomalia italiana di un mercato del lavoro sommerso e non istituzionale che assume dimensioni tre/quattro volte superiori rispetto a quello degli altri Paesi industrializzati. Ma qui davvero la legge Biagi può avere inciso ben poco, visto che si tratta di un male storico del nostro mercato del lavoro e che uno dei suoi principali obiettivi era semmai quello di offrire percorsi plausibili e praticabili di «flessibilità regolata» in alternativa alle «flessibilità improprie», e queste sì selvagge, del lavoro nero e irregolare. A quanti imputano alla «legge Biagi» la colpa di aver introdotto ben «44 forme di flessibilità (e ancora di più con la certificazione dei contratti)» , realizzando una inopportuna - e spesso anche inutile - proliferazione dei tipi legali e contrattuali , si era del resto già replicato che la moltiplicazione delle tipologie contrattuali è stata solo apparente e comunque minima. Al di là del numero davvero esiguo di novità su questo versante , la riforma mirava piuttosto ad aggredire quella immensa area del lavoro nero e informale, rispetto alla quale ogni singolo contratto di lavoro costituisce una forma sui generis di flessibilità contrattuale o tipologica. Là dove la codificazione di uno Statuto dei lavori, che poi era - e ancora resta - il vero obiettivo finale della riforma , senza aver prima identificato, aggregato e ricondotte a sistema modalità di lavoro rese oggi in uno stato di totale anomia normativa e sindacale, distinguendo prassi illecite da forme di organizzazione del lavoro positive per il mercato e gli stessi lavoratori, avrebbe costituito una operazione avveniristica e senza una base concreta.

2. Se ci fermassimo, nella analisi dell'impatto della «legge Biagi» sul mercato del lavoro, a queste prime e sommarie considerazioni , risulterebbero dunque aver avuto ragione quanti avevano formulato una lettura largamente minimalista della riforma . Non tanto, tuttavia, per segnalare i numerosi profili di continuità con il passato ma, piuttosto, per preconizzarne uno scarso utilizzo sul piano pratico e nella prassi aziendale . E questo fino al punto di indurre qualche osservatore a parlare, in termini alquanto suggestivi ma a nostro avviso poco o nulla fondati , di riforma inutile prima ancora che tecnicamente male apprestata . Una riforma cioè che, oltre a pregiudicare irreparabilmente gli assetti consolidati di tutela del lavoro , si sarebbe articolata lungo flessibilità eccessive e selvagge, incompatibili con le istanze di investimento sul capitale umano richieste dalla nuova economia o, comunque, altamente costose e per questo poco o nulla attraenti per il sistema delle imprese . A nostro avviso tuttavia - e, a quanto pare, anche ad avviso di istituzioni autorevoli come il CNEL - è sicuramente ancora presto per formulare un vero e proprio bilancio della legge. Anche perché, come vedremo, è di fatto mancata una leale e convinta sperimentazione di larga parte dei provvedimenti in essa contenuti. Solo la riforma del lavoro in cooperativa, che aveva del resto già registrato un consenso unanime e trasversale in sede parlamentare , pare essere stata accolta e recepita nella prassi aziendale senza rilevanti problemi , là dove tutto il restante impianto della riforma - anche quello più incontrovertibilmente in linea di continuità con il passato come, per citare l'esempio più eclatante, la riforma dei servizi per l'impiego e del mercato del lavoro in senso stretto - è stato radicalmente contestato sin dalla sua originaria formulazione con il disegno di legge n. 848 del 15 novembre 2001 . Al punto da dare luogo alla anomala e deleteria prassi dei c.d. «precontratti», intese sindacali che avevano come loro premessa la non applicazione di quella che è e ancora resta una legge dello Stato . Invero, non si può certo negare che il primo biennio di applicazione abbia anche segnato passi importanti per il suo definitivo radicamento nel nostro ordinamento giuridico. La Corte Costituzionale - con la Sentenza n. 50 del 28 gennaio 2005 e n. 384 