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FACENDO LA STORIA

Il presidente di Israele Shimon Peres riflette sul suo mentore, sulla sua controparte nel processo di pace e sulle prospettive di sopravvivenza dello Stato di Israele

Data: 2010-08-06

Benny Morris, Tablet Magazine, 26 luglio 2010,

A un certo punto della mia recente intervista al presidente israeliano Shimon Peres gli ho chiesto perché tanti anni fa il suo mentore, il fondatore e primo ministro dello Stato, David Ben-Gurion, lo avesse scelto come consigliere tra tanti giovani brillanti e promettenti. Forse spinto dalla modestia, l'87enne Peres non ha dato una risposta chiara. Senza dubbio, "il vecchio", come è sempre stato chiamato Ben-Gurion, fu colpito dalla sua brillantezza oratoria e intellettuale, che ha affascinato in seguito numerosi leader mondiali, anche se non sempre l'opinione pubblica israeliana.
In patria, la personalità di Peres è stata per decenni afflitta da un deficit di popolarità. Per molti connazionali egli non è mai risultato credibile - fatto che spiega, in parte, la sua incapacità di vincere diverse elezioni generali e interne al Partito laburista. Nella lunga sfida per la leadership del Labor, Yitzhak Rabin lo ha sconfitto a ripetizione negli anni settanta, ottanta e novanta. A esemplificare il cattivo rapporto tra i due la definizione coniata dallo stesso Rabin, che etichettò Peres come un "infaticabile scavatore". Descrizione allora poco gradita all'attuale presidente. Poi qualcosa cambiò e durante il secondo premierato di Rabin (1992-95), con Peres ministro degli Esteri, gli ex rivali collaborarono proficuamente. Il martirio del premier nel 1995 non fece altro che rinforzare la sua eredità politica, mentre Peres si dimostrò incapace di liberarsi dalla maledizione del consenso che ha accompagnato la sua intera carriera politica. Infatti, è diventato presidente di Israele, e solo al secondo tentativo, non perché eletto dal popolo ma scelto dalla Knesset.
Dopo un decennio di terrore e di delusioni, Peres crede ancora alla suggestione di un "nuovo Medio Oriente" che egli propone spesso? Lo lascio alla vostra immaginazione. Il fulcro del pensiero di "Mr. Security" rimane il seguente: i razzi di Hamas, le "flottiglie della pace" turche e i pazzi nucleari iraniani devono essere contrastati con decisione e resi innocui. A prescindere dal suo aspetto gentile e pacato, Peres rimane l'ex ministro della Difesa convinto che per garantire la stabilità di Israele la sicurezza debba avere la più alta priorità e che ogni possibilità di pace è legata, in ultima istanza, alla forza di Israele. Una posizione che sembra avere una certa influenza sull'attuale generazione di politici con responsabilità di governo nel Paese, Benjamin Netanyahu in testa. Nonostante la lunga collezione di sconfitte elettorali al passivo, Peres è ora un presidente assai apprezzato e distanzia largamente tutti gli altri politici israeliani, raggiungendo il 78% di approvazione pubblica.

Intervisto Peres nel suo ufficio, seduti a un tavolo. Veste elegante e se ne lamenta ("incontro diplomatici tutto il giorno"). La sua consulente per la comunicazione, Ayelet Frish, e la sua assistente si accomodano con noi per l'intera durata delle due interviste, svoltesi all'inizio di luglio nella residenza presidenziale di Talbiyeh e durate circa ottanta minuti l'una.
Ayelet interviene occasionalmente ("questo non è tra gli argomenti in discussione") quando si accorge che il suo capo rischia di dire troppo in merito a determinate questioni. Non sono sicuro che egli si ricordi di avere avuto una precedente conversazione con me in passato. Erano gli anni ottanta e lavoravo al
Jerusalem Post, Peres era ministro degli Esteri. Mi ricordo chiaramente del briefing che egli ebbe con i giornalisti che lo accompagnavano ad Alessandria, dove avrebbe incontrato il presidente egiziano, Hosni Mubarak. Peres era seduto su una poltrona nel centro della sua stanza di hotel e i giornalisti lo circondavano, accomodati su sedie e tappeti. Me lo ricordavo brillante. Un quarto di secolo più tardi lo ritrovo più stanco e con la voce indebolita; nel complesso, non proprio un'impressione folgorante.
Gli domando della guerra del 1948, nel corso della quale 700.000 arabi fuggirono o vennero espulsi da quello che sarebbe diventato lo Stato ebraico. (Negli ultimi tre decenni ho scritto ampiamente di quella guerra, dedicando tre libri alla creazione del problema dei rifugiati palestinesi nel 1947-49. Per quanto ne sappia, Peres non ha mai commentato pubblicamente i miei libri, ma ho avuto spesso la sensazione di un suo disappunto nei miei confronti per ciò che ho rivelato e che può suonare critico nei confronti di Israele e Ben-Gurion).
Pochi mesi fa, ho avuto la piacevole sorpresa di ricevere una lettera scritta di suo pugno, dove si rallegrava di una mia durissima recensione al libro di uno storico britannico anti-israeliano (All'inizio della nostra prima intervista nei primi giorni di luglio, Peres ha commentato un mio recente libro, "1948: una storia del primo conflitto arabo-israeliano", sostenendo che esso fosse un utile complemento ai vuoti della sua memoria. Tuttavia, non ne ha discusso oltre). La guerra (del 1948-49, ndt) terminò lasciando in Israele una minoranza di 160.000 arabi, che rappresentavano il 15-20% della popolazione. Oggi gli arabo-israeliani ammontano a 1.3 milioni; essi si identificano con i palestinesi, talvolta protestano con violenza e sostengono i nemici dello Stato durante i conflitti (come è capitato quando Israele ha affrontato Hezbollah nel 2006 e Hamas a Gaza nel 2009).

-Morris: E' stato forse un errore concludere la Guerra del 1948 con una situazione demografica poco vantaggiosa?

