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EUGENIO COLORNI/3

Fra storia e filosofia

Data: 2010-11-02

Luigi Zanzi, ottobre 2010,

Riprenderò alcuni degli spunti di chi mi ha preceduto. Credo che occorra certamente smettere di concepire il federalismo come attualmente viene divulgato e sbandierato ai vari livelli, ora locali, ora nazionali e qualche volta a livello internazionale. Bisogna porsi qualche domanda secondo me molto importante, direi proprio una domanda “à la Colorni”, su come si fa a diventare federalisti, perché si diventa federalisti.
Cominciamo a chiederci perché qualcuno a un certo punto ha ideato il federalismo ed è diventato federalista? Questo è il problema di fondo ed è precisamente per rispondere a questo problema che ho scelto di mettere in evidenza Colorni tra storia e filosofia, la storia intesa, in questo mio approccio, come sua esperienza storica e la filosofia intesa come sua vocazione filosofica.
Credo che senza una vocazione filosofica “à la Colorni”, cioè con lo stesso criticismo che Colorni deriva da Kant, non si possa arrivare al federalismo. Occorre capire in maniera concreta come si diventa federalisti partendo da queste scelte filosofiche, che sono poi scelte estremamente critiche e importanti, vicine a noi e non complicate. Non richiedono una adesione a una filosofia concepita come qualcosa che bisogna sapere, come un dogma che bisogna imparare. No. E’ semplicemente l’indicazione di un itinerario di razionalità critica con cui ci si conduce giorno per giorno nelle proprie esperienze.
Siccome questa è una filosofia che si potrebbe chiamare anche di tipo socratico, io vorrei, poiché spesso si evoca Ventotene ma non si evidenzia l’ambiente filosofico di Ventotene su cui varrebbe la pena fare una lunga riflessione, riportarvi due testimonianze di grande significato concreto su che cosa voleva dire “fare i filosofi” laggiù, giorno per giorno, lavorando la terra, trasportando pesi, coltivando l’orto, spartendosi quel poco che c’era da mangiare e cercando di sopravvivere.
Allora, vi riporto brevi ma fortissime testimonianze, di grande intensità. La prima rimanda a un certo Giuseppe Paganelli, personaggio pressoché sconosciuto. Giuseppe Paganelli lo conosce bene chi è stato attento ad alcune pagine stupende di uno Spinelli ironico e divertente, quasi commediografo, che descrive Paganelli a Ventotene in una maniera straordinaria. Un uomo che ha avuto una vicenda complicatissima perché era amante di un nipote di Mussolini e riuscì a stabilire dei rapporti complicatissimi per farsi liberare dall’essere stato confinato. Ora questo Paganelli, sotto lo pseudonimo Giuseppe Aventi, pubblica da Scheiwiller nel ’75, all’insegna del Pesce d’oro, alcuni suoi ricordi intitolati “Diari di Ventotene”. Una di queste pagine è dedicata a Colorni. A me non resta che leggerla rapidamente, perché è veramente efficacissima nell’evidenziazione il contesto filosofico in cui vivevano:
“2 agosto. Non c’è dubbio, dice in mezzo a un gruppo di confinati un comunista di livello medio di quelli cioè che fanno da trasmettitori del pensiero e della parola, non c’è dubbio, sotto lo schermo della disputa per Danzica si sta preparando un accordo fra le democrazie occidentali e la Germania nazista. Tali parole giungono al nostro orecchio mentre passiamo il mio caro Eugenio Colorni ed io accanto a quel gruppo. Era un gruppo di confinati comunisti lì a Ventotene e c’era quello che diceva - non c’è dubbio, non c’è dubbio. Può darsi che sia così – mi dice Colorni – ma solo può darsi. Può darsi annuisco io, si tratta comunque di una ipotesi che ha avuto una prima verifica a Monaco. Però se si assume questa ipotesi come determinante di una politica a lungo termine, la lite odierna per Danzica col suo innegabile accanimento non si spiega. Forse c’è qualcosa di nuovo in questo 1939. Gli schermi del 1938 non bastano più, certi fatti sfuggono ad essi e certi spiriti. Certi spiriti soffiano dove vogliono anche se non sono lo Spirito Santo, mi dice Colorni; è il suo modo di sopportare pensando.”
