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MECACCI: "ISRAELE COMPRENDA CHE NON C’E’ PACE SENZA GIUSTIZIA INTERNAZIONALE"

Se lo Stato ebraico non collaborerà con la comunità internazionale, l’incidente navale nel Mediterraneo offrirà una sponda ai suoi nemici

Data: 2010-06-02

Critica Sociale, 2 giugno 2010,

Il grave incidente navale avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 maggio potrebbe avere pesanti conseguenze su una serie di dossier internazionali di primaria importanza, quali la sicurezza e la stabilità mediorientali, il processo di pace israelo-palestinese e lo sviluppo del controverso programma nucleare iraniano. Matteo Mecacci, parlamentare italiano e Rapporteur for Rights and Democracy presso l'Assemblea dell'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, non nasconde la sua preoccupazione e analizza lo scenario inquietante che sembra profilarsi, anche se è ancora presto per avere un quadro esauriente di quanto è successo sulla nave Mavi Marmara (facente parte della flottiglia che tentava di forzare il blocco di Gaza e che è stata abbordata dai militari israeliani, ndr). Tuttavia, sostiene Mecacci, questo episodio, costato una decina di vite umane, evidenzia ancora una volta l'atteggiamento sbagliato dell'attuale governo israeliano.

A cosa si riferisce nello specifico?

Questo episodio è un tragico epilogo di altre iniziative sbagliate del Governo del premier Benjamin Netanyahu, ad esempio rispetto agli insediamenti nella West Bank e anche alla questione di Gerusalemme Est. Nella West Bank ci sono insediamenti illegali, che violano lo stesso ordinamento giuridico israeliano e non si può continuare a ignorarlo. L'attuale Governo persiste in un atteggiamento di chiusura, sia nei confronti della controparte palestinese che della comunità internazionale, in nome di un'agenda politica palesemente condizionata dai partiti di ispirazione nazionalista o di fondamentalismo religioso che incidono in modo sproporzionato sulle scelte degli esecutivi di coalizione che si susseguono al potere. Ciò fa sì che si ponga un accento eccessivo sulla sicurezza a discapito di ogni ipotesi di negoziato e di contrattazione. Come amico di Israele e degli ebrei temo il susseguirsi di questo atteggiamento non possa che sfociare in un pericoloso isolamento.
I fatti di domenica sono gravi, perché si sono verificati in acque internazionali e hanno portato all'uccisione di civili. Ritengo che un'indagine internazionale indipendente che verifichi l'esatta dinamica degli avvenimenti sia a questo punto soprattutto nell'interesse di Israele, che dovrà ponderare con attenzione le sue prossime mosse poiché, se dovesse invece negare la sua collaborazione, rischierebbe di perdere  credibilità agli occhi dei governi e dell'opinione pubblica internazionale.

Il blocco israeliano della Striscia di Gaza risale ormai al giugno 2007 in seguito al colpo militare di Hamas, che da allora governa l'area. La misura vieta tutte le esportazioni e consente solo il transito dei beni sufficienti a evitare una crisi umanitaria. Un recente editoriale di Bradley Burston per Haaretz definisce l'embargo di Gaza "l'arma più potente nelle mani dei nemici di Israele".