del 11 ottobre 2005 - ha spazzato in un sol colpo i numerosi dubbi di legittimità costituzionale dell'impianto della legge e dei decreti di attuazione avanzati, talvolta in modo del tutto superficiale e gratuito, con riferimento alla complessa questione della ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. Del pari, quasi tutta la normativa regolamentare e secondaria è stata attuata in tempi record , almeno se si guarda all'esperienza pregressa. Così come numerose Regioni, soprattutto quelle di espressione politica di segno opposto alla maggioranza parlamentare che ha approvato la «legge Biagi», hanno iniziato a legiferare in materia in modo sistematico confermando a loro volta, tranne qualche rara eccezione , l'impostazione complessiva accolta dal legislatore nazionale . Un ruolo importante è stato infine assunto dalle parti sociali che, seppure in forma discontinua e disorganica, hanno dimostrato quanto fossero effettivi i 43 rinvii alla contrattazione collettiva così come fossero del tutto infondati i diffusi timori di snaturamento della autonomia collettiva e di eccessiva individualizzazione dei rapporti di lavoro. E sicuramente un ben diverso giudizio sui primi passi della riforma sarebbe certamente stato possibile se le parti sociali avessero accolto l'invito, contenuto nell'articolo 86, comma 13, del decreto legislativo n. 276 del 2003, a gestire autonomamente la messa a regime della riforma mediante uno o più accordi interconfederali, anche di livello territoriale, anche con riferimento al diritto transitorio e alla attuazione dei numerosi alla contrattazione collettiva. Come noto, tuttavia, le parti sociali si sono limitate a gestire per via interconfederale unicamente la transizione dal contratti di formazione e lavoro al contratto di inserimento , rinunciando invece inspiegabilmente a normare gli aspetti più "neutri" della riforma come per esempio il contratto di apprendistato su cui si sono poi arenati ulteriori tentativi di disciplinare in modo condiviso e unitario il processo di transizione al nuovo quadro legale . Alla luce di questo quadro complessivo, pieno di ombre e con poche luci, pare davvero difficile formulare un bilancio su una riforma che pare ancora tutta da implementare. A dimostrazione del fatto che pare davvero ancora prematuro dare ragione a quanti hanno parlato di impatto minimale di una legge le cui enormi potenzialità, indubbiamente anche per la sua ampiezza e per la complessità di un quadro regolatorio che prevede il concorso di più attori, sono rimaste largamente inespresse. Al di là di questi rilievi, che pure non ci sembrano poca cosa per impostare correttamente un ragionamento sui primi due anni di applicazione della riforma, chi scrive era (e ancora è) fermamente convinto che un giudizio attendibile sulla bontà o meno della «Legge Biagi» potrà davvero essere possibile solo dopo aver avviato una prima - e leale - fase di sperimentazione di quella che è, si ripete, una legge dello Stato. Una legge che certo non avrà effetti miracolosi, ma di cui non pare possibile parlarne bene o male senza prima averla applicata. Come ammoniva del resto lo stesso Marco Biagi, a chiusura dell'articolo di apertura di commentario sulla nuova disciplina del lavoro a termine con cui si è avviato il processo di riforma del nostro mercato del lavoro , «sul piano pratico, tuttavia, la vera riforma deve essere non normativa ma culturale, proprio a partire dallo spirito con cui si andranno a interpretare le norme del decreto che qui si commenta. La modernizzazione del mercato del lavoro è un processo particolarmente complesso e delicato che richiede da parte di tutti quell'atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti che da tempo ci viene richiesto dalle istituzioni comunitarie. Ciò che viene oggi richiesto non solo agli operatori pratici ma anche alle parti sociali e agli studiosi del diritto del lavoro è quello di provare ad abbandonare una cultura (anche giurisprudenziale) costruita sul sospetto e sulla diffidenza» .

