E' iniziato il lungo processo elettorale che porterà a maggio all'insediamento di un nuovo governo a New Delhi. La sfida per la leadership indiana è proseguire sulla strada della modernizzazione cercando al contempo di alleviare la miseria di milioni di poveri
Fabio LucchiniSi vota nel secondo Paese più popoloso al mondo. Un fenomeno che a livello nazionale si ripete ogni cinque anni suscitando diffuso interesse e curiosità. Circa settecento milioni di elettori si riverseranno alle urne nelle prossime settimane (esatto, settimane!) per decidere chi avrà l'onore/onere di governare la più grande democrazia al mondo. Espressione, quest'ultima, abusata ma corretta perché l'India, ferita da sessant'anni di storia travagliata, ha sempre difeso la scelta democratica compiuta nel 1947 dai suoi fondatori. Una democrazia comunque imperfetta quella indiana, continuamente messa in discussione dall'elezione di politici corrotti, dalla pesante influenza delle questioni religiose e della politica delle caste e dalla compravendita di voti. Guasti e malcostumi tipici di molti sistemi democratici, ma particolarmente acuti nel delicato caso indiano. Negli ultimi decenni si è aggiunta un'altra problematica, relativa alla marcata influenza dei piccoli partiti nelle coalizioni di governo e alla loro crescente capacità di condizionare e spesso paralizzare l'agenda degli esecutivi di volta in volta in carica. Lo storico Ramachandra Guha sostiene che l'India sia una democrazia a metà, che pur tenendo regolari elezioni fallisce nel momento di esprimere una classe dirigente capace e delle istituzioni funzionanti.
Oggi
l'India è chiamata a scegliere tra centinaia di formazioni partitiche, solo sette delle quali hanno un carattere nazionale. Le operazioni di voto iniziate lo scorso 16 aprile (continueranno fino al 13 maggio, mentre i risultati definitivi si conosceranno a partire dal 16 maggio) proseguono regolarmente, nonostante le pesanti azioni di disturbo dei ribelli maoisti, che invitano i cittadini a boicottare le elezioni e che hanno lanciato una serie di attacchi, più o meno dimostrativi. In corrispondenza dell'apertura delle urne, infatti, un attentato presso un seggio ha provocato la morte di 17 persone, mentre più recentemente un commando ha tenuto in ostaggio per diverse ore centinaia di passeggeri di un treno. Ad ogni modo, la situazione pare complessivamente sotto controllo e in nulla paragonabile al caotico e tragico processo elettorale tenutosi lo scorso anno in Pakistan, dove, dopo l'eliminazione fisica del maggior leader dell'opposizione Benazir Bhutto e l'estromissione dell'autoritario presidente Pervez Musharraf, si è insediato un governo malfermo e lacerato dalle divisioni interne che fatica a gestire il crescente peso dell'integralismo nell'unico Paese musulmano dotato dell'arma atomica.
Il Pakistan continua così a preoccupare la comunità internazionali, perché si teme che la sua intima debolezza favorisca la riscossa del vivaio estremista che, saldamente insediato nelle aree di confine con l'Afghanistan, potrebbe ben presto diventare una concreta minaccia sia per il governo di Islamabad che per la stabilità dell'Asia centrale e della confinante India.
Delusi da quanto sta avvenendo in
Pakistan, molti osservatori negli Stati Uniti e in Europa monitorano gli sviluppi dell'esperimento democratico indiano, convinti che New Delhi, sospinta da una crescita economica robusta e continua, possa presto diventare un partner paritetico, affine per obbiettivi e valori al mondo occidentale. Del resto, negli ultimi cinque anni il governo indiano guidato dal Partito del Congresso ha dimostrato buona volontà e responsabilità compiendo passi significativi verso una pacificazione con il nemico storico pakistano. Un percorso positivo che lascia intravedere la volontà del gigante indiano di proporsi come il garante della stabilità in una delle regioni più delicate per l'equilibrio e la sicurezza globale. Certo, è una volontà che dovrà essere consolidata nei prossimi anni, e, sotto questo profilo, sarà fondamentale l'esito delle elezioni in corso.
