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KOUCHNER, L'AMICO DEGLI USA

Il Ministro degli Esteri francese è un democratico per vocazione, un operatore umanitario “atipico” che, all’intransigenza del pacifismo umanitario ha sempre preferito il pragmatismo dell’impegno concreto.

Data: 0000-00-00

Simona Bonfante

Per gli americani, Bernard Kouchner è innanzitutto un amico. Il fondatore di Medici senza frontiere, oggi Ministro degli Esteri della Francia sarkozienne, è un democratico per vocazione, un operatore umanitario “atipico” che, all'intransigenza del pacifismo umanitario ha sempre preferito il pragmatismo dell'impegno concreto. Una missione, la sua, svolta per il sollievo delle popolazioni più tormentate dai conflitti e dalla povertà, con una grande generosità nel costruire relazioni politiche e diplomatiche, anche nelle circostanze eticamente più intollerabili.

È un riformista dei diritti umani, Kouchner, un progressista della democrazia. Uno, convinto che lo scontro ideologico non porti a nulla di buono, men che meno a chi è vittima degli abusi di regimi violenti e forsennati.

Kouchner, per dire, non è affatto favorevole al boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino. E nonostante la pressione con cui la piazza francese, con il conforto dell'opposizione socialista e persino di alcuni membri della maggioranza di governo, cerca di costringere Sarkozy – in quanto Capo dello Stato e, dal 1 luglio prossimo, Presidente di turno della Ue – ad annullare la partecipazione ai Giochi Olimpici, Kouchner insiste: rinunciare ai Giochi sarebbe un errore.

Negare il dialogo – anche quando la controparte è un regime dittatoriale e violento – significa, per il Ministro degli Esteri francese, rifiutare la responsabilità dell'Occidente di offrire ai cinesi una chance di apertura verso il mondo democratico. Quale beneficio avrebbero mai i cinesi se solo i Giochi Olimpici di Pechino venissero disertati dai paesi occidentali e dai media internazionali: la grande festa dell'armonia e della fratellanza diverrebbe il pretesto per aprire un fronte di scontro inedito, montato sull'onda dell'orgoglio nazionale, che il regime cinese avrebbe gioco facile ad alimentare. In fondo, lo dicono i fatti di questi giorni, lo dice la contesa di piazza filmata sulle strade di Parigi, tra le bandiere cinese e tibetana che si contendono il diritto alla scena. Kouchner ha ragione quando insiste sulla scelta della via pragmatica nella lotta per i diritti umani.

Ciononostante, la sua è una posizione sempre più confinata ad una minoranza di coraggiosi (?) tra i quali non è ancora detto possa annoverarsi il Presidente della Repubblica francese. Sarko, in effetti, ha posto come condizione per la partecipazione della Francia alla cerimonia d'inaugurazione dei Giochi la “ripresa del dialogo tra le autorità cinese e tibetana. Ma cosa questo significhi, in concreto, non è dato saperlo. Su Sarkozy pesa infatti la responsabilità di interpretare la volontà dei francesi, ma anche di evitare una spaccatura in Europa. “È necessario che si parlino – ha dichiarato Sarko, martedì 8, nel commentare il “triste spettacolo” delle manifestazione parigine – e che si eviti di strumentalizzare una questione che in realtà è estremamente preoccupante.”

Da parte sua, intervistato dall'International Herald Tribune, Bernard Kouchner spiega con estrema semplicità il suo approccio “umanitario”. Sull'Iraq, ad esempio, non ha alcun dubbio: l'Occidente non può stare a guardare, trincerandosi dietro il “no” alla guerra sbagliata di George W. Bush. Quando in ballo ci sono vittime innocenti che patiscono sulla propria pelle il fanatismo terrorista, l'impegno umanitario non può avere nulla a che fare con la politica. Non ci si può sentire a posto con la coscienza, ammantandosi della bandiera arcobaleno in segno di protesta contro i governi guerrafondai, e poi ignorare il fatto che solo la presenza in Iraq di un Occidente unito e determinato a sconfiggere il terrore potrà restituire ad un popolo inerme il suo legittimo diritto alla pace.

