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OBAMA: UNITA' CONTRO LA CRISI

In un'intervista concessa al Financial Times, il presidente americano discute della crisi economica alla vigilia del G20 londinese

Data: 0000-00-00

Lionel Barber, Chrystia Freeland ed Edward Luce, Financial Times, 30 marzo 2009,

Grazie per l'intervista, Presidente.
Il nostro compito più importante è lanciare un forte messaggio di unità di fronte alla crisi. In primo luogo, tutti i Paesi partecipanti sono consapevoli dei rischi che corriamo e sono disponibili a compiere dei passi per promuovere la crescita economica e il commercio. Ciò significa stimolare l'economia, rifiutando il protezionismo. In secondo luogo, dobbiamo dimostrare chiaramente di voler  risolvere i problemi del settore bancario e del mercato finanziario e ciò significa compiere una serie di passi per gestire i titoli tossici e per garantire un adeguato flusso di capitali alle banche. Infine, serve un'agenda per regolamentare i mercati che eviti che si ripetano i rischi sistemici di oggi, un'agenda che richieda ad ogni Paese di prendere l'iniziativa  ma che favorisca anche la cooperazione internazionale perché il mercato dei capitali è ormai globale. Serve, rispetto al passato, maggiore vigilanza e supervisione sui paradisi fiscali…
Questa è una differenza. Ma ne esiste anche un'altra e riguarda le diverse idee su come affrontare la crisi, specialmente tra gli economisti, anche se conservatori e liberali sembrano grosso modo condividere la necessità dei piani di stimolo all'economia. Lo sapete, la crisi economica ha colpito prima negli Usa e si è poi si è propagata. Non sorprende perciò che noi, americani, prima di altri abbiamo deciso di intervenire radicalmente, poiché l'impatto recessivo si è avvertito repentinamente a Wall Street. Man mano che altre zone del globo hanno cominciato ad avvertire pesanti conseguenze in termini di riduzione del Pil e dell'export, si è fatto strada un condiviso senso d'urgenza. Si cominciano così a intravedere segnali di convergenza. Ovunque si sta diffondendo una comprensibile tensione, dovuta al fatto che le misure da adottare incidono pesantemente sui contribuenti, che a loro volta faticano ad accettare che i propri soldi vadano sprecati a causa di colpe altrui. Per questo motivo tutti i governi devono sopportare una certa dose di impopolarità e comprendere che la azioni politiche che servono oggi non possono ricevere un'immediata gratificazione da parte di un'opinione pubblica confusa, preoccupata e comprensibilmente arrabbiata. Tuttavia, io sono fiducioso e credo che i cittadini di tutto il mondo abbiano la maturità per comprendere la situazione e sto notando che la nostra azione comincia a dare  frutti. Intravedo segnali di stabilizzazione…

Segnali di stabilizzazione?

In America, ad esempio, qualcosa si sta muovendo nel mercato dell'abitazione. Il nostro piano per la casa ha permesso che i tassi d'interesse si abbassassero ed ora stiamo assistendo ad un enorme aumento di rifinanziamenti nel settore bancario. In alcuni mercati selezionati, come quello dei prestiti agli studenti, gli sforzi del ministro Tim Geithner iniziano a dare risultati. Certo, siamo solo all'inizio, ma ciò di cui abbiamo bisogno è perseveranza e volontà di sperimentare soluzioni innovative per uscire dalla crisi.

Lei ha menzionato i rischi e i pericoli del protezionismo. La Banca mondiale ha identificato 73 misure riconducibili al protezionismo che sarebbero state adottato dall'ultimo G20 ad oggi. In termini pratici, cosa può fare la sua amministrazione a Londra per cambiare questo stato di cose e per rassicurare gli europei sulle misure adottate dal Congresso Usa che invitano a “comprare americano” (Buy American)?

Vorrei innanzitutto far notare che, nonostante la retorica protezionistica, la frustrazione socio-economica e la crescita della disoccupazione, le disposizioni “Buy American” che compaiono nel nostro piano di stimoli all'economia sono state scritte nello spirito delle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio. Personalmente ho mandato chiari messaggi per ribadire che questo non è il tempo di rimpiangere il protezionismo o di chiudere il mercato americano. Credo comunque che in una democrazia vi sia lo spazio per esprimere concetti sbagliati. Questo vale per gli Stati Uniti e vale anche per molti altri Paesi nel mondo, ma ciò che conta è la volontà politica generale che sarà espressa a Londra e che rifiuterà il ritorno a tentazioni protezionistiche. E mi sento di garantire ad americani, europei, asiatici e africani che i loro leader hanno il polso della situazione e non prenderanno decisioni avventate o irrazionali.

Non teme che la vicenda dei bonus ai manager dell'Aig abbia scosso la fiducia del mondo degli affari nel buon funzionamento dello Stato di diritto in America, con possibili, pesanti, ripercussioni sulle misure di salvataggio in atto nei settori industriale e finanziario?

Può darsi, ma è importante che i capitani di industria comprendano la delusione di quei cittadini che vedono loro intascare enormi premi pagati con il denaro che i contribuenti hanno versato per salvare le aziende malgestite. Credo che i manager, le banche e il mondo delle imprese debbano contribuire a risolvere la situazione in cui siamo precipitati ed ho buoni motivi per crederlo, almeno a giudicare dai colloqui che ho recentemente avuto con esponenti del mondo produttivo e finanziario. E' necessario senso del sacrificio per il bene pubblico, soprattutto da parte di quei settori della nostra economia che hanno contribuito con la loro condotta ad aggravare le dimensioni della crisi attuale. E' necessario che una parte dei soldi perduti torni nelle tasche dei contribuenti, in modo che il cittadino americano guardi con maggiore benevolenza agli sforzi del governo per rivitalizzare l'economia. Ma tengo a precisare che, al di là delle reazioni emotive e delle legittime lamentele di chi è stato truffato, il sistema Usa ha avuto successo nel tempo proprio perchè fondato sul rispetto dei contratti e sulla libertà di intrapresa in un'economia aperta.






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