La sfida principale è tra il Partito del Congresso e i nazionalisti hindu del Bharatiya Janata (Bjp). Fondato nel 1885, il Congresso ha rappresentato la forza politica che ha traghettato gli indiani all'indipendenza da Londra e formato la stragrande maggioranza dei governi dal 1947 ad oggi. Il partito è stato storicamente dominato dalla famiglia Nehru-Gandhi ed è attualmente capeggiato da Sonia Gandhi, moglie e nuora, rispettivamente, di Rajiv e Indira Gandhi (figlia di Nehru e non imparentata con il celebre Mahatma), due primi ministri assassinati nel 1984 e nel 1991. Molti analisti si aspettano che presto Sonia ceda le redini del glorioso partito al figlio Raul, una deriva nepotistica non troppo apprezzabile in una nazione che aspira alla modernità e al progresso. Il partito ha guidato la coalizione che ha governato il Paese a partire dal 2004 e ripropone come candidato premier Manmohan Singh, il primo ministro uscente. Il Congresso cerca di riaffermare il suo carattere pan-indiano per convincere gli elettori a riconfermarlo al potere. Rispetto al Bjp la carta vincente del Congresso potrebbe essere costituita dal voto dei 170 milioni di musulmani che vivono nel Paese. Tra le fasce sociali più povere della popolazione, costoro hanno in passato spesso parteggiato per la piattaforma laica e riformatrice del Congresso e, a differenza di molte minoranze nel mondo, non hanno mai votato compattamente per un partito confessionale. Tuttavia, secondo le ultime tendenze, è da escludere che i musulmani indiani votino in blocco per un singolo partito, come invece succede per gli afro-americani che negli Stati Uniti votano in massa il Partito Democratico e per le minoranze etniche nel Regno Unito che parteggiano nettamente per il Labour. La dispersione del voto musulmano potrebbe danneggiare il governo in carica.
Costituito nel 1980, il Bharatiya Janata contenderà la vittoria finale al Congresso. Al potere dal 1998 al 2004, il Bjp sotto la guida di Atal Mehari Vajpayee ha condotto in quegli anni una politica ferma nei confronti del Pakistan soprattutto in riferimento all'annosa questione del Kashmir, una regione contesa tra i due Paesi che ha scatenato una serie di conflitti armati nel secondo dopoguerra. Gli anni di governo del Bjp sono stato contrassegnati da diversi episodi di tensione, che hanno sollevando diffusi timori di uno showdown nucleare tra New Delhi e Islamabad. Il candidato premier del partito per le elezioni 2009 è Lal Krishna Advani, non certo un moderato. Come ricorda Jayshree Bajoria in un recente articolo per il prestigioso think tank
Council on Foreign Relations, Advani si era già segnalato negli anni novanta per aver promosso una veemente campagna per la distruzione di una moschea nel nord del Paese. Una vicenda che si risolse in un'ondata di scontri tra hindu e musulmani che provocò centinaia di vittime.
Elementi che gettano più di un'ombra sulla capacità e la volontà del Bjp, nel caso dovesse tornare al governo, di gestire con equilibrio una situazione regionale in evoluzione e caratterizzata anche da rinnovati attriti tra
India e Pakistan. Infatti, in seguito agli attentati che hanno colpito la megalopoli indiana Mumbai nel novembre dello scorso anno, il governo indiano, convinto del coinvolgimento di terroristi provenienti dal territorio pakistano, ha accusato Islamabad di incapacità nella gestione dei gruppi estremisti interni, paventando l'ipotesi di sospendere il processo di pace avviato nel 2004 dal governo Singh dopo gli anni di tensione tra Vjpayee e Musharraf. La fase più acuta della crisi sembra ora passata, ma il ripetersi di avvenimenti di una simile gravità abbinata alla presenza al governo indiano di forze meno responsabili e dialoganti potrebbe avere effetti molto spiacevoli nel prossimo futuro.
Tuttavia, continua Bajoria, un panorama politico vasto come quello indiano non può esaurirsi nei due maggiori partiti. Diverse formazioni regionali hanno il peso per influenzare il programma della composita coalizione governativa che inevitabilmente si formerà dopo il voto. Inoltre, la crescita di un terza formazione potrebbe dar luogo ad un esito inaspettato. Fondato nel 1984, il Bahujan Samaj (Bsp) si propone di rappresentare gli appartenenti alle “caste inferiori”, a lungo discriminate e tuttora non pienamente integrate nella società indiana, e questo nonostante la Costituzione abbia abolito la divisione in caste. In cima alla immaginaria e pre-moderna piramide sociale che ancora condiziona la vita pubblica indiana vi sono i Bramini (classe sacerdotale), seguiti dai Kshatriya (guerrieri), dai Vaishyas (mercanti e uomini d'affari) e dai Sudra (contadini senza terra, piccoli fattori e artigiani). I dalit sono l'ultima fascia della casta dei Sudra che costituiscono dal 30 al 35 per cento della popolazione totale del Paese. In alcuni Stati la loro popolazione tocca anche il 40 per cento. Ed è a favore dello sviluppo sociale ed economico di questa classe che si batte il Bsp che, vicino anche alle minoranza religiose, sta cercando di ampliare il proprio consenso sia in direzione dei musulmani che degli appartenenti alle caste di rango più elevato.
