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L’EREDITA’ IMPOSSIBILE

Egitto: il fallimento di un modello di gestione del potere

Data: 2011-02-02

Critica Sociale, febbraio 2011,

Il mondo arabo cerca da secoli la formula per coniugare l'ordine al consenso e la prosperità al progresso. Nei settori più avanzati, si guarda persino alla democratizzazione e alla tutela dei diritti individuali e sociali. Aspirazioni di fondo sinora disattese. In questi anni il riflusso sembra evidente e lo stallo pressoché permanente, ma basterebbe ripercorrere le vicende del secolo scorso per imbattersi in un vigoroso tentativo di ripresa. Il novecento è stato caratterizzato da decenni turbolenti per il mondo arabo (e musulmano in genere), impegnato nel tentativo di risollevarsi dalla decadenza per trovare una propria via allo sviluppo. Un periodo che ha segnato la ripresa dell'elaborazione del pensiero politico all'interno del mondo islamico. I paesi arabi ne sono stati l'avanguardia.
Il primo segnale tangibile della rinascita del pensiero politico islamico si è manifestato con l'avvento dei Fratelli Musulmani, movimento fondato dall'egiziano Hasan al-Banna nel 1928. L'ideologia dell'organizzazione, tuttora vitale e influente, si richiama a una interpretazione autentica dei precetti dell'Islam, che dovrebbero essere applicati nella gestione ordinaria della vita pubblica. Secondo i Fratelli, la giustizia sociale non si ottiene soltanto con l'azione degli organi statali, ma dipende anche dalla diffusione nella società di costumi etici che soltanto l'aderenza ai precetti islamici può garantire. Da qui l'azione pratica a difesa dei poveri e dei bisognosi che ha caratterizzato l'organizzazione nei suoi primi ottant'anni di vita e che le ha permesso di diffondersi dal suo ceppo egiziano nel mondo arabo e oltre: dalla Giordania al Sudan, dallo Yemen al Kuwait, dalla Palestina alla Siria, infiltrandosi anche in Occidente. Un'azione orientata da un forte carattere filantropico e sociale e concretizzatasi nell'assistenza agli strati disagiati della popolazione, con l'istituzione di centri medici e di mense, la fondazione di istituti scolastici, non solo religiosi, ma anche tecnico-scientifici e la creazione di imprese a carattere cooperativo e mutualistico. Il tutto in base all'assunto che l'unica strada per la rinascita morale e politica dei regimi islamici fosse il recupero dei genuini valori della tradizione musulmana, calpestati dai regimi dinastici al potere nel mondo arabo dopo la Prima Guerra Mondiale.
I Fratelli Musulmani sono stati sempre in prima linea nella polemica sia contro le monarchie insediatesi durante il processo di decolonizzazione nel Mashreq (l'oriente arabo) sia con i regimi legittimistici del Golfo, anche se con l'Arabia Saudita le relazioni sono state più sfumate e collaborative. Non migliore il rapporto con i governi laicizzanti insediatisi in Egitto, Siria e Iraq tra gli anni cinquanta e sessanta del novecento. L'accusa ai governanti riguardava, e riguarda ancora, il tradimento degli interessi delle popolazioni islamiche a favore di alleanze di comodo con le potenze occidentali che, formalmente espulse dal mondo arabo con la cessazione dei mandati delle Nazioni Unite alla fine del secondo conflitto mondiale, hanno continuato a condizionare le dinamiche del Medio Oriente durante la Guerra Fredda e oltre. L'antagonismo nei confronti del potere costituito e il radicamento degli islamisti, sono rappresentati al meglio dall'azione di Hamas, il gruppo politico sorto negli anni ottanta in Palestina. A partire dalla Prima Intifada del 1987 e dopo una lunga stagione di attivismo terroristico anti-israeliano e di propaganda politica nei Territori Occupati, Hamas è riuscita ad affermarsi elettoralmente e a prendere il controllo militare della Striscia di Gaza nel 2007. Forza militare, attivismo sociale e critica intransigente ai costumi corrotti dei cosiddetti regimi arabi moderati (oggi Egitto e Arabia Saudita in primis), si uniscono alla vicinanza tattica a quei governi e gruppi che puntano a sovvertire gli equilibri in Medio Oriente in senso anti-occidentale: Iran, Siria ed Hezbollah. Come si nota, il ruolo dei Fratelli Musulmani e la loro politica di alleanze e attiguità sono oggi al cuore delle dinamiche mediorientali. Il che lascia il mondo occidentale nella scomoda posizione di dover fiancheggiare per interesse regimi chiusi e autoritari, che limitano le libertà dei propri cittadini e che con il loro immobilismo generano tensioni sociali interne suscettibili di alimentare l'instabilità in una regione cruciale per gli equilibri mondiali.
