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LA CREAZIONE DI UNO STATO PALESTINESE E' VICINA

I Paesi arabi moderati guardano al conflitto israelo-palestinese in modo nuovo e Obama è determinato a raggiungere la pace. Al Qaeda è sempre più debole. L’Italia offre aiuti concreti

Data: 0000-00-00

Intervista a cura di Francesca Morandi

«La creazione di due Stati, Israele e Palestina, in grado di convivere l'uno accanto all'altro, potrebbe essere vicina». Pur in una situazione tuttora difficile nella Striscia di Gaza, dove è in vigore una fragile tregua, l'analisi di Arduino Paniccia, docente di Strategia ed Economia Internazionale presso l'Università di Trieste e consulente delle Nazioni Unite, è ottimista, al punto da accreditare l'ipotesi di una imminente risoluzione di un conflitto, quello tra israeliani e palestinesi, che dura da oltre 60 anni. E c'è da credergli, considerando la sua profonda conoscenza delle vicende mediorientali e gli attendibili canali informativi che, appena rientrato da un viaggio in Israele, lo hanno portato a prevedere, poche ore prima della dichiarazione ufficiale da parte di Tel Aviv, il cessate-il-fuoco nella “Striscia”. Paniccia ritiene che siano in atto cambiamenti favorevoli alla pace come «un mutamento di prospettiva da parte dei Paesi arabi moderati nei confronti del problema israelo-palestinese e l'impegno del nuovo presidente americano, Barack Obama».

«In questo momento è centrale il ruolo dell'Egitto che deve essere aiutato dall'Europa e dagli Stati Uniti, a sostenere una posizione difficile ma vincente – spiega Paniccia –. I Paesi europei e gli Usa devono inoltre mettere in campo una serie di sforzi, anche dal punto di vista finanziario, volti ad avere come interlocutore la componente di Hamas che vuole trattare e devono di fatto elevare l'Autorità nazionale palestinese (Anp) al rango di rappresentante dell'unità palestinese, dando questo processo per scontato».

Professor Paniccia, ci vuole raccontare innanzitutto le impressioni raccolte nel suo viaggio in Israele?

«La sensazione più forte che ho avuto è che, fin dall'inizio dell'operazione “Piombo Fuso”, la popolazione israeliana è stata compatta a sostegno dell'azione militare voluta dal proprio governo. Non ho sentito molte voci contrarie, il consenso a favore dell'intervento armato nella Striscia di Gaza è andato oltre il 90%».

Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha parlato di sconfitta di Israele e di vittoria del movimento islamico palestinese, nonostante le vittime tra la sua popolazione siano state 1.300. Che ne pensa?

«La sconfitta è senza dubbio di Hamas, che è spaccata in almeno due componenti: una più moderata e più aperta al dialogo e un'ala più estrema, militare, filo-siriana e amica dell'Iran. A prevalere, per ora, è la componente più politica e dialogante, che è quella che ha accettato la tregua. Mentre Israele è monolitico, Hamas vive profonde divisioni e questo contrasta con le dichiarazioni di vittoria e i proclami».

Qual è il disegno di Hamas?

«Hamas è un'organizzazione ibrida, nata come emanazione palestinese dei Fratelli Musulmani, movimento integralista sunnita diffuso in larga parte del mondo arabo, ma è anche legata alla Siria e all'Iran. Finora Hamas ha mirato alla distruzione dello Stato di Israele per lasciare il posto alla creazione di uno Stato islamico palestinese che comprenda anche la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. In questo momento, tuttavia, Hamas non ha una strategia propria ma si trova nelle condizioni in cui pressioni esterne obbligano il movimento a riaprire il dialogo con l'Autorità nazionale palestinese. La sconfitta sul campo ha messo fine all'atteggiamento unilaterale di Hamas che, se vuole sopravvivere, deve necessariamente sedersi a un tavolo negoziale e riconciliarsi con gli altri palestinesi. L'unica possibilità per Hamas è quella di iniziare un percorso di evoluzione da organizzazione estremista combattente a organizzazione politica».