Io trovo che questa frase sia straordinaria, è una precisa indicazione di cosa voleva dire ricorrere là in quanto confinati a pensare per riuscire a sopportare una situazione di esclusione dal mondo. Pensare per sopportare. Il pensiero viene fuori non in un contesto caratterizzato dal benessere, dopo che si è mangiato, si sta bene e non si sa cosa fare e quindi si pensa come spesso i filosofi fanno, oziando. Il pensiero a Ventotene scaturisce dal fatto che si sopporta una esclusione dal mondo. Una esclusione dal mondo che qualche volta ci pare di vivere anche oggi. Qualche volta noi soffriamo di questo in varie situazioni, anche in situazioni politiche, quando per esempio ci sentiamo di non poter aderire a, vivere in, uno sconcio mondo come quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni e dal quale talvolta ci sentiamo esclusi.
“E’ il suo modo di sopportare pensando”, riprendo Paganelli: “(Colorni) E’ ebreo, intelligente, inquieto, innamorato di sua moglie bionda, Ursula Hirschmann, che lo ha raggiunto (a Ventotene). Appassionato dalla relatività einsteiniana e dalla psicanalisi di Freud. Dopo un silenzio, se vuoi ascoltare un’altra volta la danza degli spiriti beati dell’Orfeo di Gluck – mi dice – fermati qui sotto (siamo davanti alla casa che egli abita con la moglie ma nella quale altri confinati non possono entrare), io salgo su e metto il disco. Di lì a poco odo dalla strada la Melodia di Gluck, Colorni si affaccia alla finestra con la moglie bionda ed entrambi mi sorridono. Il sole tramonta quietamente nel mare”.
Io trovo in queste righe un’evidenza straordinariamente importante di quello che era il carattere di Colorni, la spietata individuazione precisa che gli spiriti vanno dove vogliono, se Dio vuole: ecco perché si pensa, a prescindere dallo Spirito Santo. Trovo che sia una individuazione estremamente importante. Cioè l’uomo ha una capacità di muoversi col pensiero e di soffiare anche dove non soffiano le mode e le prevalenti opinioni del potere.
In secondo luogo, noto la sua presa di posizione di precisa critica di fronte al “non ho dubbi” di quel comunista, che lascia intendere che la guerra porterà comunque bene perché favorirà la futura conquista del potere da parte del proletariato, eccetera. Colorni invece dice “può darsi” ma forse non è così, “può darsi, discutiamo vediamo”. Questi sono i tratti fondamentali che in questa piccola testimonianza, delicata e simpatica, di Paganelli valeva la pena considerare e mettere in evidenza.
Ma c’è un’altra importantissima testimonianza di uguale forza che è quella di Altiero Spinelli. Hanno fatto bene i colleghi a ricordare l’importanza di Colorni, che è sfuggita poi moltissimo ai federalisti perché i federalisti non hanno capito assolutamente – questa è la mia tesi – l’approccio federalista di Colorni. Non è stato compreso il modo con cui Colorni ha pensato il federalismo, pensato in termini critici il federalismo, cioè il modo con cui egli ha fatto del federalismo non una ideologia (come purtroppo stanno facendo oggi i federalisti) ma semplicemente un punto di vista operativo per capire il mondo e per capire che cosa si possa fare per risolvere alcuni problemi. Questa è la questione di fondo.
Ora vale la pena di leggere una frase semplicissima di Spinelli: “Non credo che di alcun elemento specifico del pensiero che da allora guida la mia azione io possa dire che mi viene da Colorni, ma so per certo che il mio modo di pensare non sarebbe quello che è se non avessi avuto questi due anni di quasi quotidiano dialogo dissacrante, indagante e ricostituente con lui”.
Questa è una testimonianza straordinaria di Altiero Spinelli e quei tre aggettivi usati “dissacrante, indagante e ricostituente” sono fondamentali per capire.
Ho poco tempo e non posso dilungarmi su questo punto preciso della filosofia e della testimonianza di Spinelli a proposito di Colorni. Cominciamo col “dissacrante” che è estremamente importante.
Cosa voleva dire allora fare filosofia a Ventotene nel ’39?