Un'opinione condivisibile. A Gaza non sono tutti terroristi. Ci sono persone normali che si sentono ingiustamente colpite e demonizzate solo perché vivono lì. Le "punizioni collettive" sono vietate dal diritto umanitario e chi governa Israele deve prenderne atto e intervenire al più presto, garantendo la propria sicurezza ma senza punizioni ingiuste. Sono ben consapevole che i riflessi "militaristi" di Israele sono dovuti a una storia che ha visto la sua società fin dalla sua nascita minacciata nella stessa possibilità di esistere, dopo una tragedia come l'Olocausto. E capisco come la percezione d'insicurezza induca i dirigenti israeliani ad affidarsi prevalentemente a una logica securitaria. Il guaio è che la politica israeliana sembra aver rinunciato alle proprie responsabilità e pare che le uniche decisioni politiche siano quelle degli apparati militari. E quando questo avviene, e vale per tutti i paesi non solo per Israele, si mettono a rischio le fondamenta stesse di un sistema democratico.
Ripeto, chi si dichiara amico di Israele ha il dovere di chiedere con insistenza il coinvolgimento della comunità internazionale negli ultimi fatti. E' evidente che all'Onu esistono posizioni ideologicamente anti-israeliane, ma non si può demonizzare un'istituzione internazionale quando si occupa di Israele e poi chiederne l'intervento per cercare di fermare il nucleare iraniano.
Il governo Netanyahu ha oggi un interesse vitale a permettere l'intervento internazionale e un monitoraggio indipendente di quanto avviene. Un Governo democratico, o sarebbe meglio dire di "democrazia reale", deve poter dimostrare che se anche vengono commessi degli errori, o dei crimini, i responsabili ne rispondono davanti alla giustizia. Una strage di civili che avviene in acque internazionali non può essere derubricata a una "questione interna". E questo vale a maggior ragione in una fase così delicata che potrebbe essere sfruttata strumentalmente dai suoi nemici, Iran in primis. Se Israele scegliesse la chiusura e l'isolamento di fronte alle richieste di chiarimento sull'accaduto che giungono da Nazioni Unite, Unione Europea e Stati Uniti, con quale forza negoziale potrebbe portare avanti le sue legittime richieste di sostegno internazionale in merito al delicato dossier nucleare iraniano?

A questo proposito, non crede che la sicurezza israeliana sia esposta a rischi sempre maggiori man mano che si rafforza il legame tra Iran, Siria e organizzazioni ostili allo Stato ebraico come Hamas e Hezbollah. E che dire del ruolo della Turchia, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu?

Come testimonia la dura reazione del premier turco, Recep Tayyip Erdogan, ai fatti del 31 maggio, lo scollamento tra Ankara e Gerusalemme prosegue. I turchi, come dimostra l'accordo con Brasile e Iran per la collaborazione nella gestione dell'uranio di Teheran, sembrano intenzionati a giocare un ruolo centrale nelle dinamiche regionali. Negli ultimi tempi le loro scelte politiche non hanno certo gratificato Israele, ma non credo che Ankara voglia alzare troppo la posta. Insomma, non credo possibile che la Turchia, paese membro della Nato da decenni, possa diventare una minaccia alla sicurezza di Israele. Più plausibile è che Erdogan si muova sul piano diplomatico per accrescere il suo peso politico nell'area mediorientale.
Temo piuttosto le provocazioni iraniane e di movimenti come Hamas e Hezbollah che, contando sul grave calo di popolarità internazionale che inevitabilmente sta colpendo Israele, potrebbero mettere in atto azioni violente nella speranza di suscitare una reazione eccessiva dello Stato ebraico. Il rischio è che si inneschi una spirale di violenze e di tensioni difficile da arginare. Del resto, le critiche internazionali all'azione contro la flottiglia sono state immediate e ampie e incoraggiano gli estremisti anti-israeliani nei loro propositi aggressivi. Come far fronte a tutto ciò? Non con l'unilateralismo e nascondendo la testa sotto la sabbia. Sotto questo profilo, la guerra dell'estate 2006 in Libano dovrebbe aver insegnato che la soluzione militare unilaterale non è più un'opzione, tant'è che per la prima volta vi è una missione internazionale di peacekeeping (Unifil) a monitorare il sud del Libano e il confine israeliano.

Non La preoccupa il progressivo allontanamento tra Israele e Turchia, i due pilastri della sicurezza occidentale in Medio Oriente e le due uniche democrazie della regione?