La pace, per Kouchner, non viene mai da se. Non si realizza per miracolo lasciando un terreno di guerra perché, per principio, si rifiuta la responsabilità di impugnare un'arma, anche quando quell'arma serve a proteggere gli indifesi.

Così, la sofferenza dei popoli palestinese e israeliano, per Kouchner è un imperativo morale a fare di più, a fare tutto il possibile, a non arrendersi mai perché venga compiuto quel “compromesso iniziale” – per dirla con Blair – che permetta alle parti di parlarsi.

E perché ciò avvenga, l'impegno dell'Occidente è fondamentale. È precisa responsabilità dell'Europa e degli Stati Uniti farsi parte attiva del processo, facilitare l'incontro, contribuire con tutti i mezzi a rimuovere gli ostacoli. “Non è mio compito entrare nel merito dei negoziati tra israeliani e palestinesi” – spiega al giornalista americano che gli chiede cosa ne sia degli accordi di Annapolis. “Il mio compito – continua Kouchner – è fare in modo che vengano rispettati gli impegni assunti a Parigi, in occasione della conferenza internazionale per gli aiuti economici all'Autorità palestinese. Ma certo – aggiunge, con un tono di sconforto – il primo passo spetta a loro.”

Kouchner, in fondo, è un uomo di grande saggezza. Non stupisce che piaccia a sinistra e destra, agli americani ed agli europei, ai palestinesi ed agli israeliani. La sua “razionalità” impone di vedere, nei conflitti, non le cause che affondano chissà dove e chissà quanto lontano nel tempo, ma la drammatica realtà di una violenza inutile e spietata che, se nutrita, è destinata ad auto-alimentarsi senza fine, senza scopo reale altro che la distruzione del nemico che, nella maggior parte dei casi, è un obbiettivo irraggiungibile, perché non realmente perseguibile dal punto di vista militare, qualunque sia il tenore dell'impegno bellico.

Al Ministro degli Esteri Kouchner è stato rimproverato di avere sostanzialmente fallito nelle missioni che ha avuto la responsabilità di gestire per conto della Francia. Il Libano, in particolare, dove nonostante un impegno strenuo, non è riuscito ad ottenere l'accordo tra i partiti per la designazione di un Presidente della Repubblica. È un'accusa, questa, quanto meno ingenerosa. Non è la capacità personale di Kouchner che, nella fattispecie, avrebbe potuto fare la differenza. Così come poca differenza può fare l'opinione di un Ministro di uno Stato presieduto da una personalità “forte” come quella di Sarkozy. È il Capo dello Stato, infatti, che ha il potere di decidere la linea, fino a contraddire i membri del suo stesso governo, come è stato nel caso del Ministro per i diritti umani, Rama Yade, che in un'intervista a Le Monde – alla vigilia del passaggio parigino della fiaccola olimpica - aveva elencato le condizioni che, a suo dire, il Presidente della Repubblica avrebbe posto alle autorità cinesi per accettare la partecipazione della Francia ai Giochi di Pechino. Eventualità, appunto, tempestivamente smentita dall'Eliseo.

Ebbene, nonostante l'autorevolezza di Kouchner non sia certo paragonabile a quella della maldestra e giovanissima ministra per i diritti umani, nelle scelte che riguardano la politica estera francese, l'ultima parola non spetta al Ministro ma al Capo dello Stato. Non vi è dubbio che, in linea generale, Sarko condivida la strategia di Kouchner. Il dubbio, semmai, è se il Presidente della Repubblica abbia il coraggio – e la libertà – di realizzarla con la stessa limpida nettezza che al “socialista” Kouchner non è mai venuta meno.







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