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IL FUTURO DELLA RUSSIA

Dmitri Medveded è il nuovo presidente. All’Ispi si discute del futuro della risorta potenza euro-asiatica.

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"Tornerà la Grande Russia?"
Moderato dal giornalista del Corriere della Sera Luigi Ippolito, il 27 febbraio scorso si è tenuto all'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano un incontro per discutere delle opzioni fra le quali il nuovo (?) corso russo che esce dalle elezioni del 2 marzo dovrà scegliere. La successione Putin-Medvedev perpetuerà semplicemente l'attuale sistema di potere o il prossimo presidente della Federazione avrà la forza di smarcarsi, per quanto parzialmente, dall'operato del suo ingombrante predecessore?

Sergio Romano, notissimo editorialista del Corriere della Sera, esordisce proponendo due quesiti essenziali per comprendere la realtà russa: il presidente Putin può contare sul consenso del 70% dei russi. Perché? Se è così popolare, perché deve esercitare un controllo così stretto sulla società e sul processo elettorale?

E' possibile ricercare le risposte nell'eredità storica e nazionalista del Paese. La festa nazionale russa cade in novembre e si richiama alla sommossa di Mosca del 1612, allorché il popolo e l'aristocrazia cittadina si liberarono dal dominio dei boiari (l'aristocrazia terriera), e scacciarono polacchi e lituani. Da quella vittoria nacque l'autocratico regno dei Romanov. Instaurando un parallelismo con il presente, l'uomo forte Putin ha rinverdito i fasti della tradizione nazionale ridimensionando i nuovi boiari, ossia gli oligarchi arricchitisi mentre il Paese declinava durante l'Era Eltsin, ed opponendosi strenuamente alle minacce esterne, non più polacchi e lituani ma statunitensi ed alleati.

Appena preso il potere, il semi-sconosciuto Putin (siamo nel biennio 1999-2000) si presentava agli oligarchi che controllavano allora le leve dell'economia nazionale e li invitava ad adeguarsi al nuovo corso. Pagare le tasse e tenersi alla larga dalla politica. Chi ha obbedito ha perso potere, pur continuando a prosperare, chi non ha seguito il consiglio è andato incontro alla rovina. Khodorskovsky docet. Al di là dei metodi, i russi ringraziano il loro presidente per avere eliminato molti di coloro che vengono percepiti nella coscienza popolare come rapaci speculatori arricchitisi alle spalle della Nazione.

Finito il tempo della complessata “diplomazia dei sorrisi” degli anni novanta, Stati Uniti e Nato sono tornate ad essere avversari con cui discutere competitivamente. Il risentimento di Mosca si è rivolto anche all'UE, colpevole di aver accolto troppo calorosamente e precipitosamente nel suo seno i governi di alcuni ex satelliti sovietici dell'Europa centro-orientale. Nel complesso, la rassegnazione con cui i russi guardavano nel decennio scorso al disastro della loro economia ed all'espansione dell'Alleanza Atlantica nell'ex impero sovietico sono state sostituite dall'orgoglio nazionalistico per l'energica riaffermazione del ruolo internazionale della Russia.

Inoltre, dopo il drammatico crollo economico-finanziario del 1998, la situazione materiale del cittadino russo è leggermente migliorata. Altro fattore che ha rafforzato il gradimento verso il governo, il quale ha approfittato della congiuntura economica favorevole per recuperare allo Stato un più stretto controllo sulle ingenti risorse naturali del Paese, rivelatesi lucrose anche a livello geopolitico. L'utilizzo dell'arma energetica da parte del Cremlino per condizionare la politica dei vicini riottosi, Ucraina in primis, rappresenta l'esempio più eclatante del nuovo, e più aggressivo, corso della politica russa verso il suo estero vicino. L'atteggiamento duro, a tratti ostile, di Mosca verso gli afflati autonomisti emersi nell'ultimo lustro a Kiev è comprensibile alla luce dello stretto legame storico fra i due Paesi. La Russia non accetterà di buon grado l'ingresso dell'Ucraina nella Nato, eventualità che verrà presto discussa in sede atlantica. Ancora è vivo e scioccante il ricordo dell'appoggio occidentale alla Rivoluzione Arancione del 2004 e forse proprio il successo con cui Stati Uniti ed Unione Europea sono riusciti ad ostacolare i piani del candidato filo-russo Viktor Yanukovich può spiegare la rigidità con cui le autorità russe gestiscono ogni appuntamento elettorale. Putin, benché sicuro di vincere, vuole mantenere uno stretto controllo sul processo elettorale per scongiurare ogni possibile intrusione che possa favorire la divisa e debole opposizione interna.

Umberto Gori, Professore all'Università degli Studi di Firenze, guarda agli sviluppi futuri preconizzando tre scenari che potrebbero verosimilmente avverarsi nei mesi successivi alle elezioni presidenziali del 2 marzo.