Ormai nel mondo di oggi, con i suoi processi globali, economici, finanziari, migratori eccetera, nessun Stato da solo ha la forza per tutelare e sviluppare i propri valori democratici e liberali. Solo tramite l'alleanza e la cooperazione con paesi che condividano i medesimi orientamenti e principi è possibile preservare la vitalità dei propri ordinamenti democratici. Altrimenti, i valori ai quali ci si riferisce in astratto non sono più elementi fondanti di un genuino sistema pluralista ma diventano semplici modalità di gestione del potere e possono essere sostituiti da sistemi autoritari.
Molti paesi che si vantano di essere retti da sistemi di democrazia formale finiscono per muoversi in realtà secondo logiche nazionalistiche, particolaristiche e autoritarie. Non vorrei che questo rischio toccasse anche Israele e Turchia a causa del loro isolamento rispetto alle altre democrazie. Un isolamento dovuto, per quanto riguarda Ankara, alle difficoltà incontrate nel processo di adesione all'Unione Europea, per responsabilità europee, e al suo conseguente riorientamento geopolitico verso oriente e, per quanto riguarda Israele invece, al disinteresse della sua classe politica (nonostante l'opinione pubblica israeliana sia fortemente a favore) a un ingresso nell'Unione Europea e a questo punto anche nella Nato. Il mio auspicio è pertanto che questi due grandi paesi trovino forme di integrazione via via più strette con le altre democrazie, altrimenti torniamo al nazionalismo che ha prodotto due guerre mondiali a partire dall'Europa nel secolo scorso.
Questa è una convinzione che ho da tempo e, non a caso, in occasione di un precedente colloquio (Conferenza per i diritti umani, la tolleranza e la democrazia, Ginevra, marzo 2010, ndr), ho fatto riferimento alla desiderabilità di una vera e propria "Organizzazione mondiale delle democrazie e della democrazia", un'istituzione che, costituita da Stati che condividano i medesimi valori e interessi, preveda organismi politici comuni che monitorino il rispetto dei diritti umani, anche al loro interno,  si diano strumenti d'intervento nelle crisi umanitarie e possano affrontare le grandi questioni globali sulla base di principi democratici condivisi e con valore di legge.

Lei sottolinea l'importanza per Israele di evitare l'isolamento. Ma non crede che proprio la linea seguita dallo storico alleato americano nei confronti dell'Iran, da molti giudicata ondivaga, abbia contribuito ad alzare la tensione nella regione mediorientale?

Non credo. A mio parere gli Stati Uniti stanno seguendo l'unico corso d'azione possibile. Alle dichiarazioni roboanti di Mahmoud Ahmadinejad non si può rispondere soltanto mostrando i muscoli. Il presidente iraniano non desidera altro, poiché la durezza israeliana nei confronti di Teheran finisce per giustificare agli occhi della popolazione iraniana l'assertivo nazionalismo governativo. Così, l'opinione pubblica iraniana, per quanto repressa e sottoposta a un regime conservatore e retrivo, finisce per riallinearsi ai pubblici poteri quando si tratta di difendere il diritto nazionale ad acquisire il nucleare.
Per gestire al meglio il dossier iraniano è necessario imbrigliare Teheran in un sistema di norme e vincoli concordato a livello internazionale, che impedisca ad Ahmadinejad la benché minima trasgressione. Non esiste norma internazionale che vieti a un paese di dotarsi del nucleare civile, nemmeno all'Iran. Ciò che inquieta è la possibilità che Teheran acquisisca un potenziale nucleare militare. Per impedirlo non servono le minacce o le azioni unilaterali che Israele valuta di intraprendere, quanto piuttosto un lavorio diplomatico e politico che stabilisca con chiarezza quali contromisure adottare nel caso l'Iran tentasse di arrivare alla bomba. Contromisure che possono andare dall'inasprimento delle sanzioni agli attacchi mirati contro gli impianti nucleari. Ma per fare tutto questo occorre saper costruire solide alleanze internazionali e il governo di Netanyahu mi sembra del tutto incapace e disinteressato a perseguire questa strategia.
Per tornare agli Usa, ritengo quindi che l'amministrazione Obama si stia muovendo bene, impegnandosi per un nuovo round di sanzioni anti-iraniane ma offrendo altresì a Teheran l'opportunità del negoziato. Minacciare il ricorso, puro e semplice, all'uso della forza, non come ultima spiaggia ma quasi come unica via possibile senza prospettare alternative politiche praticabili, è inefficace oltre che pericoloso, perché fa il gioco degli estremisti. Una lezione che la leadership israeliana sembra purtroppo aver dimenticato. (A cura di Fabio Lucchini)

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