3. Lo stesso legislatore, a ben vedere, aveva voluto assegnare alla riforma un carattere almeno in parte sperimentale. L'articolo 86, comma 12, del decreto legislativo n. 276 del 2003 recita infatti: «Le disposizioni di cui agli articoli 13, 14, 34, comma 2, di cui al Titolo III e di cui al Titolo VII, capo II, Titolo VIII hanno carattere sperimentale. Decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali procede, sulla base delle informazioni raccolte ai sensi dell'articolo 17, a una verifica con le organizzazioni sindacali, dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale degli effetti delle disposizioni in esso contenute e ne riferisce al Parlamento entro tre mesi ai fini della valutazione della sua ulteriore vigenza». Non tutti gli istituti disciplinati dal decreto legislativo n. 276 del 2003 risultavano, invero, oggetto di valutazione ex articolo 86, comma 13. La natura sperimentale del decreto legislativo n. 276 del 2003 era, in particolare, limitata, almeno da un punto di vista formale, alle disposizioni in materia di misure di incentivazione del raccordo e pubblico ai fini dell'inserimento o del reinserimento nel mercato del lavoro dei gruppi di lavoratori svantaggiati ; a quelle sull'inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e dei lavoratori disabili attraverso le cooperative sociali ; a quelle sul lavoro intermittente di tipo soggettivo, reso da soggetti in stato di disoccupazione con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età che siano stati espulsi dal ciclo produttivo o siano iscritti alle liste di mobilità e di collocamento; a quelle sulla somministrazione di lavoro, appalto di servizi e distacco ; a quelle sulle prestazioni occasionali di tipo accessorio ; a quelle sulle procedure di certificazione dei contratti di lavoro e dei contratti di appalto . Non assumevano, invece, carattere tecnicamente sperimentale - e restavano dunque formalmente estranei alla verifica di cui all'articolo 86, comma 13 - istituti centrali nel corpo del decreto legislativo n. 276 del 2003 come i complessi profili relativi alla organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, attraverso i regimi di autorizzazione e accreditamento , la borsa continua nazionale del lavoro, le norme di regolamentazione dell'azione dei soggetti pubblici e privati nelle fasi di incontro tra domanda e offerta di lavoro; il trasferimento di azienda e la disciplina dei gruppi di imprese; le tipologie di lavoro a contenuto formativo, articolate attraverso tre percorsi di apprendistato; il contratto di inserimento lavorativo; i tirocini estivi di orientamento; le tipologie contrattuali di lavoro a orario ridotto, modulato o flessibile: lavoro a tempo parziale, lavoro a coppia, lavoro intermittente di tipo oggettivo per la realizzazione di prestazioni discontinue o intermittenti; le collaborazioni coordinate e continuative nella modalità a progetto e il regime sanzionatorio dei contratti di associazione in partecipazione fittizi. La consapevolezza che una riforma complessa e radicale come quella tracciata nella legge n. 30 del 2003 e nei relativi decreti di attuazione richiede necessariamente un arco temporale molto più lungo per la sua messa a regime e piena operatività del periodo biennale previsto dall'articolo 86, comma 12, del decreto legislativo n. 276 del 2003 ha dunque portato il legislatore a selezionare gli istituti per i quali procedere a una prima verifica sperimentale tra Governo e parti sociali. Nel corso del confronto con le organizzazioni datoriale e sindacali preliminare alla approvazione della riforma - reso obbligatorio ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 30 del 2003 - si era così deciso di concentrare la verifica sugli aspetti tecnicamente più innovativi, almeno alla stregua della nostra tradizione giuridica, o comunque su istituti nuovi la cui efficacia e il cui impatto sul nostro mercato del lavoro richiedevano a giudizio delle parti sociali e del Governo un attento e puntuale monitoraggio. Ciò nondimeno, sempre in sede di confronto con le parti sociali, il Governo si era poi "informalmente" impegnato a procedere a una verifica complessiva di tutti gli istituti toccati dalla riforma nella consapevolezza che una valutazione tanto politica quanto tecnica dell'impatto della legge n. 30 del 2003 sul mercato del lavoro non avrebbe potuto essere condotta in modo parziale e frammentario. Come noto tuttavia, la verifica non c'è stata, né