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DA MAO A DENG, L’ASCESA CINESE NEL MONDO

Incontro con Fernando Mezzetti

Data: 2011-07-18

Mao. Raffinato stratega, uomo pre-moderno

Incontriamo Fernando Mezzetti nel centro di Milano, in una elegante sala antica messa a disposizione dalla Casa Editrice Ares. Corrispondente da Pechino (1980-83) e da Mosca (1983-87) per “Il Giornale” e inviato a Tokyo per “La Stampa”, Mezzetti è un testimone privilegiato dell’evoluzione della politica interna ed estera della Cina contemporanea. Accedere per un paio d’ore al suo prezioso bagaglio di informazioni è l’occasione per ripercorrere gli avvenimenti e conoscere meglio i personaggi che hanno segnato l’evoluzione politica del grande paese asiatico dopo la proclamazione della Repubblica Popolare nel 1949. Da bravo cronista, Mezzetti non si limita citare e analizzare i fatti più rilevanti, ma rivela episodi poco conosciuti, e solo in apparenza secondari, che aiutano a comprendere il funzionamento del sistema di potere cinese e che evidenziano l’abilità con cui alcune personalità preminenti (Mao Zedong e Deng Xiaoping) sono state in grado di muoversi e dominare quello stesso sistema.
“Partiamo da Mao”, esordisce Mezzetti. Gli aspetti meno noti della personalità del Grande Timoniere possono contribuire a fare luce sullo stile politico e sulle scelte strategiche dello statista cinese. “Consiglio la lettura de La vita privata del presidente Mao di Zhisui Li, medico personale del leader cinese.” Nel volume, il dottore, tornato in Cina dopo essersi formato in Occidente, ha messo in evidenza l’estrema ambivalenza dell’illustre paziente, il quale, benché celebrasse pubblicamente i pregi della medicina tradizionale ricorreva ben volentieri agli ultimi ritrovati della “farmaceutica imperialista”. Inoltre, mentre predicava la castità al servizio del popolo, egli coltivava avidamente i suoi vizi privati. “Non si tratta di fare la morale a chicchessia”, precisa Mezzetti, “ma dal libro di Zhisui emerge la figura di un uomo pre-moderno, di un cinese profondamente immerso nella cultura imperiale”.
Andando a ritroso nella biografia di Mao, scopriamo il suo passato da piccolo proprietario terriero trasferitosi a Pechino per trovare lavoro nel settore impiegatizio. I suoi studi furono irregolari e poco gratificanti e questo spiegherebbe, secondo alcuni commentatori, il suo astio nei confronti degli intellettuali. Il che suona ironico se si pensa alle suggestioni che quest’uomo ha esercitato sul pensiero di molti occidentali, più o meno colti. “A proposito di mistificazioni e travisamenti, ritengo che Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow sia il più clamoroso bluff della storia giornalistica.” Il cronista americano seguì i primordi della Rivoluzione cinese, entusiasmandosi troppo e condizionando con la sua prosa un’intera generazione di lettori statunitensi ed europei, abbagliati da una rappresentazione distorta della Cina maoista. “Snow capiva poco di politica. Nel 1970 Mao anticipò al cronista la sua volontà di incontrare il presidente Usa, Richard Nixon, ma Snow diede poco peso a quella notizia eccezionale ricevuta in anteprima. Credo pertanto sia utile ritornare al ben più realistico volume di Zhisui, che cerca di restituire le atmosfere misteriose dei palazzi del potere di Pechino.”
Un altro episodio significativo risale al 1965, quando il presidente cinese ricevette lo scrittore e politico francese, André Malraux. Era piuttosto anziano ma tutt’altro che finito (dì lì a poco avrebbe scatenato la Rivoluzione culturale contro la nomenclatura comunista a lui ostile, ndr), ma si presentò all’ospite come un vecchio debole e stanco, preoccupato solo del suo posto nella Storia e non interessato alle vicende terrene e agli intrighi di potere. Mao recitava una parte, dato che era in piena lotta con quelle componenti del Partito comunista cinese che avevano deciso di metterlo da parte. “Una tecnica comunicativa particolarmente subdola: si passava un’informazione a un giornale o a un ospite straniero nella certezza che sarebbe poi giunta all’orecchio dei rivali all’interno dei circoli del Partito.” Nell’esempio citato, Mao, strumentalizzando Malraux, lanciava messaggi di debolezza ai suoi avversari inducendoli ad esporsi contro di lui per poi colpirli.
In Mao, la sottigliezza politica conviveva con l’aberrazione di una quotidianità immersa nei vizi, nell’ozio e nella lettura delle vicende storiche dell’antica Cina. Pur intuendo istintivamente i meccanismi reconditi della politica e della diplomazia, il Grande Timoniere non sapeva alcunché del mondo esterno.  A ciò si aggiungeva uno stato di dissociazione mentale del resto tipica dell’intero universo dei regimi totalitari, comunisti e non. “E pensare che, aldilà del passeggero folklore italiano degli anni settanta, il culto di Mao ha avuto vasta risonanza in un paese evoluto come la Francia. Molti di coloro che in Occidente hanno ammirato il maoismo dimenticano che il Grande Timoniere non ha fatto altro che trattare la Cina alla stregua di una proprietà personale, ricorrendo a una violenza senza pari nei confronti del suo popolo che, è vero, lo amava ma soprattutto ne aveva timore.”