Peres: No, le considerazioni di natura morale ebbero la meglio rispetto alle questioni demografiche. Ben-Gurion sapeva che ogni guerra e ogni conflitto hanno luogo due volte - prima sul campo di battaglia e poi nei libri di Storia. Egli non voleva che nei libri di Storia venissero scritte cose che fossero in dissonanza con i principi fondanti del Giudaismo. Credeva davvero che senza una priorità morale non ci fossero ragioni di esistere per il popolo ebreo. Le espulsioni di massa erano contrarie ai suoi principi morali.

-Ma nel 1948 egli diede spesso ordine di espellere persone.

Non diede ordini di espulsione. (Suggerisco che Ben-Gurion diede in effetti ordini del genere, quando, il 12 luglio 1948, autorizzò l'espulsione degli abitanti arabi delle città di Lydda e Ramleh, situate sulla strada Tel Aviv-Gerusalemme). Peres scuote la testa. "Mi ricordo quando Ben-Gurion telefonò a Abba Khoushi (leader del Labor, più tardi sindaco di Haifa) e gli disse di fare quanto in suo potere per trattenere gli arabi a Haifa. L'ho sentito con le mie orecchie. Ero lì." (Val la pena ricordare che gli arabi di Haifa non furono espulsi ma lasciarono la città alla fine dell'aprile del 1948, in parte a causa di una decisione della leadership locale araba).

Peres ha sempre avuto una sconfinata ammirazione per Ben-Gurion, lo cita e si richiama continuamente a lui. Nel suo ufficio si trovano parecchie foto dello statista in occasioni ufficiali e informali, alcune delle quali lo ritraggono con il giovane Peres. Ben-Gurion e la sua eredità impegnano non poco il presidente israeliano. Egli ha appena completato una biografia di Ben-Gurion, che verrà pubblicata l'anno prossimo da Shocken Books come parte di una collana di Nextbook Press  riguardante le personalità ebraiche.
Entrato a far parte dello staff del "vecchio" all'età di 24 anni, Peres è stato vice direttore generale e poi direttore generale del ministero della Difesa dal 1952 al 1959. A partire da quello stesso anno, e per quattro decadi, è stato membro della Knesset e più volte ministro. Ha servito come primo ministro tre volte: brevemente nel 1977 (dopo le dimissioni di Rabin a causa di malversazioni finanziarie), nel 1984-86 e nel 1995-96 (dopo l'assassinio di Rabin).
Considerato per decenni come un oltranzista "Ben-Gurionista" e un falco, negli anni novanta orchestrò i negoziati di Oslo con l'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt) e si affermò come il leader delle colombe israeliane. Per il suo ruolo nei colloqui, i primi tra leader israeliani e palestinesi, Peres ottenne, in condivisione con Rabin e Yasser Arafat, il Premio Nobel per la Pace nel 1994.
Ho domandato a Peres dell'accordo firmato da Ben-Gurion che esenta tuttora gli ultra-ortodossi, conosciuti come haredim, dal servizio militare e che sussidia i loro studi della Torah nelle scuole yeshivas.

-Non fu un errore di prospettiva, considerando la realtà attuale, caratterizzata da massicce esenzioni dal servizio militare e da episodi di ingiustizia sociale, dovuti ai cospicui sussidi governativi che incoraggiano la tendenza haredi ad avere famiglie eccessivamente numerose e a non lavorare?

Peres: Ben-Gurion mi incaricò di negoziare con loro. Credo nel 1951. Avevo nella mente gli occhi di mio nonno. Non ero un osservatore neutrale. All'epoca si parlava di circa 100-150 studenti yeshiva nel complesso. I leader ultra-ortodossi mi dissero: se non ci saranno esenzioni, le scuole
verranno trasferite all'estero e io pensai, "Israele senza gli yeshivot?"
Peres lascia intendere la sua contrarietà al mantenimento odierno di quei privilegi e aggiunge che egli - e forse anche Ben-Gurion - si aspettava che gli haredim cambiassero e diventassero col tempo membri produttivi della società.
Peres: La condizione di haredi non è eterna.

-Sembrerebbe esserlo.

Le donne haredi stanno iniziando a lavorare; alcuni haredim si arruolano.

-Stiamo parlando di numeri molto piccoli.


La prima decade dello Stato ebraico

Ci concentriamo sulle relazioni arabo-israeliane nella prima decade dello Stato ebraico. La guerra del 1948 ebbe formalmente fine con accordi di armistizio tra Israele e ciascuno dei suoi quattro vicini, firmati tra il febbraio e il luglio del 1949. Gli Stati arabi erano tuttavia profondamente traumatizzati dalla loro sconfitta, dallo spettacolo della loro inettitudine e dalla nascita di uno Stato ebraico nel cuore del mondo arabo - nei fatti in grado di separare l'occidente arabo, il Maghreb (Libia, Algeria, Tunisia, Marocco, Mauritania e Sahara Occidentale) dell'oriente arabo, il Mashreq (Giordania, Siria, Libano e Iraq). Essi rifiutarono di accettare l'esistenza di Israele e, almeno a parole, promisero un "secondo round" nel quale annichilire il nemico. Allo stesso modo, molti in Israele, dalla destra revisionista a Moshe Dayan, cercavano il secondo round con l'obiettivo di espandere a est le frontiere nazionali verso la più difendibile linea del fiume Giordano e di incorporare il cuore dell'Israele biblico, costituito dalle terre di Giudea, Samaria e da Gerusalemme Est.
Durante gli anni 1949-56, persistette uno stato di belligeranza a bassa intensità tra Israele e i suoi vicini: gli arabi, soprattutto i rifugiati della guerra del 1948, si infiltrarono in Israele e lanciarono sporadici attacchi terroristici; Israele replicò con una serie di rappresaglie. Scontri periodici, in special modo dopo il 1953, ebbero luogo tra gli eserciti di Israele e degli Stati arabi lungo le frontiere. Questo ciclo di violenze culminò nell'attacco israeliano, concordato con Gran Bretagna e Francia, all'Egitto nell'ottobre-novembre 1956. Si trattava della Campagna del Sinai o Guerra di Suez. Per Israele, semplicemente la seconda guerra arabo-israeliana.

