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Janiki Cingoli, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, 3 marzo 2009,

Il debutto di Hillary Clinton in Medio Oriente, nella sua qualità di Segretario di Stato USA, in occasione della Conferenza internazionale di Sharm el-Sheikh dedicata alla ricostruzione di Gaza, si è sviluppato su un doppio registro.

Per un verso, ella aveva già nei giorni scorsi riconfermato con nettezza la scelta del suo Governo a favore della opzione “Due stati, due popoli”, malgrado le resistenze espresse a questo riguardo dal premier israeliano incaricato, Benjamin Netanyahu, che aveva rifiutato questa formulazione nei colloqui con la leader di Kadima, Tzipi Livni, spingendola all'opposizione. Il leader del Likud ha successivamente concesso un'intervista al Washington Post, adottando una posizione più ambigua: «I palestinesi – ha affermato – dovrebbero avere la possibilità di governare le loro vite senza minacciare le nostre».

La Clinton ha altresì voluto sottolineare l'aspetto umano del problema, ricordando che cosa «anni di conflitto regionale abbiano significato per i palestinesi e per gli altri», con una certo non casuale sottolineatura del dramma palestinese. Ha quindi colto l'occasione per riaffermare con nettezza l'opzione statunitense a favore di una rapida conclusione del negoziato, e ha inoltre riconfermato l'impegno a favorire «una pace più complessiva tra Israele e i suoi vicini arabi»: un indiretto accenno al piano di pace arabo del 2002.

Non casuale, quindi, il colloquio avvenuto su iniziativa della stessa Clinton con il ministro degli esteri siriano, Walid Moallem, ai margini della conferenza, definito dalla stesso ministro «breve, ma molto soddisfacente». Sull'altro versante, tuttavia, il capo della diplomazia staunitense ha voluto marcare i confini nei confronti di Hamas, sottolineando come nei confronti del movimento islamico restino integre le tre condizioni poste dal Quartetto (Usa, Russia, Unione Europea e Onu) con la richiesta di riconoscere Israele, di rinunciare alla violenza e di accettare gli accordi precedentemente firmati dall'Olp.

Questo richiamo segna un passo indietro rispetto agli ultimi pronunciamenti, ivi inclusa la risoluzione 1860 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che esprimeva appoggio ai tentativi egiziani di favorire una riconciliazione interpalestinese, senza fare alcun accenno alle tre condizioni. La posizione più dura assunta dagli Stati Uniti ha avuto un'immediata ripercussione sul presidente palestinese Abu Mazen, il quale ha sostenuto che ogni governo di unità nazionale palestinese dovrà riconoscere Israele e rispettare le tre condizioni, generando l'aspra reazione di Hamas che lo ha accusato di pregiudicare le intese raggiunte al Cairo il 26 febbraio.

Al centro del contendere vi è anche il controllo dei miliardi di dollari che la Conferenza di Sharm el-Sheikh dovrebbe mettere a disposizione delle sempre esauste casse palestinesi: rispetto ai previsti 2,7 miliardi, ne sarebbero stati sottoscritti 5,2 di cui una parte destinata alla ricostruzione di Gaza e l'altra per alimentare le entrate dell'Anp in Cisgiordania. A questi vanno sommati i 7,7 miliardi in tre anni, già precedentemente stanziati alla Conferenza di Parigi. In realtà, in Egitto, parallelamente a questa conferenza dei donor, sono in corso tre negoziati, strettamente intrecciati: quello tra Fatah e Hamas, e quelli tra Israele e Hamas per la tregua e l'apertura dei valichi di frontiera, e per la liberazione del soldato israeliano Shalit in cambio di un alto numero di prigionieri palestinesi, tra cui dovrebbe essere incluso il leader della seconda intifada, Marwan Barghouti. Dall'esito di questi negoziati dipenderà il bilancio delle forze nell'area: ma già da oggi si può affermare che nel confronto tra Fatah e Hamas l'organizzazione islamica si presenta come il competitor più forte e con maggior respiro, che ha le maggiori chance di vincere le prossime elezioni palestinesi, sia presidenziali sia legislative, che dovrebbero essere indette dopo il raggiungimento di un accordo.

Quanto alle trattative con Israele, che parevano essere arrivate vicino a soluzione, Olmert ha improvvisamente indurito le sue offerte, condizionando l'accordo per la tregua al rilascio di Shalit, con un pericoloso gioco del cerino nei confronti del suo successore designato, Netanyahu. Le frontiere di Gaza restano quindi sigillate, e le condizioni di vita della popolazione palestinese restano precarie ed esposte alla volubilità dei controllori israeliani, che nei giorni scorsi sono giunti a sequestrare dei TIR di pasta e lenticchie, come merce pericolosa: tra gli alimenti ammessi vi era solo il riso.
Israele può contare ancora sull'ostilità dei maggiori stati arabi verso i tentativi di penetrazione iraniana nell'area, ma nel medio periodo, se dovesse essere confermata una posizione di chiusura del prossimo governo israeliano, è da prevedere che le tendenze ad un ricompattamento del mondo arabo, e tra le stesse fazioni palestinesi, finiranno per rivelarsi prevalenti, in una logica di arroccamento reciproco contrastante con le dichiarazioni di principio a favore della pace reiterate anche in questi giorni.

 

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