Pechino e Mosca. Più odio che amore

Gli accordi siglati a Yalta nel febbraio 1945 impegnavano l’Unione Sovietica a entrare in guerra contro il Giappone subito dopo la sconfitta nazista in Europa. Come contropartita, Mosca avrebbe rimesso le mani sui territori che le erano stati strappati dall’Impero nipponico durante la guerra del 1904-05. Così avvenne, con reciproca soddisfazione dei sovietici e degli alleati euro-atlantici, ma non della Cina, originariamente sovrana sui territori oggetto dell’accordo. La Cina, assente a Yalta, non poté far altro che incassare il colpo, ma non si rassegnò e cominciò a coltivare un forte risentimento nei confronti dell’ingombrante vicino euro-asiatico.
Nel dicembre del 1949, poche settimane dopo la nascita della Repubblica Popolare, Mao si recò a Mosca per rivendicare il possesso di quelle terre, ma ottenne un secco rifiuto da parte di Stalin. Dopo la morte del dittatore georgiano, Kruscev inaugurò la stagione della coesistenza pacifica con gli Stati Uniti, che Mao interpretò come un tentativo di marginalizzare la Cina. A complicare le cose il voltafaccia dei sovietici, che, dopo aver promesso assistenza tecnica ai cinesi, si rifiutarono di aiutare la Repubblica Popolare ad acquisire l’atomica. “E’ probabile che la spregiudicatezza di Mao, che si dichiarava pronto a sacrificare milioni di cinesi sull’altare di un conflitto nucleare, abbia sconcertato il pragmatico Kruscev”, chiosa Mezzetti.  
Nel 1959 Mao attaccò ufficialmente la linea kruscioviana del compromesso con l’Occidente. Secondo il leader cinese, il capitalismo era una tigre di carta che doveva essere affrontata e abbattuta senza possibilità di dialogo e mediazione. La condanna dei crimini di Stalin da parte del Cremlino rappresentò agli occhi di Pechino la prova definitiva dell’inaffidabilità sovietica. La figura di Kruscev contribuì senz’altro ad accentuare il distacco tra i due paesi. In quello stesso 1959, di ritorno dal suo storico viaggio negli Stati Uniti, il leader sovietico decise di mantenere la neutralità rispetto al conflitto nel frattempo sorto tra Cina e India. Il giorno della caduta di Kruscev, nel 1964, il governo cinese “festeggiò” facendo esplodere la sua prima bomba atomica. Nonostante il cambio della guardia al Cremlino, anche gli anni successivi furono segnati da tensioni e recriminazioni, culminate negli scontri di confine sul fiume Ussuri (1969).
Il perspicace Henry Kissinger, fiutando rischi e opportunità, comprese che i tempi erano maturi per un riavvicinamento tra Washington e Pechino in funziona anti-sovietica. Nel 1971 il diplomatico statunitense si recò segretamente in Cina per preparare il terreno alla clamorosa visita di Nixon dell’anno successivo, che segnò un repentino avvicinamento tra due paesi che non intrattenevano relazioni diplomatiche. L’America, indebolita del disastro vietnamita, inferse un colpo durissimo all’Urss legittimando a livello internazionale il governo della Cina continentale. Già nell’ottobre ‘71 il disgelo tra Washington e Pechino aveva contribuito alla logica assegnazione alla Repubblica Popolare del seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in precedenza detenuto dalla filo-americana Taiwan.