-Negli anni cinquanta si verificarono atti terroristici e dure risposte israeliane. La politica della rappresaglia non funzionò e dovemmo risolverci a scatenare la guerra nel Sinai. Il ministro degli Esteri di allora, Moshe Sharett, pensò che la politica della rappresaglia avrebbe solo allontanato la pace.

Vede, io sostenevo la politica della rappresaglia e continuo a sostenere che fosse corretta. Esistevano delle organizzazioni terroristiche. Non si poteva dare la caccia a ogni singolo terrorista. Così, la scelta fu di colpire gli Stati arabi che davano loro ospitalità.

-Ma non funzionò.

Ma noi dovevamo fare pressione sui paesi confinanti perché riducessero le infiltrazioni. Per questo lanciammo delle rappresaglie. Il terrorismo non può essere sconfitto, solo contenuto e ridotto.

-Forse avremmo potuto raggiungere la pace se solo avessimo offerto maggiori concessioni?

La nostra storia comune con gli arabi è anche la mia storia personale. E io divido la storia in due parti. Sin quando gli arabi credettero di poterci distruggere, essi rifiutarono ogni ipotesi di pace. Non erano pronti. In quel periodo io mi comportai come un falco. Non appena essi si mostrarono inclini alla pacificazione, il quadro cambiò. Questo accadde tra la Guerra dei Sei Giorni e quella dello Yom Kippur. Prima di allora, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, insieme ai suoi alleati siriani e giordani, pensava di poterci spazzare via. Essi ricevettero grandi quantitativi di armi dall'Urss. Ancora oggi fatico a comprendere il rifiuto del presidente americano Truman di venderci dei fucili - anche solo dei fucili. Britannici, francesi e canadesi si unirono agli americani nell'embargo. Sino all'avvento di Kennedy gli americani non ci vendettero armi. Ben-Gurion temeva davvero che gli arabi ci annientassero.


La Guerra dei Sei Giorni

Nel 1967 ci risolvemmo a intraprendere la Guerra dei Sei Giorni che, similmente ai conflitti del 1948 e del 1956, non fu seguita immediatamente da una pace. Peres mi dice che nel maggio del '67 egli aveva tentato di evitare la guerra proponendo "una certa misura" - reportage della stampa straniera, mai confermati da Peres, sostennero in quegli anni che egli avesse proposto di far detonare una bomba atomica nel Negev come deterrente rispetto all'aggressività di Nasser. Ma il governo israeliano respinse l'idea di Peres e Israele si imbarcò in un attacco preventivo, sbaragliando le truppe di Egitto, Giordania e Siria e conquistando Gerusalemme Est, la Penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la West Bank e le Alture del Golan.

-Pochi giorni dopo la fine del conflitto (19 giugno 1967), il governo israeliano prese una decisione segreta, per restituire, demilitarizzati, il Sinai all'Egitto e il Golan alla Siria in cambio della pace. 

Sì, si era deciso di ritirarci ai confini internazionalmente stabiliti in cambio della pace. Una simile proposta non venne avanzata in riferimento alla West Bank, che era stata annessa dalla Giordania nel 1948-50. Un'annessione non riconosciuta della comunità internazionale, se si eccettuano Pakistan e Gran Bretagna. L'offerta a Egitto e Siria fu avanzata pubblicamente. In un discorso alla Knesset. Ne erano a conoscenza.

-Perché Israele non offrì subito dopo la Guerra la restituzione alla Giordania della West Bank e Gerusalemme Est?

Noi - Rabin, il ministro degli Esteri Yigal Allon e io - incontrammo Re Hussein nel 1974 sul Mar Rosso e ognuno propose qualcosa. Il Piano Allon prevedeva, in cambio della pace, la restituzione ai giordani della collinare e popolosa cresta della West Bank (mentre noi avremmo mantenuto il controllo della quasi disabitata valle del Giordano). Chiesi a Rabin il permesso di esporre il mio piano ed egli acconsentì.

-Che cosa propose?

Fu un'anticipazione dell'Accordo di Londra del 1986 tra me e Hussein, la sua prima formulazione. Sarebbero esistite tre entità: la Giordania, Israele e la West Bank (che sarebbe stata governata congiuntamente; ogni abitante cisgiordano avrebbe potuto votare per il suo parlamento). Un parlamento locale della West Bank avrebbe gestito tutte le materie, tranne le questioni relative alla politica estera e alla difesa. (L'accordo del 1986 subì il veto di Yitzhak Shamir, che sarebbe diventato a breve primo ministro israeliano). Hussein si dichiarò d'accordo, considerando la mia proposta "una base per il negoziato".

-Non vedo differenza tra una simile proposta e la restituzione di West Bank e Gerusalemme Este alla sovranità giordana. Cosa sarebbe accaduto se avessimo offerto la restituzione di quei territori nella loro interezza?

Hussein non avrebbe accettato. Sarebbe rimasto solo, con l'accusa di tradimento. Egitto e Sira non l'avrebbero permesso.

-E cosa sarebbe accaduto se ci fossimo ritirati unilateralmente, senza un accordo ed evitato l'insorgere del nazionalismo palestinese e l'attuale impasse?

Chi avrebbe garantito la nostra sicurezza, con una distanza di solo 10 miglia tra l'estremo confine occidentale della West Bank e la costa mediterranea? Vi fu un entusiasmo eccessivo dopo la vittoria del 1967.


Le armi nucleari

Cerco di farlo sbottonare sulla questione dell'atomica israeliana, che Peres preferisce chiamare "l'opzione nucleare". Fu il giovane Peres che negli anni cinquanta negoziò con successo per ottenere l'assistenza francese alla costruzione dell'impianto nucleare di Dimona, dove, secondo la stampa straniera e la spia israeliana Mordechai Vanunu, Israele produceva e produce le sue armi atomiche. E fu Peres, apparentemente come agente di Ben-Gurion, a supervisionare l'intero programma.