Dall'inizio dell'operazione “Piombo Fuso”, gli Stati arabi moderati (come Egitto, Giordania, Marocco, Tunisia,…) sono rimasti a guardare le operazioni israeliane a Gaza contro Hamas. “Domare” il movimento integralista palestinese, che ha legami con i Fratelli Musulmani, Hezbollah, la Siria e l'Iran e forse Al Qaeda, fa comodo anche ai Paesi arabi moderati?

«Non è solo Hamas ad essere spaccata, lo è anche il fronte dei Paesi arabi cosiddetti moderati che, negli ultimi anni, hanno dimostrato di essere divisi sulla questione israelo-palestinese. Oggi si presentano tuttavia delle strade nuove che potrebbero portare alla soluzione del conflitto con la creazione di due Stati, Israele e Palestina, capaci di convivere l'uno accanto all'altro. Per la prima volta l'Egitto, che è leader del fronte moderato arabo, ha agito in maniera decisiva impedendo ad Hamas di utilizzare anche la sponda egiziana».

Cosa intende dire?

«L'Egitto ha affermato chiaramente che lo Stato palestinese è uno e ha riconosciuto come unico interlocutore diplomatico, rappresentativo del popolo palestinese, l'Anp. In questa nuova linea del Cairo c'è spazio per Hamas solo se a prevalere è la corrente che vuole trattare al tavolo negoziale e vuole ripristinare l'unità nazionale palestinese. Si apre uno scenario nuovo di fronte a questa coraggiosa posizione egiziana che va sostenuta dall'Europa, dall'Italia, dagli Stati Uniti, dalla Nato e dalle Nazioni Unite. Sebbene dalla linea egiziana si distanzino alcuni Stati arabi del Golfo Persico e l'Iran, bisogna tenere in considerazione che è l'Egitto a essere confinante con Gaza e l'Iran è lontano. Negli ultimi dieci anni la situazione sul fronte arabo è cambiata radicalmente e se il presidente degli Stati Uniti sosterrà la posizione dell'Egitto, che raduna sotto la sua leadership altri Paesi arabi moderati, si aprono concrete possibilità di un riconoscimento definitivo di uno Stato palestinese che potrà esistere accanto a quello ebraico».

Non c'è il rischio che il presidente egiziano Hosni Mubarak riprenda a fare il doppio gioco, offrendosi, da un lato come mediatore tra i contendenti, e dall'altro chiudendo gli occhi sui traffici di armi destinati ad Hamas che passano anche attraverso i tunnel scavati sotto la frontiera egiziana?

«Ritengo che questa volta l'appoggio dato dall'Egitto ad Hamas sia stato nullo ed è la prima volta che ciò accade. Tutti coloro che erano sullo sfondo del conflitto nella Striscia di Gaza, come Hezbollah, che in un primo momento ha chiamato il popolo egiziano a ribellarsi e a schierarsi con Hamas, hanno poi compreso che la sponda egiziana è venuta meno e che ogni guerra a oltranza sarebbe stata vana. La nuova posizione dei Paesi arabi moderati, con l'Egitto e la Giordania in prima fila, trova vicina anche l'Arabia Saudita e vede un seguito all'interno del mondo della Lega araba. Il fronte è dunque più vasto di quanto non sembri leggendo le dichiarazioni ufficiali».

Gli Stati arabi moderati sono stati spesso accusati di non aver mai usato la loro ricchezza, derivante dai proventi petroliferi, per migliorare le condizioni di vita dei palestinesi e sostenere la loro economia. Hanno invece usato i loro soldi per finanziare gruppi terroristici che rifiutano l'esistenza di Israele. Cosa ci può dire?

«Non solo i Paesi arabi, ma anche l'Unione europea e gli Stati Uniti hanno fatto troppo poco finora per dirimere l'annoso problema israelo-palestinese».