E così il mondo arabo del ventunesimo secolo sopravvive a sé stesso, ancorato al residuo ruolo che ancora ricopre negli affari globali grazie alle risorse energetiche e dubbioso su un futuro che sembra non arrivare mai. Mentre gli ambienti radicali mediorientali si rafforzano e si compattano in nome di una retorica anti-occidentale ed espansionista, i cosiddetti moderati continuano a reprimere il dissenso interno e a disinteressarsi di garantire un minimo di opportunità a giovani senza lavoro e prospettive. Mentre Europa e Stati Uniti lodano i lenti e impercettibili progressi verso la democrazia di egiziani e sauditi, rimane consistente la popolarità dei Fratelli Musulmani tra i giovani del Cairo e quella di Osama Bin Laden tra gli annoiati ragazzi di Riyad. Per quanto tempo ancora la cappa di autoritarismo soft che soffoca il Golfo, il Maghreb e il Mashreq garantirà la stabilità nell'area? E' questo l'esito a cui pensavano i riformatori arabi che sottrassero il potere ai monarchi alla fine della Seconda Guerra Mondiale?

Le speranze tradite

Il 12 ottobre 1970, due settimane dopo la morte di Gamal Abdel Nasser, la prestigiosa rivista americana Time notava: "Nei circoli arabi vi è una ricerca disperata di colui che ne incarni la volontà di riscossa...Quel ruolo mistico non ha ancora trovato il suo eroe;  forse mai lo troverà...Nasser è stato l'uomo che più si è avvicinato a ricoprire compiutamente la posizione che fu del Saladino nel dodicesimo secolo." Nasser, il giovane e determinato ufficiale dell'esercito in grado di annichilire la corrotta monarchia che negli anni cinquanta governava l'Egitto, è riuscito a ergersi a leader incontrastato del paese simbolo del mondo arabo. Ha governato per quasi un ventennio, promesso una visione di prosperità ai suoi connazionali e di rinnovata unione per l'intero, prostrato, mondo arabo. Tuttavia, al momento della sua morte quella promessa originaria già appariva alterata e disillusa, nonostante l'incredibile popolarità mantenuta dal suo indebolito profeta.
Nasser è stato l'uomo della grande riforma agraria, della redistribuzione delle terre e della ripresa dell'orgoglio egiziano e arabo. Negli anni cinquanta e sessanta la sua influenza e il suo prestigio si sono mantenuti enormi nel Medio Oriente, nei Paesi in via di sviluppo e nei circoli terzomondisti dell'Occidente. Senza dimenticare la sponda sovietica alla sua azione. La sua profonda spiritualità gli permetteva di opporsi con estrema durezza alle posizioni integraliste dei Fratelli Musulmani, di stroncarne le velleità politiche. Egli avrebbe potuto essere il traghettatore dell'Islam nella contemporaneità. Le suggestioni del panarabismo socialista (la vagheggiata e indefinita unione dei popoli arabi) da lui abbracciate e diffuse parevano costituire la sintesi ideale per preparare il terreno a un armonioso ingresso del mondo arabo nella globalizzazione. Nulla di tutto questo, purtroppo.