Deng e Tienanmen. Una rivisitazione

Dopo il Grande Timoniere, tocca all’altra grande figura del comunismo cinese. Dal 1978 in poi, Deng Xiaoping guidò la demaoizzazione del Paese e l’armonizzazione delle sue rigide strutture politiche con le prerogative dell’economia di mercato. Le riforme economiche di Deng rischiarono di naufragare nella tragedia di Piazza Tienanmen (giugno 1989). Gli studenti cinesi si ribellarono senza avere una chiara direzione. Volevano il cambiamento, ma non perseguivano obiettivi realistici. L’ala conservatrice del Partito colse l’occasione per mettere sotto scacco Deng, accusato di aver concesso troppe aperture e di aver così incoraggiato gli studenti alla ribellione. Secondo i vecchi del Partito, la Cina era sull’orlo di una nuova Rivoluzione culturale. Ironia della sorte, Deng era stato tra le vittime principali delle violenze orchestrate da Mao a partire dal 1966. Deng agì con durezza per salvare le sue riforme, sostenendo che la sua repressione non era intesa a bloccare il processo in atto. Anzi, secondo il leader cinese, era stata proprio l’eccessiva cautela con cui la stagione riformatrice si andava sviluppando a determinare la crisi di Tienanmen.
Ricorda Mezzetti: “Per due anni la Cina visse nell’isolamento internazionale, mentre la sua eminenza grigia doveva difendersi dagli attacchi interni. Mentre il comunismo sovietico andava in pezzi, Deng tuttavia resisteva, convinto che la fine delle sue riforme avrebbe accomunato la Cina al triste destino dell’Urss. Da abile tattico, nel 1991 abbandonò Pechino per riparare a Sud, nelle aree più beneficiate dalle sue riforme economiche. Il suo attendismo e la capacità di evitare che il conflitto uscisse dalle stanze del potere evitarono lo scontro frontale con i conservatori del Partito e mantennero la Cina sul binario delle riforme che l’hanno trasformata in pochi anni in una grande potenza. Un merito che pochi gli riconoscono.”

Roma-Pechino. La strada è ancora lunga

In cinese Papa significa “Imperatore di Roma”. E’ così che viene considerato il Vaticano in Cina: un governo straniero con cui trattare evitando accuratamente che si intrometta negli affari interni. Lo stesso Matteo Ricci, il celebre missionario cattolico attivo nella Cina del sedicesimo secolo, operò a corte e non certo tra il popolo. Il governo cinese ha sempre fatto sì che il Cristianesimo rimanesse un movimento di élite e che non intaccasse in alcun modo i valori culturali autoctoni. Gli anni di Mao furono caratterizzati da una notevole chiusura, mentre nel 1978 venne riaperta la prima chiesa cinese, voluta proprio da Ricci. Negli anni ottanta la figura carismatica di Giovanni Paolo II suscitò un certo interesse in Cina. Una timida apertura confermata all’inizio del decennio successivo. “Negli anni novanta mi è capitato di partecipare a funzioni religiose nelle chiese cinesi dove si pregava facendo esplicito riferimento al Papa.” Padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia News e personalità ben nota alle autorità di Pechino ha potuto insegnare per anni in Cina, senza subire condizionamenti.
Le criticità rimangono tuttavia sul terreno. La Chiesa patriottica di Pechino continua a non riconoscere l’autorità papale nella nomina dei vescovi. Per qualche anno, è sembrata regnare una certa armonia forse favorita da un accordo sottaciuto tra la Cina e la Santa Sede, ma alcune recenti nomine vescovili di Pechino hanno riacceso la disputa. Nella migliore tradizione cinese, una civiltà abituata a ragionare in termini millenari, la strada della completa pacificazione con il Vaticano è ancora lunga. (A cura di Fabio Lucchini)






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