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NAPOLITANO-BERLINGUER (E SCALFARI)

Il libro di Paolo Franchi

Data: 2013-04-03

Ugo Finetti

“La regia scalfariana delle vicende politiche della sinistra non aiuta certo la ricerca di convergenze”: così, un “fedelissimo” di Enrico Berlinguer come Luciano Barca, commenta la pubblicazione dell’intervista del segretario del PCI su “Repubblica” del 2 agosto 1978. In effetti Eugenio Scalfari svolse un’influenza non secondaria sull’”ultimo Berlinguer”. In una lettera del 1996 - proprio a Luciano Barca - il fondatore di “Repubblica” ricorda con una certa commozione: “L’incontro con lui (con Berlinguer, ndr) è stato uno dei più fecondi che io abbia avuto, e quando dico con lui dico con tutto un gruppo che con lui ha operato per la trasformazione senza perdere di vista la radice ma puntando su nuovi fiori e nuovi frutti”. E aggiunge: “Ho cercato dal canto mio di contribuire da fuori a questa operazione, forse tra le più importanti alle quali – a mio modo – abbia partecipato”.

“Questa operazione” di “trasformazione” è soprattutto la politica condotta da Berlinguer dal momento in cui abbandonando la maggioranza di “solidarietà nazionale” ripropone la “diversità” comunista, non più in nome del leninismo (centralismo democratico e internazionalismo proletario) ma della “questione morale”. E’ appunto il periodo in cui cresce il contrasto tra Napolitano e Berlinguer.

Quando nel gennaio 1984 Giorgio Napolitano si trovò nuovamente in contrasto con Enrico Berlinguer, Giorgio Ruffolo scrisse su “Repubblica” un articolo intitolato “Il caso Napolitano”. Di che si trattava? Giorgio Napolitano era già entrato in polemica con Berlinguer nell’estate 1981 dopo l’intervista del segretario del PCI del 28 luglio sulla “questione morale” ed era stato “processato” nella Direzione del 10 settembre e quindi estromesso dalla segreteria nazionale e destinato a dirigere il gruppo parlamentare a Montecitorio. Come capogruppo comunista alla Camera, tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984, Giorgio Napolitano aveva nuovamente suscitato il dissenso del segretario del PCI in relazione al modo di contrastare alla Camera l’azione del governo guidato dal segretario del PSI.

Napolitano anziché boicottare il dibattito sulla finanziaria e provocare l’esercizio provvisorio aveva – con l’appoggio (ed anche la pressione) di Nilde Jotti presidente comunista della Camera – concordato il calendario dei lavori ottenendo in cambio maggiori risorse per gli enti locali e un incremento del fondo investimenti. Berlinguer lo avrebbe definito un “increscioso episodio”. Contro Napolitano erano allora insorti Renato Zangheri e Alfredo Reichlin della segreteria nazionale. Napolitano reagì spiegando le sue ragioni in un articolo sull’”Unità” del 4 gennaio intitolato “Il ruolo dei comunisti oggi in Parlamento”. In esso Napolitano aveva polemicamente giustificato un “confronto non settario … che può portare risultati positivi”.

“La Repubblica”, titolò in prima pagina: “Napolitano attacca la linea Berlinguer”. Giorgio Napolitano dovette quindi scrivere immediatamente, il 6 gennaio, un secondo articolo (“Ancora sulla nostra opposizione”) per respingere “il pettegolezzo”. Ufficialmente la Direzione del PCI negò contrasti. Sull’Unità però in quei giorni compaiono non solo lettere a favore e contro il presidente dei deputati, ma persino una vignetta di Staino che ritrae “Molotov” che attende minaccioso l’arrivo di Napolitano alla Festa invernale dell’Unità. Secondo Alberto Jacoviello  (“Napolitano, il laico”, La Repubblica 12 gennaio 1984) il malumore del segretario del PCI si riversava non solo su Napolitano, ma anche sul comportamento di Nilde Jotti e del leader della CGIL Luciano Lama.

Giorgio Ruffolo era quindi intervenuto il 18 gennaio come esponente della sinistra socialista a sostegno della posizione assunta dal capogruppo comunista alla Camera. Entrando più nel merito, Ruffolo vedeva nella politica di attacco frontale alla presidenza socialista la riduzione dell’alternativa da parte di Berlinguer ad una dimensione sostanzialmente “escatologica” e solo futuribile, mentre con Napolitano, nella linea di “un’opposizione che – scriveva Ruffolo - voglia diventare domani governo con i socialisti”, vi era la ricerca di un’alternativa “politica”. Vi era tra Napolitano e Berlinguer una sostanziale divergenza.

La tensione del gennaio 1984 infatti crebbe nelle settimane successive in relazione al dibattito parlamentare sul decreto sulla scala mobile fino a cristallizzarsi, subito dopo l’approvazione definitiva del decreto, tanto che il capogruppo comunista alla Camera il 22 maggio invia una lettera (scritta a mano “per evitare qualsiasi indiscrezione”) a tutti i membri della segreteria nazionale come promemoria per una futura discussione, dopo che Berlinguer aveva annunciato il proposito di voler giungere a un definitivo chiarimento interno dopo le elezioni europee. Nella lettera Napolitano dichiarava la propria disponibilità a dimettersi da capogruppo e di essere pronto ad abbandonare l’impegno “in prima fila”. “Berlinguer – ha detto Natta rievocando nel 1992 quel dissidio – aveva l’impressione, l’opinione di essere stato non aiutato, di essere un po’ tradito”. E nel malcontento di Berlinguer per un insufficiente sostegno nello scontro con Craxi, secondo Alessandro Natta (all’epoca " presidente della Commissione centrale di controllo" della segreteria nazionale del PCI), c’era anche la Jotti “perché Berlinguer avrebbe voluto che la Presidente della Camera fosse d’accordo con noi”.