Sul piano interno, l'impegno del raìs (il capo) sul fronte dell'alfabetizzazione e della giustizia sociale sono dei fatti, ma lo sono anche la crescita di un ceto parassitario di burocrati e la sclerotizzazione di un sistema economico soffocato dall'eccessivo peso dello Stato. Nasser ha lasciato un paese fiero ma ferito, cosciente del suo ruolo internazionale ma imbrigliato dai suoi squilibri interni. Tuttavia, il senso di incompiutezza che aleggia intorno alla figura mitica di Nasser ancora oggi, a quarant'anni dalla sua morte, riguarda soprattutto la dimensione internazionale della sua attività. Lì le sue promesse furono più entusiasmanti, le attese suscitate più grandi, il crollo delle speranze più bruciante.
Salito al potere spinto dal vento di un rinnovamento palingenetico, abbracciò il terzomondismo anti-colonialista. Nell'entusiastica nuova alba del mondo che si liberava dagli incubi delle guerre totalitarie, sembrava possibile che i giovani paesi dell'Africa, dell'Asia e delle Americhe potessero trovare la propria via alla modernità senza condizionamenti esterni e forti di un'innocenza che derivava loro da secoli di oppressione. Non è stato così. Il veleno della Guerra Fredda si è insinuato ovunque nel mondo e in Medio Oriente, determinando una polarizzazione estrema che ancor oggi fa sentire i suoi strascichi nelle dinamiche e nei conflitti irrisolti dell'area. Nasser, in una prima fase, si è dimostrato un abile manovratore, in grado di manipolare i dissidi tra le vecchie potenze (Francia e Gran Bretagna) e le nuove superpotenze (Usa e Urss), come nella fortunata impresa della nazionalizzazione del Canale di Suez nel 1956. Nel volgere di pochi anni ha perso il controllo, diventando schiavo del ruolo di liberatore degli arabi da Israele (e dagli Stati Uniti) che si era cucito addosso. A poco gli sarebbe valsa l'amicizia, tutt'altro che disinteressata, dell'Unione Sovietica.
Nasser, insomma, dopo averle utilizzate con profitto, è finito stritolato nelle dinamiche che avevano investito il mondo arabo. Un sistema attraversato da una nuova tensione ideale e progettuale, che si sarebbe presto canalizzata verso lo sganciamento dalle declinanti medie potenze (Gran Bretagna e Francia) che avevano dominato l'area e il tentativo, più proclamato che effettivo, di giungere all'unità araba. L'estensione al Medio Oriente della competizione bipolare non ha fatto altro che complicare la trama dei rapporti all'interno del sotto-sistema internazionale ivi in formazione. In Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Siria e Yemen si andavano allora sviluppando movimenti di opposizione ai regimi di governo. L'obiettivo della sovversione dell'ordine interno e della conseguente ridefinizione dei rapporti con la realtà esterna in diversi casi fu raggiunto.
In Egitto, nel 1952, presero il potere i c.d. Ufficiali Liberi. all'interno dei quali emerse rapidamente Nasser, che avrebbe egemonizzato con la sua personalità carismatica il mondo arabo per più di un decennio. Nel 1954 il partito Baath si impose come forza di governo in Siria, mentre nel 1958 una rivolta nazionalista eliminò e si sostituì alla monarchia irachena. Con ogni probabilità, Libano e Giordania avrebbero seguito la stessa sorte senza gli interventi preventivi di Stati Uniti e Gran Bretagna. A partire dalla crisi di Suez del ‘56 il nuovo presidente egiziano, forte del sostegno sovietico, aveva intanto dato vita a un intenso programma di sovversione, infiltrazione armata e pressione psicologica teso a estendere l'influenza dell'Egitto e dell'ideologia nazionalista e panarabista in tutta la regione. La stessa Arabia Saudita, roccaforte del tradizionalismo, fu sottoposta alle pressioni del Nasserismo, sia al proprio interno che a livello internazionale, impegnandosi a partire dal 1962 in una lunga guerra per procura nel confinante Stato yemenita. Riyad appoggiava militarmente le forze legittimiste legate all'imam che era stato spodestato da un colpo di stato repubblicano appoggiato dall'Egitto.
