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Ettore Greco, Istituto Affari Internazionali, 19 marzo 2009,

Per uscire dall'impasse l'Europa ha bisogno di più democrazia. Non dei referendum nazionali cari agli euroscettici, quasi sempre pesantemente condizionati da problematiche politiche estranee a quelle europee ed esposti alle più varie ventate populistiche. Né delle asfittiche e ingannevoli contese fra partiti nazionali in cui si risolvono per lo più, ancora oggi, le elezioni per il Parlamento Europeo (PE) nei singoli Stati membri. Bensì di un'autentica democrazia rappresentativa su scala continentale che tragga la sua linfa vitale da robusti partiti transnazionali e da un uso pieno e incisivo dei poteri del PE. Sta qui il nocciolo politico dell'Appello lanciato dallo IAI insieme ad altri quattro centri studio europei – il Centro Studi per il Federalismo, The Federal Trust, l'Institut für Europäische Politik e Notre Europe - e sottoscritto da eminenti personalità della politica europea – Carlo Azeglio Ciampi, Jerzy Buzek, Jean-Luc Dehaene, Jacques Delors, Paavo Tapio Lipponen, Màrio Soares, Peter Sutherland e Guy Verhofstadt - in vista delle elezioni del PE del prossimo giugno. L'appello, redatto da Tommaso Padoa-Schioppa, scaturisce da uno studio dei cinque istituti su “Democracy in the EU and the Role of the European Parliament” di recente pubblicato nella collana dei Quaderni IAI.

Uno spazio pubblico europeo
Che negli ultimi anni sia cresciuto il distacco tra cittadini e istituzioni europee non c'è più chi lo neghi. Ed è questo anche il punto di partenza dello studio dei cinque istituti: al progressivo ampliamento delle competenze dell'Unione non ha fatto riscontro un parallelo rafforzamento degli strumenti di controllo e di partecipazione democratica. Ma come colmare questo divario, che è una delle ragioni principali dello stallo del processo di riforma dell'Ue?
Non manca chi s'immagina di poter risolvere il problema riducendo la sfera d'azione dell'Unione, ritrasferendo agli Stati alcune delle sue competenze. Va ricordato però che di questa prospettiva si discusse ampiamente alla Convenzione Europea sei anni fa: le proposte volte a rinazionalizzare alcune politiche raccolsero un consenso estremamente limitato. E anche dai sondaggi non risulta che è quello che vogliono i cittadini europei. Che anzi chiedono che in certi settori, come l'immigrazione, l'energia e la politica estera, l'Ue rafforzi la sua capacità di azione. E se c'è una lezione che si può ricavare dalla grave crisi economica in corso è che, quando sono in gioco vitali interessi comuni e si rischia che vadano perdute alcune conquiste non solo economiche, ma anche sociali e civili che si davano per definitivamente acquisite, è di cruciale importanza che si disponga di strumenti efficaci di azione collettiva. Se poi, al di là della crisi attuale, si guarda alle grandi sfide globali, dai cambiamenti climatici ai problemi energetici fino alle nuove minacce alla sicurezza, l'esigenza di più forti e coerenti politiche comuni europee emerge con non minore nettezza.
La risposta al cosiddetto deficit democratico non può dunque risiedere in ripiegamenti nazionalistici, nel ritorno a sempre più impotenti sovranità nazionali. Sta invece – è questa una delle tesi centrali dello studio – in un progressivo ampliamento e strutturazione dello spazio pubblico paneuropeo, condizione essenziale per costruire una genuina democrazia rappresentativa su scala continentale.
Non che le istituzioni europee non abbiano tentato, specie negli ultimi anni, di stimolare un dibattito pubblico su scala europea anche attraverso nuove strategie di comunicazione: uno sforzo apprezzabile, che ha dato anche qualche risultato. Ma che rischia di apparire un po' donchisciottesco di fronte all'entità della sfida. Sì perché a tirare dall'altra parte sono forze formidabili, a partire dai vari attori nazionali interessati a fare dell'UE, non appena gliene si presenti l'occasione, il capro espiatorio delle loro difficoltà e fallimenti.
Servono dunque strumenti più forti e incisivi, che siano davvero in grado di aprire spazi crescenti di dibattito pubblico sulle questioni europee.

L'anello mancante della democrazia europea

Secondo lo studio dei cinque istituti, questi strumenti non possono che essere i partiti politici europei, che oggi sono invece attori del tutto marginali sulla scena politica del continente. Sono loro, i partiti politici transnazionali, il principale anello mancante della democrazia europea.
Solo attraverso l'azione di solide formazioni politiche europee, è la tesi dello studio, sarà possibile riavvicinare i cittadini alle istituzioni. È proprio questa infatti una – forse la principale – funzione dei partiti: fare da ponte, mediare tra cittadini e istituzioni.
Si tratta innanzitutto di rafforzare la base legale dei partiti politici europei. Alcuni passi avanti in questa direzione sono stati fatti negli ultimi anni, ma sono chiaramente insufficienti. Servirebbe, si sottolinea nello studio, conferire ai partiti transnazionali una personalità giuridica europea, il che gli permetterebbe, fra l'altro, di agire in modo diretto nelle campagne elettorali per il rinnovo del PE.
È una prospettiva che piace poco non solo ai governi, ma agli stessi dirigenti dei partiti nazionali, poiché ne rimetterebbe in discussione le posizioni acquisite. Non c'è da stupirsene: se si sviluppasse un sistema sovranazionale di legittimazione politica, anche le leadership a livello nazionale sarebbero sottoposte a nuove forme di verifica. Tuttavia, in Italia come altrove, alcuni politici e gruppi si sono mostrati più consapevoli di altri dell'importanza di ampliare gli spazi di azione politica a livello europeo. La partita è dunque aperta e iniziative come quella dell'appello dei cinque istituti possono in realtà trovare un'eco non trascurabile in vari ambienti politici.