Si è là. Si è esiliati per una esperienza storica precisa, l’esperienza storica del fatto che a un certo punto, se si vogliono affermare alcuni valori, ci si confronta duramente col mondo. E vi è una situazione di confino che isola dal mondo. Esclude. E che impone di pensare quale sia il rapporto tra il mondo e le proprie pretese di valore.
Si comincia di qua, la politica si ragiona in termini non ideologici se si ha un atteggiamento filosofico che consiste nel distinguere tra la filosofia come predica, come dogma professato e la filosofia come ricerca. Colorni insiste molte volte in pagine straordinarie su questo. La filosofia come ricerca ricomincia da un dialogo con se stessi nella propria esperienza quotidiana nell’individuare qual è il problema di cui si soffre.
Vi ricordo un punto. Nella sua autobiografia, compilata con grande verve, ironica e divertente dal punto di vista letterario, Colorni richiama alcune esperienze straordinarie da lui vissute con un grande poeta, Umberto Saba, e ricorda in maniera precisa una sfida che gli viene lanciata da Saba rispetto proprio alla filosofia.
Colorni aveva affermato che la filosofia era un modo per seguire una certa malattia, indagandola, sviluppandola fino al punto in cui se ne guarisce. Era un modo di guarire. In qualche modo l’eco socratica si nota, è necessario uscire da qualche cosa, ed evidentemente questo non poteva essere negato da Saba, ma ciò che il poeta metteva in questione era un altro aspetto: Come fai ad accorgerti di quando sei guarito? Come fai a capire che ne esci, che ne sei venuto fuori e che qualche cosa ti è rimasto? Hai una ricetta per venirne fuori? Un bel giorno si incontrano di nuovo e Saba di fronte a una nuova impertinente affermazione sulla filosofia come guarigione disse a Colorni. “Sei sicuro di essere sano? Poniti questo problema”. Colorni ne trasse la seguente lezione: “Da quel momento non ho più fatto filosofia in quel modo. Ho abbandonato la filosofia e ho capito che bisognava passare alla critica. La critica inizia come critica dell’esperienza, della propria capacità di fare esperienza”.
Qui viene fuori il grande epistemologo, il grande metodologo che in quegli anni a metteva a frutto una critica che aveva cominciato negli anni precedenti, molto forte, contro l’Idealismo. Aveva capito che le filosofie che arrivano a credere di poter delineare una propria fede idealistica sono da buttare, perché non hanno alcun rapporto preciso con quella che è la continua e quotidiana esperienza costruttiva di conoscenza che deve farsi mediante procedimenti controllati razionalmente. E come metodologo ed epistemologo ha avuto il coraggio straordinario, partendo da Leibniz e passando poi per Kant, di mettere in questione la “verità” intesa come possesso assoluto, che egli respinge radicalmente, a favore della “verità” come procedimento e come processo che noi possiamo controllare in termini sperimentali. Ma anche qui – qui viene direi l’apporto più importante che Colorni ha dato alla scienza fisica in particolare – il controllo dell’esperienza non va assunto a sua volta in termini dogmatici, ma bisogna sempre confrontarlo col processo in questione, col processo di cui si ha capacità di controllo. Allora ci si accorge di un fatto strano ma molto importante e cioè che gli esperimenti che noi facciamo – qui è la grandezza kuhniana di Colorni – sono precostituiti per farli riuscire secondo la scelta di ipotesi iniziale che si è fatta, quindi sono spesso tautologici. Bisogna avere il coraggio invece di andare ad esaminare le fratture laterali e marginali dell’esperienza per capire come dobbiamo cambiare proprio quelle assunzioni di partenza con cui abbiamo cercato di costruire l’esperimento.
E’ straordinaria la capacità di Colorni di applicare questo criterio perfino alla Teoria della Relatività, che egli conosceva molto bene. Nei confronti della relatività, egli ha addirittura la capacità di trasformare alcune assunzioni che ancora Einstein riferiva come accettazione di un dato inconfutabile dell’esperienza (per esempio la costanza della velocità della luce). Colorni, in maniera estremamente anticipatrice nei confronti di quella che sarà la critica successiva dei fisici, sostiene che la teoria einsteiniana stessa derivi da una convenzione, una scelta convenzionale fatta per cambiare i parametri di tempo e spazio con cui abitualmente consideriamo gli esperimenti e per suggerire – questa è la parola precisa che usa Colorni – un cambiamento categoriale che fa sì che si assuma la velocità, cioè un fatto dinamico e non una misura come tempo e spazio, come criterio cruciale per definire i rapporti di rilevazione sperimentale sullo spazio, il tempo e la velocità.