La Dottrina Eisenhower del 1957 segnò un'accelerazione, esprimendo la volontà degli Stati Uniti di assistere ogni paese o gruppo di paesi mediorientali nello sviluppo delle proprie capacità economiche onde preservarne l'indipendenza nazionale. A tal fine, l'esecutivo Usa richiedeva l'anticipata autorizzazione del Congresso per ogni programma di aiuti militari a favore di  ciascun paese della zona che lo avesse richiesto e di qualsiasi intervento degli Stati Uniti contro un'eventuale aggressione da parte di paesi legati al blocco comunista. Dietro il provvedimento si celava l'ombra di Nasser.
Solo l'esito della Guerra dei Sei Giorni del 1967 e gli sviluppi diplomatici successivi al conflitto dello Yom Kippur (1973) avrebbero decretato l'egemonia americana e dei suoi principali alleati nella regione: Israele, Iran e Arabia Saudita. Se Teheran era desinato a ribaltare la sua politica delle alleanze dopo la Rivoluzione Islamica del 1979 e Israele a riconfermare negli anni la sua special relationship con gli Usa, interessate è la parabola saudita. Negli anni sessanta, la monarchia guidata dall'abile re Faysal aveva opposto alle velleità nazionaliste e panarabiste il richiamo alle radici culturali e religiose delle popolazioni. Dopo la delusione seguita alla sconfitta militare di Nasser e dei valori laici di matrice occidentale - Nazionalismo e Socialismo - che in qualche modo egli incarnava e che solo pochi anni prima sembravano sul punto di affermarsi nella regione, il tradizionalismo saudita ritornava in auge. All'inizio degli anni settanta la monarchia di Riyad si era arricchita grazie all'aumento delle rendite petrolifere, rimaneva custode delle città sacre dell'Islam (Medina e La Mecca) e si impegnava al fianco dei palestinesi nella lotta contro Israele (i sauditi, al pari degli altri Stati arabi non hanno esitato a manipolare con una certa dose di cinismo la questione palestinese al fine di perseguire i propri obiettivi strategici e propagandistici). Riyad poteva così coltivare legittimamente l'ambizione di assurgere al ruolo di faro politico-spirituale dell'umma, la comunità musulmana, ormai liberata dalle "tossine" secolari.
Gli avvenimenti successivi alla Guerra del Kippur confermavano l'indebolimento della posizione sovietica nella regione e il ridimensionamento delle ambizioni dell'Egitto. Il successore di Nasser, Anwar Sadat, inaugurò una svolta moderata, attenuando le misure restrittive decise dal raìs  per controllare il dissenso e l'attività dei media e dando corpo alla politica dell'inifitah, una strategia di riavvicinamento ai paesi occidentali intesa a incoraggiare gli investimenti esteri nel Paese. Una virata che avrebbe condotto, nel 1979, al trattato di pace con Israele e all'inserimento dell'Egitto nell'orbita americana. In Medio Oriente si apriva una nuova fase.
Se negli anni sessanta il fallimento di Nasser aveva colpito soltanto (per quanto duramente) l'immaginario arabo, oggi, in prospettiva storica, il crollo del presidente egiziano acquisisce un significato più complesso e duraturo. L'Egitto nasseriano non è riuscito a riunificare il mondo arabo, non è stato in grado di "liberare" il Medio Oriente da Israele, non ha saputo mantenersi libero dai condizionamenti della Guerra Fredda. Con gli occhi dell'osservatore di allora: bene per il mondo occidentale, male per il blocco comunista. Oggi, valutando in maniera disincantata quegli avvenimenti, è possibile avanzare l'ipotesi che il fallimento strategico, politico e culturale di Nasser abbia vanificato una grande opportunità di convergenza tra Islam e contemporaneità e di piena comprensione tra mondo arabo e Occidente. Se l'Egitto di oggi fosse veramente uno Stato laico (sebbene saldamente ancorato alle sue tradizioni islamiche), risulterebbe più semplice immaginare una coesa comunità mediterranea di Stati europei, africani e mediorientali, unita non solo da interessi economici e strategici ma anche da valori e principi. Non un auspicio all'occidentalizzazione del Medio Oriente, bensì al rinnovamento del sincretismo culturale che per millenni ha rappresentato la ricchezza, la vitalità e la centralità del bacino mediterraneo. Se le progettualità originarie del Nasserismo non fossero state tradite nella prassi e avessero davvero contagiato i paesi della sponda sud del Mare Nostrum, operazioni ambiziose ma sinora poco concrete, come il Processo di Barcellona lanciato dall'Unione Europea e l'Unione per il Mediterraneo promossa dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, poggerebbero su basi più solide e condivise.