-Lei è considerato il padre dell'atomica israeliana, ma qualcosa nella coscienza pubblica nazionale ha fatto sì che non Le venisse concesso credito, ad esempio nelle tornate elettorali. (Peres perse le elezioni del 1977, 1981 e del 1996; nel 1984, guidato da Peres, il Labor ottenne la maggioranza relativa alla Knesset, ma per governare fu costretto a formare un'alleanza sinistra-destra con il Likud; Peres ruotò con Shamir nella carica di primo ministro. La serie di sconfitte elettorali appiccicarono a Peres l'etichetta di perdente, che egli ha sempre sofferto).

Il tutto fu mantenuto segreto.

-Un segreto ben conosciuto tuttavia.

Era completamente nascosto, sconosciuto. Formalmente esisteva la Commissione israeliana dell'Energia Atomica, ma in realtà gestivo io ogni cosa. Il mio ruolo con i francesi rimase occultato. Fui solo contro tutti. (Qui Peres fa riferimento agli oppositori del programma nucleare all'interno dell'establishment israeliano. Essi sostenevano che Israele fosse troppo povero e sottosviluppato a livello tecnologico per completare il programma in autonomia nel caso i francesi avessero deciso di ritirare la loro assistenza. Inoltre, dicevano, se anche Israele fosse riuscito a produrre la bomba, quest'ultima non avrebbe certo posto termine ai problemi politico-diplomatici del Paese. Golda Meir, allora ministro degli Esteri, fu tra le voci critiche, Moshe Dayan è da annoverare tra gli scettici. Secondo la stampa estera, Israele si dotò dell'arma atomica nel 1967-68).

-Non avverte tutto ciò come un'ingiustizia della Storia nei suoi confronti?

Lasci che Le dica una cosa. Non la prenda sul personale, ma la Storia (quella scritta dagli storici) ai miei occhi non è così importante. Ho raggiunto la conclusione che un leader preoccupato di come verrà giudicato dalla Storia non può essere un grande leader. Egli deve essere anche disposto a rinunciare a un posto nella Storia se il suo obiettivo è fare la Storia. Io sono un esempio di uomo che ha dovuto starsene in silenzio per molto tempo. Il mio impegno nell'
Israel Aircraft Industries (industria manifatturiera di punta nella fabbricazione di armi) rimase ignoto, così come il mio ruolo nel raid di Entebbe (nel quale un commando israeliano liberò più di cento ostaggi condotti in Uganda da terroristi palestinesi e tedeschi nel 1976 - fu Rabin a raccogliere i frutti di quell'operazione). Sono convinto che la capacità nel fare le cose, in linea con i principi in cui ho sempre creduto, sia più importante dei riconoscimenti nei libri di Storia. Essere il numero 2, senza onori e riconoscimenti, è a volte più importante di essere il numero 1. Io lo so, guardiamo al mio ruolino personale.
Posso immaginare che non avrò un posto di primo piano nella Storia, ma questo non conta. Ciò che importa è che io sia stato una persona corretta. Non sempre sono stato dalla parte giusta - anche se questo lo si stabilirà in futuro - ma mi sono sempre comportato con correttezza. Così, posso dormire sonni tranquilli. Churchill, per avere garanzia su come sarebbe stato ricordato dalla Storia, scrisse personalmente la sua storia.

-
Il possesso dell'atomica - se preferisce "l'opzione nucleare" - è servito davvero alla sicurezza di Israele?

Senza dubbio. Dire che vi è il sospetto che Israele abbia l'atomica è un potente deterrente. Lasci che Le racconti una storia. Amr Moussa - ex ministro degli Esteri egiziano, poi segretario della Lega Araba - era in buoni rapporti con me. Un giorno mi disse, "Shimon, noi siamo amici, portami a Dimona e fammi vedere cosa tenete lì". Gli risposi, "Sei pazzo? Ti porterei lì, vedresti che non c'è nulla, la smetteresti di essere sospettoso e io verrei licenziato. Non voglio che tu smetta di essere sospettoso, sii sospettoso!". Questo alone di incertezza giocò un ruolo nella decisione del presidente egiziano, Anwar Sadat, di non annoverare Tel Aviv tra gli obbiettivi da raggiungere in sede di pianificazione della Guerra del Kippur del 1973. Gli egiziani non esagerarono, si accontentarono di limitare la guerra al Sinai.

-
Come fa a sapere queste cose?

L'ho sentito da Yigael Yadin (un ex capo di Stato maggiore dell'esercito e più tardi vice-premier), che lo era venuto a sapere direttamente da Sadat. Una fonte completamente affidabile. La capacità nucleare ha rafforzato la posizione di Israele, è innegabile.

-
Ma da allora, soprattutto in anni recenti, il sospetto o la realtà che Israele possedesse l'arma atomica ha permesso a Mahmoud Ahmadinejad di chiedere al mondo: "Perché all'Iran dovrebbe essere impedito l'accesso alle armi nucleari?"

Gli iraniani mirerebbero alle armi nucleari in ogni caso. Vogliono distruggerci.

-Ma questo dà loro la scusa per proseguire nel programma nucleare.

Il mondo comprende la differenza tra noi e l'Iran. Fino a oggi il nucleare è servito come buon deterrente. Peres è chiaro su un punto cruciale: "Vogliono distruggerci".

La gestione della vicenda, da parte dell'Occidente, da parte di ciascuno di noi, è stata mal posta sin dall'inizio. Due sono gli elementi da considerare. Il primo è: in quali mani sono le bombe? Se la Svizzera si dotasse degli armamenti atomici chi potrebbe preoccuparsene?

-Non credo sarà facile rimpiazzare il regime di Teheran.

Io credo che il primo di tipo di sanzione avrebbe dovuto essere di carattere morale.

-Morale?

Sì, contro la leadership. Evitare che chiunque si incontrasse con loro. Come i fascisti, come i nazisti, non che io dica che siano nazisti. Avrebbero dovuto espellerli dalle Nazioni Unite. Avrebbero dovuto subire un processo per l'istigazione alla distruzione di un paese membro dell'Onu. L'Iran è dietro ai terroristi. A Hezbollah.