Ho voluto fare una piccola digressione, ora torno al federalismo. Davanti al federalismo il problema come si pone? Come ragioniamo noi dei rapporti politici? Se, da un lato, Colorni ragionava su Leibniz, Kant e Einstein in gioco, un altro grande personaggio aleggiava a Ventotene: Niccolò Machiavelli. Spinelli che scrive addirittura “Machiavelli nel XX Secolo” lo richiama spesso e i suoi insegnamenti riecheggiano spesso nei dibattiti degli intellettuali al confino.
Perché i politici non mettono mai in questione lo Stato? Lo Stato cos’è? Lo Stato è frutto di un confronto di poteri e gli Stati sono in lotta tra di loro, perché senza questa lotta non riuscirebbero a costituire la propria struttura di potere con cui governano le situazioni. Quindi se domani mattina qualcuno volesse agire per cambiare le situazioni nel mondo in nome dei valori che sono la giustizia e l’abolizione del privilegio, cioè tutti i valori sociali a cui non possiamo rinunciare (e Colorni era fortemente socialista in questo senso), dovrebbe fare inevitabilmente i conti con l’esistenza degli Stati, intrinseci alla struttura del mondo.
Mettiamo in questione gli Stati perché, se non capiamo qual è la situazione che sostiene gli Stati così come li conosciamo, non riusciamo assolutamente a capire come agire.
Cosa vuol dire politica estera? Politica estera significa confronto tra poteri rivali, tra Stati ovviamente. La politica estera è confronto di poteri, con la guerra o con il denaro, ma resta essenzialmente un confronto di poteri. O si cambiano gli schemi dei poteri esistenti oppure non si possono raggiungere determinati obiettivi, per quanto desiderabili. Quindi  a differenza dei comunisti, che Spinelli e Colorni chiamavano i “gesuiti pratici”, i federalisti di Ventotene sostenevano l’impossibilità di cambiare i rapporti sociali stando all’interno della lotta di potere continua tra Stati, con un rischio continuo di guerra, un minaccia di catastrofe globale. “O cambiamo la situazione di potere internazionale esistente oppure le nostre riforme non riusciremo mai  a farle”, dicevano i federalisti di Ventotene. Ecco il primato della politica estera. Per dirla à la Machiavelli, il primato del rapporto di potere internazionale in rapporto a quella che è la situazione interna degli Stati.
Per cambiare i rapporti di potere cosa si deve fare? Immediata la riposta, come un teorema matematico. Si deve fare in modo che i singoli Stati non abbiano la sovranità assoluta per andare uno contro l’altro. E allora basta uno Stato sovrano assoluto. Qui comincia la critica demolitrice, totale dal punto di vista dell’assiomatica, del ragionare sul mondo da parte di Eugenio Colorni.
Ci dite poco voi? Questa è veramente la fondazione critica di come si ragiona sullo Stato e sul federalismo. E’ qui che nasce il federalismo nelle sue due forme principali: un federalismo disgregatore, che all’interno degli Stati nazionali introduce un po’ di secessione, togliendo i poteri al centro per distribuirli verso il basso; oppure un federalismo integratore all’esterno, che implica un’unione tra Stati, sottraendo porzioni di sovranità e conferendo le situazioni che armonizzano a un nuovo centro.
Questo è il discorso di fondo sul federalismo, ma il federalismo di oggi manca completamente di pertinenza critica, manca di filosofia, manca di pensiero. Non è pensato in questi termini. Occorre tornare a ciò che Spinelli definiva “l’intelligenza iconoclasta di Colorni”. Bisogna sconfiggere il mito ideologico dello Stato nazionale, dello Stato sovrano assoluto. E’ lì che comincia la capacità di progettare un federalismo critico. Io credo che oggi dobbiamo ripartire da lì, sapendo che serve federalismo perché senza una ristrutturazione dei rapporti internazionali di potere non si può ragionare di alcuna richiesta di giustizia, di eliminazione del privilegio, di assistenza a chi è sfortunato e sofferente nel mondo.
Questa è la grande lezione di Eugenio Colorni.   






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