sulle norme indicate all'articolo 86, comma 13, né, tanto meno, sulla riforma nel suo complesso. Le ragioni "politiche" che hanno reso impraticabile il confronto, almeno nei tempi previsti dal decreto legislativo n. 276 del 2003, tra Governo e parti sociali sono molteplici e fuoriescono dai limiti di questo breve intervento così come dagli interessi di chi scrive. E' sufficiente limitarsi a segnalare, a questo proposito, la circostanza, già accennata, che proprio alcuni degli istituti più rilevanti, ai fini della sperimentazione, sono a lungo rimasti paralizzati in attesa delle normative regionali e/o sindacali di attuazione. Emblematico, a questo riguardo, è il caso degli articoli 13 e 14 del decreto legislativo n. 276 del 2003 che, solo recentemente, sono stati oggetto di una parziale e frammentaria implementazione a livello regionale, in taluni casi, peraltro, con disposizioni che si pongono in tensione con gli assetti di competenze tra Stato e Regioni in materia di lavoro, almeno così come chiariti dalla fondamentale sentenza n. 50 del 2005 della Corte Costituzionale . Ma ancor più significativi sono i ritardi su altri aspetti centrali della riforma tra cui si segnala la regolamentazione del nuovo apprendistato che ha subito una forte penalizzazione per l'inerzia e talvolta anche l'ostruzionismo delle Regioni e anche delle parti sociali . Si veda, da ultimo, la controversa regolamentazione dell'apprendistato professionalizzante in Puglia che, nell'opporsi frontalmente alla legislazione nazionale, alimenterà inevitabilmente un lungo e inutile contenzioso tra Stato e Regione Puglia , a solo danno della certezza del diritto e dunque, in definitiva, di giovani e imprese che non potranno accedere all'impiego di questo importante canale di incontro tra domanda e offerta di lavoro. La verità è che i tempi di implementazione e messa a regime di molti istituti del decreto legislativo n. 276 del 2003 sono stati dilatati a seguito dei ricorsi presentati da alcune Regioni sulla ripartizione di competenze tra Stato e Regioni . In attesa della decisione della Corte Costituzionale, resa con la già ricordata sentenza n. 50 del 2005 proprio a ridosso dello spirare del termine di sperimentazione, tutti gli attori istituzionali e le stesse parti sociali hanno infatti vissuto un clima di attesa e di incertezza normativa che ha di fatto significativamente rallentato l'avvio di disposizioni importanti nell'impianto del decreto legislativo interessando la competenza normativa di Stato, Regioni e parti sociali su temi centrali della riforma quali i regimi di autorizzazione dei soggetti privati abilitati, in particolare, alla somministrazione di lavoro; il raccordo pubblico e privato e i regimi di accreditamento; le convenzioni per l'inserimento dei disabili e dei lavoratori svantaggiati; le tipologie di lavoro a contenuto formativo, articolate attraverso i tre percorsi dell'apprendistato professionalizzante, dell'apprendistato per il diritto - dovere e dell'apprendistato di alta formazione; il contratto di inserimento lavorativo; i tirocini estivi di orientamento; le tipologie contrattuali di lavoro a tempo parziale; la disciplina delle prestazioni occasionali di tipo accessorio; le procedure di certificazione dei rapporto di lavoro; le attribuzioni in materia di attività di vigilanza e servizi ispettivi. Come di vede - e come risulta con maggiore limpidezza ripercorrendo nel dettaglio i ricorsi delle Regioni contro la legge delega n. 30 del 2003 e i relativi decreti di attuazione - tutto l'impianto della riforma Biagi è stato sottoposto a un massiccio e sistematico intervento demolitorio ed ostruzionistico che, in uno con la radicale opposizione di una parte del movimento sindacale, ha alterato in modo irreparabile le fasi temporali che avrebbero dovuto scandirne il monitoraggio, la valutazione e la verifica. Si può dunque affermare, senza tema di smentita, che una vera e leale sperimentazione della riforma proprio non v'è stata. Non si sono cioè create le condizioni politiche e di "clima" nel nostro contesto di relazioni industriali per procedere a una verifica sul campo degli effetti, positivi o negativi, della legge. Si può anzi dire che, a un certo punto, più o meno tutti gli attori interessati hanno preferito proseguire una feroce campagna politica e ideologica sulla legge, campagna avviata come noto ben prima della sua approvazione e pubblicazione in Gazzetta Ufficiale , rinunciando a quella