Far pesare il voto dei cittadini
Ma intanto, come fare delle elezioni europee un appuntamento di cui i cittadini avvertano l'importanza per la concreta definizione e attuazione delle politiche dell'Unione?
Nello studio si avanzano varie proposte, ma una in particolare, se attuata, potrebbe avere effetti di ampia portata: che i partiti politici o le coalizioni transnazionali nominino propri candidati per la presidenza della Commissione Europea, sottoponendoli al giudizio dei cittadini durante le elezioni per il rinnovo del PE. È una proposta non solo perfettamente attuabile a trattati vigenti, ma in linea con quanto questi ultimi stabiliscono. Il PE ha infatti potere di veto sulla nomina del presidente della Commissione (e del collegio dei commissari nel suo complesso). Con il Trattato di Lisbona, poi, il ruolo del PE nella procedura di nomina del presidente della Commissione verrebbe ulteriormente rafforzato e i Capi di Stato e di Governo dovrebbero “tener conto delle elezioni europee” quando scelgono i candidati da sottoporre al PE.
Lo studio dei cinque istituti propone per l'appunto di far leva su questo legame potenziale tra le elezioni europee e la scelta del presidente della Commissione, individuandovi uno degli strumenti fondamentali per dare maggiore peso politico al voto dei cittadini. Che potrebbe così avere un impatto diretto sulla nomina di una delle figure istituzionali chiave dell'Ue. Mentre oggi una delle ragioni che, agli occhi dei cittadini, rendono le elezioni europee di secondo ordine rispetto a quelle nazionali, è proprio il fatto che l'elettore non ha chiaro quali effetti politici ne derivino. Nelle elezioni nazionali la competizione fra i candidati alla guida del governo è di solito non meno importante di quella fra i partiti. È così anche in Italia da quindici anni. Peraltro, la stessa prassi può essere citata a sostegno di questa proposta: nelle ultime elezioni europee il PPE mise in chiaro che se fosse risultato il gruppo più forte nel PE, avrebbe rivendicato per uno dei suoi leader la presidenza della Commissione, come poi accaduto con la nomina di Barroso.

Giocare a carte scoperte

Va da sé che se si consolidasse la prassi in base alla quale i partiti politici o le coalizioni europee nominano ogni cinque anni il loro candidato alla presidenza della Commissione, questo costituirebbe di per sé uno stimolo potente al loro sviluppo e ne faciliterebbe la coesione. A livello istituzionale si rafforzerebbe il legame fiduciario tra il PE e la Commissione e, in generale, la dimensione comunitaria rispetto a quella intergovernativa.
Ma i giochi non sono già fatti? Sembra infatti che dietro le quinte i governi, o almeno alcuni di essi, si siano già accordati sul rinnovo del mandato a Barroso. Ma intanto, dare per scontato il sostegno del PE a qualsivoglia accordo intergovernativo, visti i precedenti, è una bella scommessa. E forse mai come quest'anno le elezioni europee sembrano aperte ai più diversi esiti. In tempi di crisi gli spostamenti possono anche essere molto ampi. Anche l'accordo su Barroso peraltro è tutt'altro che ferreo, se è vero che qualche giorno fa il presidente francese Sarkozy ne ha preso apertamente le distanze. Non sarebbe a questo punto più logico e onesto giocare a carte scoperte?

Creare un circuito virtuoso
Ma che succede se nessun partito o coalizione europea ottiene una chiara maggioranza? Non per questo la competizione fra i candidati sarebbe inutile. Si guardi al caso tedesco: nelle ultime elezioni nessuno dei due maggiori partiti ha prevalso sull'altro, ma il Parlamento ha comunque scelto come cancelliere un candidato su cui gli elettori avevano potuto esprimersi.
Ma la Commissione non rischierebbe così di “politicizzarsi”? In realtà, come si è visto, è lo stesso Trattato di Lisbona che spinge in questa direzione. Ma in concreto la Commissione, assumendo un profilo più politico, non potrebbe perdere parte del suo potere, quello che le deriva dalla sua natura “tecnica”? Anche ammesso che si possa fare una così netta distinzione tra funzione tecnica e politica della Commissione, la realtà è che il ruolo della Commissione sta da tempo subendo una progressiva erosione. Un legame più forte con il PE potrebbe semmai contribuire a invertire questo processo.
In definitiva, sta qui il punto di forza dello studio dei cinque istituti: quello di prefigurare un circuito virtuoso che, a partire da una trasformazione in senso più europeo delle elezioni del PE, dia più forza alle istituzioni dell'Unione e, ciò che più conta, alla loro capacità di realizzare politiche nell'interesse dei cittadini.


 Ettore Greco è direttore dell'Istituto Affari Internazionali

 

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