-
Tutto ciò avrebbe bloccato il programma nucleare iraniano?

Questo, insieme alle sanzioni economiche e alla predisposizione di un sistema anti-missile intorno all'Iran.

-
Rispetto agli insediamenti, Lei, sia prima del 1977 (quando, in qualità di ministro della Difesa, era responsabile della politica degli insediamenti israeliani nella West Bank) che dopo (quando per gran parte del tempo rimase al potere il Likud) ha parlato di proporzioni. Lei ebbe una parte (nel periodo 1974-77) nello stabilimento delle colonie israeliane sulle creste collinari densamente popolate dagli arabi. Ad esempio, Sebastia (dove si verificò una svolta nel 1975, quando il governo israeliano a guida laburista permise l'insediamento di una colonia sul dorso collinare di Samaria, prevalentemente abitato da arabi).

E' una questione di proporzioni, 300.000 coloni sono troppi. Immaginavamo insediamenti agricolo-militari, non civili. Come Ofrah. Questa era la nostra idea.
Peres suggerisce che il compromesso con il gruppo di coloni Gush Emunim, che premise a questi ultimi di mettere radici, venne raggiunto alle sue spalle da Yisrael Galili, un suo collega di governo laburista e che i negoziati e gli accordi raggiunti dallo stesso Peres coi coloni durante la crisi di Sebastia furono nel complesso irrilevanti. Tuttavia, i critici israeliani, allora e in seguito, attribuirono a Peres la responsabilità delle scelte governative che avallarono le azioni illegali di Gush Emunim che aprirono la strada a una sequela di insediamenti nel cuore della West Bank.

Venni biasimato a più riprese, continua Peres. Nel corso delle varie campagne diffamatorie ai miei danni, fui accusato di possedere aziende e di fare soldi grazie alla mia posizione di ministro della Difesa, di essere figlio di un'araba e quant'altro. Tutte menzogne.

-
Israele si è rifiutato di parlare con l'Olp per molto tempo, salvo cambiare tono all'inizio degli anni novanta. Forse avrebbe dovuto cominciare prima?

Guardi, in passato fui uno dei vice-presidenti dell'Internazionale Socialista. In quel consesso spiccavano tre leader: il primo ministro svedese, Olof Palme, il cancelliere austriaco, Bruno Kreisky e Willy Brandt, cancelliere tedesco e leader del Partito Socialdemocratico. Costoro volevano ammettere Arafat nell'Internazionale. Io mi opponevo, loro fecero pressione su di me perché accettassi. Non conosci Arafat, dicevano. Io risposi che non ero contrario. Eravamo un'organizzazione socialista e democratica e se lui fosse diventato socialista e democratico non avrei avuto nulla da obiettare. In quel momento però lui era un terrorista. E gradualmente lo persuasero. Lo convinsero ad accettare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza Onu (che implicava il riconoscimento del diritto di Israele a esistere) e ad abbandonare il terrorismo. A parlare con Israele.
Arafat era una persona straordinaria, davvero complicata. Nacque in molti luoghi diversi (Peres allude, scherzosamente, al fatto che Arafat sostenesse di essere nato, di volta in volta, a Gerusalemme, Gaza o al Cairo e, più in generale, alla sua tendenza a raccontare bugie). Aveva una formidabile memoria, si ricordava ogni nome e ogni compleanno, ma dimenticava i fatti, non lo interessavano. Per questa sua tendenza a dimenticare era difficile condurre una conversazione ordinata con lui. Era politicamente isolato, anche tra gli arabi. Se gli Stati arabi lo avessero aiutato come il mondo ebraico aiutò noi, sarebbe riuscito a costruire uno Stato molti anni fa. I leader socialisti europei lo sovvenzionarono, gli diedero una piattaforma, ne fecero una figura internazionalmente riconosciuta. Ed ebbero da lui ciò che volevano (l'annuncio dell'abbandono del terrorismo e la volontà di riconoscere Israele).
Kreisky, incidentalmente, ebbe una gran parte nel portare Sadat a Gerusalemme e verso la pace, organizzando un incontro tra l'ambasciatore egiziano in Austria e l'allora ministro degli Esteri, Moshe Dayan. Kreisky ci ha sempre attaccati. Una volta gli chiesi: "Perché?" E lui rispose: "Come potrei aiutarvi altrimenti?"


Oslo

Peres si concentra ora sui primi anni novanta e sull'inizio dei negoziati di Oslo che culminarono nel 1993 con la firma sul prato della Casa Bianca della Dichiarazioni di Principi israelo-palestinese e con lo scambio delle lettere di mutuo riconoscimento.
Peres: Tutti i rappresentanti dell'Olp si erano auto-nominati. Dissi ai miei che non mi interessava che prendessero un caffè con loro, ma volevo qualcuno autorizzato da Arafat. Allora iniziarono i colloqui in Norvegia nel 1992 tra Abu Alaa e gli accademici israeliani Ron Pundak e Yair Hirschfeld. Dissi loro: "fate in modo che il rappresentante dell'Olp ci dia un segnale da parte di Arafat." Arafat rispose, quale segnale? Chiesi che venisse rimpiazzato il rappresentante dell'Olp - che ritenevo un estremista - nel Comitato Israelo-Palestinese per i Rifugiati, messo in piedi sulla scia della Conferenza di Madrid del 1991. Ed essi lo rimpiazzarono. Era il segnale che volevo e significò l'inizio di un serio negoziato con i palestinesi. Inoltre, Abu Alaa si rivelò la persona più seria sul fronte dell'Olp e fu abile nel presentare le cose ad Arafat, affinché egli la smettesse di dire no a tutte le nostre proposte.
In seguito, dopo che eravamo diventati amici, solevo ripetere ad Arafat: mai dire no. Il nostro rapporto faceva sì che in pubblico non discutessimo mai. Mutuo rispetto. Le dispute le lasciavamo al privato.

-Come comunicavate?