che era l'unica cosa da fare nell'interesse del Paese: applicarla per poi valutare, nel merito e dati alla mano, se avessero ragione i fautori o i detrattori. Al di là del merito del contendere, che non rileva ai fini del nostro ragionamento sulle ragioni della mancata sperimentazione della riforma, è del resto solo con la sentenza n. 50 del 2005 che è stato possibile avere piena conferma della validità dell'impianto e della disciplina di cui alla legge n. 30 del 2003 e del decreto legislativo n. 276 del 2003, sgombrando con ciò il campo a ogni incertezza circa gli assetti di disciplina previsti dal legislatore nazionale. La lunga fase di incertezza sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni - sollevata dai ricorsi di Basilicata, Emilia-Romagna, Marche, Toscana, Provincia autonoma di Trento e certo agevolata dall'ambiguo dettato normativo in materia di lavoro contenuto nel Titolo V della Costituzione così come risultante dalla novella introdotta nel corso della passata Legislatura - ha reso tecnicamente impossibile dare attuazione anche al meccanismo di monitoraggio di cui all'articolo 17 del decreto legislativo n. 276 del 2003 . Meccanismo che pure, nel corpo del comma 13 dell'articolo 86, risulta fondamentale ai fini della raccolta dei dati e delle informazioni da sottoporre, su basi condivise e affidabili, al confronto con le parti sociali. L'articolo 17 dispone che «le basi informative costituite nell'ambito della borsa continua nazionale del lavoro, nonché le registrazioni delle comunicazioni dovute dai datori di lavoro ai servizi competenti e la registrazione delle attività poste in essere da questi nei confronti degli utenti per come riportate nella scheda anagrafico-professionale dei lavoratori costituiscono una base statistica omogenea e condivisa per le azioni di monitoraggio dei servizi svolte ai sensi del presente decreto legislativo e poste in essere dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, le regioni e le province per i rispettivi ambiti territoriali di riferimento». Ma proprio i ricorsi delle Regioni hanno di fatto paralizzato l'operatività anche di questo meccanismo, là dove veniva messo in discussione il fondamento e l'impianto normativo della borsa continua nazionale del lavoro, ritenuta da talune Regioni competenza regionale con gli annessi profili di monitoraggio. Il rifiuto del confronto "politico" in sede di Conferenza unificata - pur dopo la costruzione consensuale in sede "tecnica" dell'intero decreto legislativo n. 276 del 2003 e il gentlement agreement (non rispettato) a non procedere con ricorsi davanti alla Corte Costituzionale nel caso fossero state recepite le richieste delle Regioni (come di fatto avvenuto) - ha rallentato il processo di costruzione della borsa continua nazionale del lavoro e, quel che più rileva ai fini del monitoraggio, ha reso necessario bloccare le procedure per la costituzione della Commissione incaricata, ex articolo 17, «di definire, entro sei mesi dalla attuazione del presente decreto, una serie di indicatori di monitoraggio finanziario, fisico e procedurale dei diversi interventi di cui alla presente legge». In mancanza delle informazioni raccolte ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 276 del 2003 non è dunque stato neppure tecnicamente possibile procedere alla verifica ex articolo 86, comma 13 di una riforma di cui, come si è già detto, non è stato colto lo spirito largamente sperimentale. L'ostruzionismo delle Regioni e di alcune parti sociali ha così di fatto fornito al Governo un valido alibi per intervenire sul testo del decreto senza attendere gli esiti di una sperimentazione che non era neppure stata avviata e che pur tuttavia sarebbe stata quanto mai opportuna per sciogliere alcuni nodi critici circa l'effettivo impatto della riforma sul mercato del lavoro. Per superare questa impasse - e traendo le debite conclusioni dalla pronuncia della Corte Costituzionale nella sentenza n. 50 del 2005 - il Governo ha infatti inteso recuperare il tempo perduto attraverso la messa a punto di alcuni interventi correttivi, introdotti in un primo tempo e in modo del tutto marginale con il decreto legislativo n. 251 del 2004 e successivamente, in forma decisamente più penetrante e invasiva, con il decreto legge n. 35 del 2005, convertito in legge 14 marzo 2005, n. 80 . Con questi interventi, e in accoglimento di alcune richieste avanzate dalle parti sociali, il Governo non solo ha reso immediatamente