Il bilancio

La fine dell'epoca di Nasser ci ha lasciato in eredità un'estrema polarizzazione; da una parte, regimi legittimistici caratterizzati da autoritarismo tradizionalista e repressivo, dall'altra Stati radicali e anti-occidentali pronti a sponsorizzare i network del terrorismo internazionale, bracci armati di una guerra asimmetrica regionale e globale. E' chiaro che addebitare tutto ciò al raìs sarebbe un'esagerazione, un sovrastimare le sue forze, minimizzando le responsabilità di altri attori e la potenza di determinate dinamiche strategiche ed economiche. Ciò non toglie che se Nasser fosse riuscito a realizzare quanto proclamava, ossia la diffusione di un progressismo che potremmo arrivare a definire secolare in tutto il mondo arabo, forse la storia sarebbe cambiata. Tuttavia, il progetto originario è stato presto accantonato in nome dell'urgenza di porsi alla guida della crociata anti-sionista, terminata con una cocente sconfitta e viziata all'origine da un'irrealistica valutazione delle forze in campo. L'ossessione israeliana e la contemporanea volontà di conquistare l'egemonia regionale hanno distolto il leader egiziano dalla promettente opera riformatrice intrapresa. Un'impresa molto complicata, che avrebbe richiesto pazienza, fantasia e tenacia. Un lavoro da sviluppare su tempi lunghi, coinvolgendo più generazioni, che è stato invece appena abbozzato alla stregua di una superficiale applicazione cosmetica.
La ricetta politica di Nasser proponeva un abile mix di Nazionalismo e Socialismo: il primo avrebbe dovuto depotenziare sia la divisione settaria tra sunniti e sciiti sia il dissidio tra l'Islam e le altre confessioni religiose; il secondo avrebbe dovuto attirare e entusiasmare (come per breve tempo in effetti è accaduto) gli strati sociali più disagiati e le élite colte e avanzate, la nuova classe dirigente illuminata. Come riconosce Renzo Guolo, sociologo e profondo conoscitore della cultura islamica, il nazionalismo arabo, sbocciato negli anni cinquanta e fiorito negli anni sessanta, è stato funzionale alla mobilitazione contro il dominio coloniale, ma molto meno efficace nel forgiare delle vere comunità nazionali. Nonostante i tentativi dei nuovi governi di eliminare le forze sociali, religiose e politiche alternative (si ricordi la spietata repressione di Nasser nei confronti dei Fratelli Musulmani), il nazionalismo non ha attecchito ma è rimasto legato a una breve stagione, glorificata ma passeggera.
Presto gli alfieri più o meno convinti del panarabismo hanno dovuto prendere atto di quanto fosse risultato superficiale il loro tentativo di cambiare le società islamiche. Il riferimento all'umma, alla comunità dei credenti, è rimasto il pilastro inscalfibile dell'identità musulmana. Le sconfitte inflitte da Israele, il fallimento della Repubblica Araba Unita (l'unione di Egitto e Siria) e la resilienza dei regimi tradizionalisti legati all'Occidente hanno indotto Nasser e i suoi emuli al ripiegamento, alla valutazione pragmatica di ciò che fosse realizzabile nelle condizioni date. Per mantenere il consenso, le élite nazionalistiche hanno pertanto deciso di rinunciare all'opzione democratica per arroccarsi nelle certezze garantite dall'autoritarismo. Il vantaggio è stato mantenere il potere, ma al prezzo di assomigliare sempre più alle vituperate dinastie che, dal Golfo Persico alla Giordania, hanno mantenuto saldo il bastone del comando su sudditi che stentato tuttora a diventare cittadini.