In inglese. Il suo inglese era modesto e ne era imbarazzato, anche se in privato parlava in libertà. Lasci che le racconti un episodio. Riguarda Hebron. Volevamo mantenere il controllo di una parte del centro di Hebron, la Grotta dei Patriarchi e la strada per Kiryat Arba.
Alla fine, si decise che Arafat e io ci saremmo seduti, soli, finché la cosa non si fosse risolta. Avvertii il suo grande nervosismo. Iniziò a parlare in francese, una lingua a me sconosciuta, mentre continuava a muovere un piede, cosa che faceva quando era particolarmente agitato. Lo chiamai "rais" (termine arabo per designare un capo o un presidente), lui mi chiamò "sua eccellenza". Gli dissi "rais, non possiamo raggiungere un accordo" e ritornai alla mia stanza. Il capo del Comando Centrale delle nostre forze armate, il generale Ilan Biran, allora mi disse: "E' una catastrofe". (Si riferiva al fatto che Arafat non accettasse di lasciare una piccola ma cruciale zona del centro di Hebron nelle mani degli israeliani).
Tornai da Arafat e bussai alla sua porta. Arafat: "Sta bene?" Peres: "Lei ha avuto quello che voleva, io no. Ho lasciato la sua stanza in uno stato di depressione. Lei è un generale e io non lo sono. Lei è un presidente e io non lo sono. Lei è un ingegnere e io non lo sono. Lei è un leader religioso e io non lo sono. Non c'è da stupirsi che Lei ottenga ciò che vuole e che io negozi come uno sciocco." Arafat: "Mi faccia dare un'occhiata alla mappa." E poi ci concesse ciò che volevamo. Aveva ricevuto il nostro rispetto, il nostro riconoscimento. Funzionò.
Sintetizzando il processo di Oslo, Peres afferma: "Ottenni ciò che nessun altro avrebbe avuto: modificare le loro richieste, dalla situazione del 1947 (l'anno del piano di spartizione delle Nazione Unite che assegnava a Israele il 55% dei territori dell'ex Mandato sulla Palestina) allo status quo confinario del 1967 (che vedeva Israele in controllo del 78% di quei territori). Nessun altro leader arabo avrebbe fatto simili concessioni. Basti fare un paragone con ciò che Ben-Gurion dovette accettare dall'Onu nel '47. Anche Arafat voleva la pace, almeno una parte di lui."

-
Lei crede davvero che egli accettò l'idea di uno Stato ebraico vicino a un piccolo Stato palestinese?

Sì. Egli voleva essere accettato nel mondo. Il mondo, arabi inclusi, era contro di lui. Il mondo arabo si comportò in modo sprezzante nei suoi confronti. Arafat voleva riconoscimento anche da parte di Israele, rispetto, e trovò qualcuno che glielo concesse.

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E allora perché rifiuto la proposta di Barak e Clinton nel 2000?

Non seppero negoziare con lui. In primo luogo, commisero un grave errore quando, nonostante Arafat avesse chiesto di ritardare i colloqui, lo costrinsero a iniziare la discussione. Chiese per diverse settimane di avere del tempo, ma gli venne negato. In arabo non esiste una parola che traduca con precisione il termine "compromesso". Preferiscono parlare di gesti. Di scambi di gesti. Sadat mi diceva spesso, "Shimon, sii più moderato nelle parole, fai un gesto. Ti seguirò." Devo dire, a onore di Arafat, che fu in grado di mantenere la questione palestinese in cima all'agenda internazionale per 20-30 anni, senza un esercito e senza uno Stato a sua disposizione.

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Come le sembra oggi Benjamin Netanyahu, il suo rivale nelle elezioni del 1996, rimasto poi premier per tre anni (e tornato lo scorso anno al potere, ndt)? Lo trova cambiato?

Guardi, ha delle virtù. Non ha vizi e questa è una cosa importante. E' un uomo molto intelligente; legge e riflette. Certo, gli risulta difficile liberarsi dall'eredità ideologica che si porta appresso dalla nascita, ma ha le doti per farlo.

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Non lo ha fatto nei primi tre anni di mandato (1996-99,ndt).

Non è vero. Ha firmato l'accordo di Hebron e accettato gli accordi di Oslo.

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Crede che oggi egli sia finalmente in grado di liberarsi dalla sua formazione ideologica?

Come forse Le ho già detto, i primi ministri non sono mai avulsi dalla realtà. La vita è piena di contraddizioni. Molti premier non fanno ciò che promettono. Spesso è la realtà dei fatti che guida la loro azione, non il contrario. Chi avrebbe mai immaginato che Arik (Ariel Sharon) smantellasse degli insediamenti?
Ben-Gurion mi invitò sempre a giudicare le persone dal loro operato, dal loro "record". Netanyahu è cambiato anche grazie alla mia influenza, prendendo in considerazione l'idea di una "pace economica". Le cose sono cambiate; stiamo aiutando i palestinesi a costruire e a sviluppare la loro economia. Durante il nostro primo incontro dopo la sua elezione dissi a Netanyahu: "Bibi, hai un partito senza un programma, io ho un programma senza un partito e tu potresti adottarlo - parlo di pace economica." Devo ammettere che egli accettò di portare avanti la proposta e questo ha cambiato molte cose.

-
Chiedo a Peres del carattere dell'attuale premier. E' cambiato?

Peres: Più che le persone, cambiano le circostanze. Un tempo facevo il pastore nel Kibbutz Alumot. Le zanzare infastidivano le mandrie e ogni singola mucca se ne andava in direzioni diverse. Il mio compito era riunirle e riportarle a casa. Quel compito rassomiglia alle funzioni di un leader di governo. Le zanzare sono sempre in agguato e qualcuno deve assumersi il compito di mantenere il gruppo unito davanti agli attacchi e alle difficoltà.


Relazioni internazionali

-Come si spiega la crescente delegittimazione di Israele a livello internazionale? E' d'accordo sul fatto che ciò stia avvenendo?