Il contrasto tra l’arroccamento di Berlinguer e la tessitura di rapporti di Napolitano rispecchia una dialettica di “lungo corso” in seno al PCI.

In Berlinguer, cresciuto all’ombra di Togliatti all’interno delle Botteghe Oscure, vi è il primato della tradizione  “centrista”: “Non so – volle puntualizzare Berlinguer nel Comitato Centrale del novembre 1979 in polemica con la “destra” di Giorgio Amendola - che cosa sarebbe avvenuto, da trentacinque anni a questa parte, se il nostro partito non avesse avuto sempre a dirigerlo un ‘centro’. Essere il ‘centro’ – affermava Berlinguer - non significa essere equidistanti, … significa, di volta in volta, combattere contro quegli scarti, quelle incoerenze rispetto alla linea del partito, che si manifestano, e che si rivelano, ora in un senso ora in un altro più pericolose: non dimenticando che la tendenza più pericolosa è quasi sempre quella contro cui si cessa di lottare”. Sono parole che molto chiaramente dipingono come Berlinguer dirigesse il PCI e cioè secondo una logica di stato di lotta permanente contro “tendenze pericolose”.

Diversa era la militanza di Giorgio Napolitano, cresciuto sulla scia di Giorgio Amendola, nella realtà campana come segretario di federazione, consigliere comunale e parlamentare (sin dal ’53) secondo due direttrici: rapporti unitari con gli altri partiti e analisi della situazione economica. Con tutti i suoi limiti, contraddizioni ed errori la storia “di destra” nel PCI di Napolitano non può non suscitare rispetto e simpatia per due ragioni: il livello culturale e l’indiscutibile coerenza politica.

Si deve a Paolo Franchi una seria ricostruzione di questo itinerario che intreccia la storia del Partito comunista con quella della vita nazionale, dall’immediato dopoguerra a oggi, con il suo “Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale” (Rizzoli, 425 pagine, 18 euro)”. Paolo Franchi gran parte di queste vicende le aveva seguite, soprattutto negli anni dell’”ultimo Berlinguer” e poi dell’”ultimo PCI” per il “Corriere della Sera”, scrutando e rendendo intellegibile la dialettica interna delle Botteghe Oscure. Oggi la sua ricostruzione consente di seguire la coerenza di un impegno politico rivolto a vincere le posizioni antioccidentali e antieuropeiste presenti nel PCI e, più in generale, nell’ambito della sinistra italiana. Un’azione che Paolo Franchi mette in rilievo nel quadro, da un lato, di una capacità di confronto con le altre forze politiche e, dall’altro, di una crescita comunista nelle relazioni istituzionali. Vediamo quindi come il ruolo di Napolitano nel PCI si è esercitato in particolare nella definizione della politica economica e di quella internazionale.

A Napolitano si rimprovera però mancanza di coraggio, di non aver dato battaglia aperta. In verità di scontri aperti – in particolare con Berlinguer all’apice della sua popolarità e padronanza del partito – non ne sono mancati pagando il prezzo anche di “processi” e retrocessioni.

La questione di fondo – modo e spazio politico per le posizioni “di destra” sotto Berlinguer - non è quella personale circa l’aver avuto sufficiente “coraggio” oppure no, ma riguarda le ragioni per cui le posizioni “riformiste-miglioriste” nel PCI non sono state “popolari”.

Il traguardo di dichiarare il PCI “parte integrante della sinistra europea” fu raggiunto (solo) nel Congresso di Firenze del 1986 grazie ad una azione di vertice. Perché proclamarsi “parte integrante della sinistra europea” non fu raggiunto “a furore di popolo”? L’intervento che in quell’assise riscosse la più grande ovazione fu quello di Pietro Ingrao quando scandì il rifiuto della “de-berlinguerizzazione”. La “sinistra europea” nell’interpretazione di Ingrao erano “i movimenti” (pacifisti, ecologisti e femministi, ecc,) e non i partiti dell’Internazionale socialista. Così come sempre in quel periodo della segreteria Natta – tra Berlinguer e Occhetto – Giorgio Napolitano riuscì ad introdurre nella Direzione del PCI – per la prima volta – il tema del debito pubblico. Non senza registrare crisi di rigetto.

Il “caso” Napolitano è il “caso” Italia nel senso che è da chiedersi come mai nel popolo di tradizione comunista e poi di identità postcomunista (la maggioranza della sinistra italiana) l’alternativa “escatologica” ha scaldato gli animi e ha trascinato consensi mentre l’alternativa “politica” è risultata sostanzialmente minoritaria ed “impopolare”.

Infatti la storia dei congressi del PCI dal XV del 1979 con Berlinguer fino all’ultimo, il XX, del 1991 con Occhetto è quella di una sistematica contestazione e ridimensionamento delle posizioni “di destra” e del timore di perdere il consenso di quelle “di sinistra”.

Prima di parlare di “regime” e di “manipolazione” nell’elettorato italiano si dovrebbe guardare con occhio più critico alla “mancanza di coraggio” che vi è stata nella sinistra italiana nei confronti di posizioni irrealistiche ed estremiste. Non è una questione di casi personali. Nella storia del comunismo e del postcomunismo bisogna anche tener presente la “mancanza di coraggio” (come lamentava Giorgio Amendola) non solo della “classe politica”, ma anche della cosiddetta “società civile” di sinistra. 







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