Mentre l'Egitto post nasseriano si avviava a decenni di democrazia solo formale, cadenzati da elezioni farsa e dall'emarginazione delle sempre più forti opposizioni, altri regimi che si richiamavano al sogno panarabista trovavano la loro legittimazione nelle reti di solidarietà tradizionale. I clan legati agli Assad in Siria o a Saddam Hussein in Iraq hanno finito per rappresentare l'esempio tipico dell'uso privatistico dello Stato come risorsa patrimoniale e come garanzia di stabilità, nota Guolo.
La rinascita dell'islamismo politico negli anni settanta ha messo definitivamente sulla difensiva sia le monarchie ereditarie sia i regimi pseudo-nazionalisti, anch'essi ormai assimilabili alle prime per quanto concerne la repressione delle opposizioni e le modalità di trasmissione del potere. Ancora una volta l'esempio degli Assad è calzante.
Ogni riferimento a un'apertura democratica o al progressismo è ormai trascurabile e strumentale e, se si osservano i residuati dell'afflato panarabista in Medio Oriente (l'ingessato Egitto di Mubarak, la filo-iraniana Siria di Assad e la pragmatica e teatrale Libia di Gheddafi), appare in tutta la sua evidenza lo scarto tra le aspirazioni iniziali e il risultato finale. Il sogno nasseriano forse è stato un bluff ed è probabile che le aperture laiche e para-democratiche del leader egiziano fossero in parte strumentali alla costruzione di una base popolare al suo progetto egemonico regionale. E' bene infatti sgomberare il campo da equivoci: come nota il Professor Alberto Ponsi, docente di Storia Moderna all'Università di Firenze, anche negli anni cinquanta e sessanta il regime egiziano è stata una dittatura personale. Qualcuno ha parlato di "democrazia guidata" ed effettivamente vi fu un'ampia partecipazione popolare alla vita politica, ma rigidamente controllata dall'alto da un potere attento a colpire le forme più pericolose di dissenso. La dura lotta ai Fratelli Musulmani lo testimonia. Tuttavia, il popolo egiziano ha creduto a Nasser fino alla fine, accettando e glorificando la sua guida. Ancora oggi il suo nome è rispettato, la sua memoria idealizzata. Egli ha saputo infondere nelle masse arabe la convinzione che un futuro migliore si andasse preparando per loro, poiché l'indipendenza e il senso di fiducia nei propri mezzi di cui godeva l'Egitto degli anni cinquanta apparivano mete che ogni altro Paese della regione poteva desiderare per sé .
Sicuramente, la sua è stata l'ultima figura carismatica in grado di farsi portavoce del mondo arabo-islamico, non tanto perché egli rappresentasse un fronte compatto di governi pronti a seguirlo e ad accettarne la leadership, ma per la semplice constatazione della sua autorevolezza e della sua popolarità anche oltre i confini dell'Egitto. Il fallimento del suo progetto, probabilmente troppo ambizioso e affrettato, ha lasciato sul tavolo una serie di problematiche tuttora irrisolte, dalle relazioni di Israele con i suoi vicini al dramma palestinese, dai rapporti tra Islam, modernità e democrazia all'insorgere del fondamentalismo su scala globale. A quarant'anni dalla sua morte e a venti dalla fine del sistema mondiale in cui aveva operato, le suggestioni proposte da Nasser appaiono sempre  più lontane e irrealistiche, mentre le contraddizioni che lacerano e immobilizzano il mondo arabo rimangono di drammatica attualità. (Fabio Lucchini)







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