Le dirò il contrario: Israele è il paese più popolare al mondo ("Benny, Lei non se ne andrà di qui depresso", interviene la consulente di Peres). Per duemila anni vi è stata frizione tra il Vaticano e il mondo ebraico. Vi sono nel Pianeta 1.3 miliardi di cristiani. Giusto? Ora abbiamo relazioni eccellenti con il Vaticano. Non è una cosa di poco conto. E abbiamo anche buone relazioni con l'India, anch'essa colpita dal terrorismo islamico. Insieme fanno 3 miliardi di persone. Anche con i cinesi non abbiamo motivi di contrasto. Tutt'altro.

-
Bene. Ma perché la delegittimazione, soprattutto in Occidente?

Innanzitutto, vi è un problema con i paesi scandinavi, che vogliono sempre apparire come anime belle (con un fondo di ipocrisia) e dai quali non mi aspetto un cambio di tono e atteggiamento. Non ci comprendono. Gli svedesi non capiscono perché noi siamo in guerra. Da 150 anni non combattono. Hanno avuto a che fare con Hitler e Stalin, ma si sono mantenuti neutrali e lo stesso vale per la Svizzera. Così, costoro non capiscono perché noi siamo "per la guerra", come se noi amassimo combattere. Mi ricordano Maria Antonietta, che non capiva perché il popolo non si cucinasse le brioches in assenza di pane. La logica è la stessa.

-Il problema va oltre la Svezia e la Svizzera.

Il nostro prossimo grande problema sarà la Gran Bretagna, con i suoi milioni di elettori musulmani, i cui voti sono fondamentali per la rielezione o meno di decine di parlamentari. Inoltre, in Gran Bretagna (non parlo dell'uomo della strada, ma dell'establishment) vi è sempre stato un non so che di profondamente filo-arabo. La Gran Bretagna si astenne al momento di votare la (filo-sionista) risoluzione di spartizione dell'Onu nel 1947, nonostante avesse diffuso la Dichiarazione Balfour (decisamente sionista) nel 1917. Negli anni cinquanta Londra mantenne un severo embargo degli armamenti nei nostri confronti; i britannici firmarono un accordo per la difesa della Giordania; lavorarono sempre contro Israele.

-Ma la Gran Bretagna cambiò dopo gli anni quaranta e cinquanta. Ci sostenne nel 1967. Harold Wilson e Margaret Thatcher erano amici di Israele.

Vi è chi sostiene Israele anche oggi in Gran Bretagna (soprattutto a destra).

-Non dimentichiamoci che nel Labour è sempre esistita un'ala filo-israeliana.

Ma Clement Attlee, leader laburista e primo ministro sul finire degli anni quaranta, fu anti-israeliano e, ad ogni modo, la corrente filo-Israele di cui Lei parla è sparita, perché costoro credono che i palestinesi siano le sole vittime della situazione. Ai loro occhi, gli arabi sono le vittime. Anche se questo è irrazionale. Prenda la Striscia di Gaza. Abbiamo evacuato unilateralmente Gaza nel 2005, abbiamo allontanato 8.000 coloni ed è stato molto complicato; abbiamo mobilitato 47.000 poliziotti e soldati. Ci è costato 2.5 miliardi di compensazioni. Abbiamo lasciato completamente la Striscia. Perché per anni hanno lanciato razzi contro di noi? Perché?

-Forse perché non ci amano?

Peres: Lei lancia razzi contro tutte le persone che non ama? Per otto anni ci hanno sparato addosso e noi ci siamo astenuti dal replicare. E la Gran Bretagna non ha detto una parola in nostro favore.

-Che sia anti-semitismo?

Sì, vi è dell'anti-semitismo. A Londra si dice che un anti-semita è qualcuno che odia gli ebrei più di quanto sia necessario. D'altronde, devo dire che le relazioni con la Germania sono abbastanza buone, così come con l'Italia e la Francia.

-Esiste comunque un'erosione nella considerazione dell'opinione pubblica nei confronti di Israele - parlo delle Università, della stampa. Non mi riferisco solo ai governi.

Le dirò il perché. Sulle televisioni vi è un'asimmetria che non può essere corretta. Quello che fanno i terroristi non è mai trasmesso, viene mostrata al pubblico solo la risposta. E anche la critica: "Questo è sproporzionato." Un atto terroristico non si vede. Quando una nazione dotata di leggi combatte una nazione dove regna l'illegalità, vi è un difetto nella trasposizione mediatica degli avvenimenti. Quando una società aperta lotta contro un regime chiuso, vi è un problema nella rappresentazione dei fatti.

-Cosa pensa di possibili negoziati con Hamas?

Peres: E' come parlare con il muro. Hamas dice che non vuole discutere, che vuole distruggerci, che non vuole la pace con noi. La differenza con Fatah è essenziale, non politica. Fatah è un'organizzazione politica. La politica si basa sul negoziato e il compromesso; la religione non consente compromessi. Sin quando Hamas resterà un'organizzazione religioso-politica, io sarò profondamente pessimista.

-Rispetto alla flottiglia turca, Lei crede che Israele abbia agito correttamente?

Sì, tranne che al momento di spiegare come si sono svolti i fatti.

-Abbiamo ucciso nove turchi, loro non hanno ucciso israeliani.

C'erano sei imbarcazioni. Solo su una - nella quale ci si stava preparando per atti violenti - vi sono stati scontri. La nostra spiegazione è stata trasmessa ai media con grave ritardo. A Gaza non si soffre la fame e la zona non è sotto assedio. Se da Gaza la smettessero di bombardarci, lasceremmo aperti i punti di passaggio.

-Abbiamo impedito che entrasse persino il cardamomo a Gaza.

OK, abbiamo commesso degli errori, ma forse il più grave è stato non reagire per otto anni alle migliaia di razzi lanciati, finché la rabbia è esplosa in una singola, dura, prova di forza (l'assalto dell'esercito a Gaza nel 2008-09). Se avessimo fatto ciò che facciamo regolarmente oggi - reagire ogni volta che veniamo colpiti da un razzo - non si sarebbero verificati molti problemi. Insomma, mi sembra evidente che il nostro passato atteggiamento di moderazione sia stato erroneo.