Leader di questo ambizioso partito è Naina Kumari Mayawati, primo ministro del più grande e popoloso Stato regionale indiano, l'Uttar Pradesh, nel nord del Paese. Gli osservatori sostengono che, se dovesse giocar bene le sue carte, la signora Mayawati potrebbe entrare a far parte della coalizione di governo diventando l'ago della bilancia nello scontro tra il Congresso e il Bjp o, addirittura, in caso di un successo elettorale clamoroso, assicurarsi la carica di primo ministro alla testa di un terzo fronte in alleanza con i comunisti ed altre formazioni di sinistra. L'ascesa di Mayawati al potere, con la sua numerosa folla di seguaci conquistati dal suo impegno sociale, le sta conferendo la statura di leader nazionale. La sua influenza è infatti sempre più sentita anche negli Stati meridionali ed occidentali dove il Bsp avanza nei sondaggi e pare destinato a conquistare diversi seggi parlamentari nella prossima tornata elettorale. Una forza politica di cui bisognerà quantomeno tener conto nell'eterogeneo quadro politico nazionale, sempre più fedele specchio della varietà sociale, culturale e religiosa del Subcontinente.
In caso di risultato incerto molto dipenderà dalle scelte della miriade di partiti regionali, come anticipato sempre più influenti nella vita politica indiana. E del resto non potrebbe essere altrimenti considerando il peso demografico di quelle macro-aree che appare riduttivo considerare regioni utilizzando i canoni europei: l'Uttar Pradesh raggiunge quasi i duecento milioni di abitanti; l'equivalente del Brasile! Evan Feigenbaum, Senior Yellow presso il Council on Foreign Relations, sottolinea con preoccupazione gli effetti negativi della regionalizzazione della politica indiana sulle possibilità dei governi di coalizione di portare avanti una coerente agenda di riforme, indispensabile al Paese per progredire sulla strada dello sviluppo economico e sociale. In effetti, aggiunge lo storico Mahesh Rangarajan, i partiti regionali indiani danno tuttora rappresentanza soprattutto alla aree rurali dell'India, più inclini, rispetto ai settori urbani, ad affidarsi al ruolo protettore dello Stato e a guardare con diffidenza all'innovazione. La crescita delle forze regionali ripropone insomma i termini classici del confronto dell'India con la contemporaneità: modernizzarsi cercando al contempo di migliorare le condizioni di vita dei suoi milioni di poveri.
Qui è rintracciabile un nodo centrale della vita pubblica indiana e della sfida continua che la leadership nazionale si trova ad affrontare per mantenere vitale il sistema democratico in un quadro di sviluppo e crescente prosperità. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, in India le “caste inferiori” votano più delle “caste superiori”, i poveri più dei ricchi, gli analfabeti più degli scolarizzati, l'elettorato rurale più di quello urbano. Questa enorme democrazia a basso reddito è preoccupata dei propri livelli di sussistenza e vuole risposte immediate in proposito. Soddisfare queste richieste pone dei seri problemi rispetto al processo di liberalizzazione economica iniziato vent'anni or sono e che ha portato l'economia indiana a crescere a un ritmo annuo superiore al 7 per cento. Le riforme hanno beneficiato soprattutto i settori moderni ed urbani dell'economia indiana, che si sono aperti con successo alla globalizzazione, ma hanno causato un incremento delle disuguaglianze salariali senza apportare grandi vantaggi alla masse rurali povere. Esse non si accontentano più delle prospettive di benessere sul lungo periodo promesse dai governanti e dalle teorie scientifiche che sostengono che la liberalizzazione economica e commerciale siano la forma più efficiente di allocazione delle risorse. Per quest'ordine di motivi le esigenze che le masse di elettori scontenti esprimeranno con il loro voto potrebbero avere pesanti conseguenze sul futuro delle riforme. Riforme che hanno sinora fatto la fortuna del gigante indiano sulla scena internazionale.