Ma oggi vede cambiamenti in atto …

«Sì. Sono due le componenti in evoluzione che riguardano il mondo arabo e che spingono verso un mutamento: la prima è la crescita della leadership sciita, che ha allarmato i Paesi sunniti e la seconda è il “fattore petrolio”. Molti Stati arabi “galleggiano” ancora sull'“oro nero” ma la crisi economica oggi dimostra che questa ricchezza potrebbe trasformarsi in una montagna di sabbia. Finora il petrolio ha dato ad alcuni Paesi arabi produttori un grande potere di trattativa “da pari a pari” con le grandi potenze. Questo ha portato all'illusione di poter trascurare la controversia israelo-palestinese. Oggi la situazione è cambiata, anche a fronte della crisi economica globale: gli Stati arabi sunniti iniziano a rendersi conto che devono costruire il proprio futuro con la consapevolezza che la miniera d'oro del petrolio potrebbe venire meno e con essa una forte capacità di negoziazione. In questo quadro il timore è che la leadership del mondo musulmano possa passare nelle mani degli iraniani, sciiti e dotati di un programma nucleare. E allora il nemico terribile non è più Israele».

E per quanto riguarda l'atteggiamento degli Stati Uniti?

«Osservo una volontà diversa nell'atteggiamento del presidente degli Stati Uniti, che sono una potenza determinante nello scacchiere mediorientale. Sia i Paesi arabi, a partire dall'Arabia saudita, sia Israele sono legati infatti alla politica americana. Oggi, da parte degli Usa, vedo una rinnovata “volontà di imporre”, ovvero un atteggiamento volto a lasciare meno liberi i contendenti di decidere le sorti del conflitto. Il presidente Bill Clinton era quasi riuscito a obbligare israeliani e palestinesi alla pace, ma non è andato fino in fondo. A questo proposito, rilevo che spesso, negli ultimi decenni, l'atteggiamento degli Stati Uniti è stato quello di mettere in campo tutta la loro forza, anche militare, nella prima fase di risoluzione di uno scontro, ma questa forza si è sempre affievolita gradualmente nel momento in cui gli americani dovevano usare la propria capacità negoziale e la pressione diplomatica. E' accaduto, ad esempio, in Medio Oriente con la mediazione di Clinton e in Iraq. La novità di oggi è che non mi pare che Barack Obama presenti questa caratteristica statunitense, anzi, il nuovo presidente mi sembra molto determinato e ritengo che farà tutte le pressioni possibili per risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi. Credo, inoltre, che vi sia un ritorno alla diplomazia e ai confronti tradizionali tra potenze. Gli Stati sono di nuovo al centro della decisione politica, diplomatica e militare, le alleanze sono di nuovo importanti in un quadro in cui si è ridotto notevolmente lo spazio di manovra di organizzazioni fuori dallo Stato, come Al Qaeda e gruppi come Hamas».

Al vertice di pace di Sharm el Sheik il premier Silvio Berlusconi ha annunciato la disponibilità dell'Italia a inviare reparti di carabinieri per presidiare i valichi di Gaza nel quadro di un intervento multinazionale di interposizione. L'Italia metterebbe anche a disposizione due navi miliari per pattugliare il mare al largo di Gaza e frenare il traffico di armi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini è inoltre impegnato in un tour diplomatico in Medio Oriente. Quale ruolo può avere il nostro Paese nella mediazione del conflitto israelo-palestinese?

«L'approccio dell'Italia è poco ideologico e molto pragmatico, volto alla risoluzione dei problemi concreti dell'area del Mediterraneo che vede tradizionalmente una leadership europea, storicamente francese e italiana. Tuttavia l'Unione europea, in cui molti Paesi non vorrebbero affatto occuparsi dei problemi del Mediterraneo, è caduta nell'ennesimo infinito dibattito. Berlusconi ha scelto così la via del pragmatismo, che è l'unica vincente. L'Ue si conferma un'entità continentale e questo è un grande errore di prospettiva e strategico. Ribadisco la necessità che l'Europa assuma decisioni rapide e incisive all'interno di un gruppo ristretto di Paesi, altrimenti naufraga».






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