-Israele, lo Stato ebraico, sarà ancora qui tra cent'anni?

Sì, sicuramente. Ne sono certo al 100%. Il popolo ebraico ha una nicchia nella Storia, fondata sulla preferenza per la morale rispetto a qualsiasi altra considerazione. Non sempre ci siamo comportati seguendo questo precetto, ma siamo sempre stati animati da esso. Sin dall'inizio del loro cammino, gli ebrei hanno distrutto gli idoli, hanno bandito la schiavitù.

-Dopo di che gli ebrei sono stati esiliati dalla loro terra per 2000 anni.

Ma non si sono dispersi nell'esilio. Siamo gli unici superstiti del mondo antico. Nei prossimi cento anni non ci saranno guerre. La Storia è stata scritta con inchiostro rosso. E' stata soprattutto una storia di guerre. La ragione principale all'origine della guerra era che la gente si guadagnava da vivere dalla terra. La gente voleva sia difendere la propria terra che conquistarne di nuova. Dal momento che oggi la gente può sostentarsi grazie alla scienza, l'uso della forza bruta perde significato. Un esercito non può sconfiggere la scienza. Tutti i confini possono essere oltrepassati. Ciò che stava alla base del concetto classico di guerra è scomparso. Rimarranno dei gruppi di fanatici religiosi, gruppi irrazionali, pericolosi per il mondo intero. Alla fine verranno distrutti, come atto di auto-difesa. Non ci saranno più guerre, ma esisteranno grandi rivalità. Il football sarà più importante della guerra e la scienza più importante del football. Vi sarà competizione per sviluppare le ricchezze della natura. Quale importanza ha oggi la terra?

-Il nazionalismo tuttavia esiste ancora - un vitale e instabile nazionalismo come quello nell'ex Yugoslavia - per non menzionare la religione.

Il nazionalismo non mi infastidisce. Se il nazionalismo è artistico e culturale e non militare, che problema c'è? La Yugoslavia fu una creazione artificiale. Non si possono mettere due popoli che non si amano sotto lo stesso tetto e assoggettarli a un unico dittatore.

Se
Netanyahu dovesse mai raggiungere un accordo di pace con l'Autorità Nazionale Palestinese, il che determinerebbe dolorose concessioni da parte di Israele, Peres sarebbe l'uomo giusto per "vendere" un simile accordo all'opinione pubblica israeliana, ma anche l'uomo giusto per mostrare ai leader occidentali fino a che punto Israele potrebbe spingersi con le concessioni alla controparte. Egli è più ottimista di me rispetto alle possibilità che un simile accordo possa un giorno essere siglato.


Uno Stato, due Stati

-Uno Stato bi-nazionale, un singolo Stato, può essere la soluzione al conflitto?

Quando esiste un feudo, o si separa in due parti o si stabilisce una maggioranza che domini la minoranza. Non vedo soluzione in un unico Stato. La formazione di un solo Stato costituirebbe un ricettacolo di conflitti, non una soluzione. I due popoli si combatterebbero per ogni cosa.

-Allora la soluzione dei due Stati?

La situazione odierna è nella pratica migliore di quanto lo fosse durante i negoziati diretti. A Gerusalemme, ad esempio, i due popoli coesistono.

-E' praticabile una soluzione bi-statale che preveda il nostro controllo di Gerusalemme Est - gli arabi concederanno Gerusalemme Est?

E gli ebrei la concederanno? Ci sono delle soluzioni. Consideriamo la Gerusalemme originaria, il Bacino Sacro, raccolto in un chilometro quadrato - La Città Vecchia, il Monte del Tempio. Non stiamo parlando di un territorio; è una fiamma ed è difficile dividere il fuoco, separare le fiamme. Cosa può essere fatto? Lasciamo da parte l'idea della sovranità nazionale e consideriamo la sovranità religiosa. Facciamo in modo che ogni religione sia responsabile per i propri luoghi sacri.

-Mi sembra che Arafat abbia rigettato questa ipotesi nel 2000 a Camp David. Voleva la sovranità politica.

E' una storia completamente diversa.

-Anche Abu Mazen vuole la sovranità.

Peres: nel mio accordo con re Hussein il problema venne risolto e può esserlo nuovamente. Fino al sedicesimo secolo non si è mai posto il problema della sovranità. Tutto quel che rimane fuori dal Bacino Sacro (i quartieri arabi) non è sacro.

-Ma gli ebrei hanno costruito insediamenti per impedire l'accesso a questi quartieri arabi.

La questione è risolvibile con ponti e tunnel.

-In conclusione, il problema riguarda il Bacino Sacro o i distretti circostanti?

L'intera città è il problema. Netanyahu ha detto che noi continueremo a costruire in quei luoghi dove abbiamo costruito negli ultimi 44 anni. Gli ho ricordato che esistono quartieri nei quali non abbiamo costruito per 44 anni. Esistono 21 quartieri arabi dove né Menachem Begin né Sharon hanno costruito. Per una ventina di abitazioni a Silwan vuoi fomentare una guerra? E' folle. (Peres parla dell'intenzione, recentemente annunciata dalla Municipalità di Gerusalemme, di demolire 21 case edificate illegalmente dagli arabi nel quartiere di Silwan, nel Bacino Sacro. Un annuncio che ha scatenato le proteste arabe e occidentali). La gente dice che vi è un problema di mancanza di spazio. E' un nonsenso. Il mondo si sta urbanizzando e quando vi è poco spazio gli edifici si alzano, si costruisce in verticale.

-Che dire dell'internazionalizzazione del Bacino Sacro?

Perpetuerà il conflitto, ma con il coinvolgimento di più parti.

-Non credo che funzionerà.

Questa è la differenza tra di noi. Lei scrive la Storia, a me tocca farla. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)



Benny Morris è professore di Storia all'Università Ben-Gurion e autore, più recentemente, del libro: Uno Stato, due Stati.

 

 

 

 

 







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