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John  Judis, Foreign Policy, maggio/giugno 2009,

Nel 1995 un prestigioso think tank di Washington organizzò un dibattito tra studiosi ed intellettuali sul tema: “Marxismo: Vivo o morto?”  Tutti i partecipanti  ne decretarono la dipartita, con una sola voce dissenziente, che rischiò la derisione, sostenendo che “nonostante le tragedie provocate in passato dal comunismo sovietico, l'eredità del pensiero marxista avrebbe condizionato gli uomini politici anche nel XXI secolo”.

“Quella voce  era la mia”, ricorda John Judis, ex sostenitore della sinistra radicale, direttore della rivista The New Republic ed attuale collaboratore del Carnegie Endowment for International Peace. La sua posizione, oggi come quindici anni fa, è chiara. Egli conferma la sua disillusione rispetto alla concreta applicazione dell'ideologia comunista nell'est europeo e in Asia, ma ribadisce la sua convinzione che l'apparato marxista conservi una sua ragion d'essere nelle società post-moderne di oggi. Infatti, tracce di marxismo si ritrovano nelle posizioni di quegli economisti un tempo liberisti che, scottati dalla crisi globale in corso, raccomandano all'amministrazione Obama di nazionalizzare le banche o in quanti oggi lodano, dopo averlo bistrattato per decenni, il modello social-democratico scandinavo.

Recentemente l'illustre e seguito periodico americano Newsweek ha dedicato la sua copertina ad un annuncio shock: “Ora siamo tutti socialisti.” Che per gli americani quasi equivale ad essere comunisti. Al di là delle questioni lessicali, una questione merita di essere posta: Il Socialismo può tornar utile per risolvere i guasti provocati dalla attuale recessione?

Innanzitutto occorre fare chiarezza, sostiene Judis. “Non prendiamo ad esempio gli esperimenti fallimentari sovietico e cubano, che poco hanno a che fare con il Socialismo.  Consideriamo invece la Scandinavia, l'Austria, il Belgio, il Canada, la Francia, la Germania e i Paesi Bassi, dove si è affermato, democraticamente, un Socialismo liberale molto più efficace e concreto, oltre che meno ideologico”. Da queste esperienze vi è molto da imparare per l'America. Sino agli anni novanta del secolo scorso, i Paesi dell'Europa occidentale si sono affidati ad un modello misto capitalista-socialista, per poi lasciarsi brevemente sedurre dalla vulgata liberista che ha dominato la fase di passaggio al III Millennio. Con l'incombere della crisi i sistemi misti dell'Europa occidentale hanno cominciato a riavvicinarsi alle suggestioni del Socialismo liberale che li avevano ispirati nel secondo dopoguerra. In Gran Bretagna, Gordon Brown si è attivato per la nazionalizzazione delle banche in difficoltà, in Francia, Nicolas Sarkozy ha posto dei  limiti all'autoregolazione dei mercati, dimostratasi inefficiente. Ovunque, nel Vecchio Continente lo Stato sta facendo sentire la sua voce negli affari economici e finanziari e le opinioni pubbliche approvano.

L'America seguirà l'esempio? La situazione a Washington è diversa. Da quelle parti l'interventismo statale viene spesso associato al Socialismo nella sua versione più deleteria ed oppressiva, quella che ha dato origine all'esperienza sovietica. In situazioni di normalità esiste nel Paese una tale opposizione culturale allo statalismo, che l'ultima arma utilizzata da John McCain contro Obama in campagna elettorale è stata l'accusa al rivale di voler trasformare l'America in un “Paese Socialista”.  Tuttavia, in tempi di crisi le cose cambiano e gli americani degli anni trenta non si opposero al New Deal rooseveltiano, considerato l'unica ancora di salvezza davanti al fallimento del settore privato che mise in ginocchio gli Stati Uniti. Oggi, la situazione pare assimilabile allo scenario post 1929. Non ci resta che aspettare. Ben difficilmente l'America si convertirà al Socialismo nei prossimi anni, ma è probabile che inserirà nel suo sistema elementi riconducibili ad un maggiore interventismo statale nell'economia.  Ciò considerato, pare facilmente confutabile la frettolosa tesi che considera morte e sepolte le teorie collegate al Marxismo.
 

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