operativa la disciplina del raccordo pubblico e privato per l'inserimento delle fasce deboli (art. 13) e ha reso più fluide le procedure per l'attivazione del lavoro occasionale di tipo accessorio e della sperimentazione sul lavoro intermittente di tipo soggettivo, ma ha anche in parte anticipato, secondo una logica pro-attiva e di workfare, aspetti significativi della riforma del sistema degli ammortizzatori sociali che aveva subito una battuta di arresto a seguito dello stralcio di questo segmento dal corpo dell'originario disegno di legge 848 . Considerando che anche la disciplina transitoria dei contratti di collaborazione coordinati e continuativi è venuta meno solo il 24 ottobre 2005 il cammino avviato per la sperimentazione della legge Biagi risulta oggi ancora agli inizi. Alcuni istituti sono ampiamente a regime (in particolare la somministrazione di lavoro e il regime delle esternalizzazioni) ma non così si può dire per altri, centrali nella riforma, come il sistema degli accreditamenti regionali attraverso cui creare una rete negoziale di servizi per il lavoro sul territorio, il nuovo contratto di apprendistato, il lavoro occasionale di tipo accessorio, e via dicendo. Di modo che ogni valutazione di merito risulta non solo parziale, e spesso viziata dalla pregiudiziale ideologica, ma anche improponibile in assenza di un puntuale monitoraggio del suo impatto sul mercato del lavoro secondo parametri e indicatori il più possibile oggettivi e condivisi.

4. Tutto ciò rilevato è davvero possibile, anche ammesso che si presentino a breve le condizioni politiche, abrogare la legge Biagi e i relativi decreti di attuazione come una certa parte della dottrina e delle forze sociali propongono? Chi ne abbia seguito in questi anni il complesso e laborioso processo di implementazione può affermare - anche questa volta senza timore di essere smentito - che la «legge Biagi» si è a tal punto radicata nel nostro ordinamento, grazie anche alle sentenze della Corte Costituzionale n. 50 del 2005 e n. 384 del 2005 e alla innegabile continuità con il «pacchetto Treu», che difficilmente potrà essere smantellata da una diversa coalizione di governo. Per cambiare registro non saranno certamente sufficienti le fatidiche tre parole del legislatore. La conferma di ciò viene dal fatto che, paradossalmente, e nella completa inerzia delle Regioni di centro-destra, sono state proprio le Regioni del centro-sinistra a dare piena e tempestiva attuazione alla legge Biagi. Cancellare la legge Biagi significherebbe, in altre parole, abrogare svariate normative regionali, altrettanto corpose e incisive, che toccano tutti i profili centrali del nostro mercato del lavoro, a partire dalla organizzazione e disciplina dei servizi per l'impiego sino a giungere ai contratti di apprendistato che rappresentano il principale canale di contrasto del precariato e di sostegno della occupazione giovanile . Si tratterebbe di un clamoroso passo indietro che, pur con tutte le cautele del caso, pare davvero difficile ipotizzare. E, a ben vedere, che il giudizio sostanziale sulla legge Biagi possa cambiare, non appena si passi da una posizione di contestazione a un ruolo istituzionale e di responsabilità di governo, lo dimostra ora quanto fatto a Bologna da uno degli oppositori della prima ora della legge Biagi e, prima ancora, del progetto riformatore contenuto nel Libro Bianco sul mercato del lavoro. Nessuno lo ha ancora fatto notare nel dibattito scientifico. Ma, nell'imporre la modalità cosiddetta "a progetto" della «legge Biagi» alle collaborazioni coordinate e continuative attivate dal comune di Bologna, Sergio Cofferati si è spinto ben oltre l'operatività della legge estendendone il campo di applicazione, per mero accordo sindacale, persino alle pubbliche amministrazioni che pure formalmente risulterebbero escluse . Una conferma, senza ombra di dubbio, della bontà di talune intuizioni contenute nella legge Biagi su cui vale la pena di insistere. Trattandosi di una legge sperimentale, che mira a porre le premesse per la codificazione di un vero e proprio Statuto dei lavori, sarebbe del resto controproducente qualunque modifica, anche per quanti ne hanno ingiustamente fatto il simbolo della precarietà, prima di averne potuto verificare sul campo gli effetti sul nostro mercato del lavoro.


Malcom Sergeant
Il sindacalismo inglese e la libertà di scelta nei contratti


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