Primo scenario. Gli ex esponenti del Kgb, che hanno acquisito notevole influenza negli anni di Putin, potrebbero decidere di prendere direttamente il potere se la presidenza Medvedev dovesse rivelarsi particolarmente debole. Paiono comunque esserci pochi dubbi sul fatto che nei prossimi mesi le leve del potere rimarranno nelle mani di Putin, soprattutto nel caso egli assumesse ufficialmente la guida del partito Russia Unita, egemonico nella Duma. Paradossalmente rischierebbe però di trovarsi in competizione con quegli esponenti dei servizi segreti sovietici ch'egli stesso ha trasformato in classe dirigente e che detengono un robusto controllo sugli apparati di sicurezza. Putin, puntando sulle loro ambizioni personali e sulle loro rivalità, avrebbe buon gioco nel dividerli, ma se l'attuale presidente decidesse di defilarsi dopo il 2 marzo e il nuovo corso medvedeviano non dovesse dimostrarsi saldo, la classe tecnocratico-militarista si spingerebbe a  reclamare una svolta autocratica sul piano interno e, con ogni probabilità, un approccio anti-occidentale in politica estera.

Secondo scenario. Putin potrebbe riprendere formalmente in mano le sorti del Paese. Per Medvedev la figura amica ma ingombrante del primo ministro Putin nasconde innegabilmente delle insidie. Se il delfino dovesse discostarsi troppo dalle direttrici politiche del suo predecessore, Putin avrebbe modo di manovrare la base parlamentare su qui può contare per limitare le prerogative del presidente o addirittura estrometterlo.

Terzo scenario. Medvedev potrebbe esercitare con autorevolezza il ruolo presidenziale. Se invece Medvedev saprà gestire con acume l'eredità putiniana, gli si potrebbero aprire spazi di azione per innovare nella continuità, introducendo, in linea con il suo background, elementi di liberismo e liberalismo nel sistema Russia. Anche la retorica anti-occidentale andrebbe gradualmente scemando  poiché Medvedev, oltre a possedere uno spirito pragmatico, si rende perfettamente contro di quanto sia ancora importante per la Russia mantenere aperto il dialogo con Stati Uniti ed Unione Europea.

Pàl Dunay, direttore del Geneva Centre for Security Policy, parte da un presupposto diverso rispetto ai suoi interlocutori. L'economia russa è in crescita, ma certamente non prospera e solida. L'inflazione sta aumentando ed i profitti di Gazprom hanno recentemente conosciuto una flessione. Medvedev ne è consapevole; la sua priorità strategica sarà il rafforzamento della competitività economica russa, da conseguire tramite una politica pragmatica che tenga conto dell'importanza di partner commerciali come Stati Uniti ed Unione Europea. Lavrov ha ribadito il concetto, affermando che la Russia ha sicuramente intenzione di volgersi ad est, ma senza trascurare la direttrice occidentale della sua politica estera.

Nel continente asiatico, Mosca guarda principalmente a Pechino e New Delhi, anche se i due giganti non esauriscono le opzioni russe. Il Cremlino è legato da un tradizionale rapporto di amicizia all'India, eredità della Guerra Fredda. Con l'Impero di Mezzo le incomprensioni non sono invece mancate. L'espansione economica cinese non lascia indifferente Mosca. I forti investimenti della Cina nel settore energetico prefigurano una futura competizione tra le due potenze per il controllo delle risorse in Asia, mentre la pressione demografica cinese ai confini orientali della Russia inquieta le autorità di Mosca.

Per ora le ragioni della cooperazione sembrano prevalere. I due Paesi sono associati da tempo nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS). Creata nel 1996 e definita con maggior precisione nel 2001, raggruppa sei paesi (Russia e Cina appunto, e quattro delle cinque repubbliche dell'Asia centrale: Kazakhstan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan). Altri quattro Stati hanno inoltre lo status di osservatori (India, Iran, Pakistan, Mongolia). La preoccupazione focale dei partecipanti si incentra sulla tutela della sicurezza nell'area, con particolare riferimento alla lotta contro terrorismo, separatismo ed estremismo. L'influente analista americano Robert Kagan, vicino all'amministrazione Bush ed appartenente all'universo neoconservatore, ha ribattezzato l'OCS “lega di dittatori”, ma la definizione rischia di essere sbrigativa se si considera che sommando le sue forze, l'organizzazione, tra paesi membri e osservatori, raggruppa la metà della popolazione mondiale e dispone della metà delle riserve di gas e di petrolio del pianeta. Non sorprende che il mondo occidentale guardi con sospetto al club di Shanghai, temendo si trasformi in un'organizzazione strutturata in grado di sovvertire le attuali, malferme, gerarchie dell'ordine mondiale.

A cura di Fabio Lucchini







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