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George Friedman, Stratfor.com, 24 giugno 2009,

E' davvero scoraggiante la documentata analisi di George Friedman, collaboratore del think tank statunitense Stratfor: inutile illudersi, a Teheran non è in atto una rivoluzione. Infatti, argomenta Friedman, quanto sta avvenendo in Iran  non è assimilabile a ciò che accadde contro lo Shah nel 1979 o in Romania contro Ceausescu, ma piuttosto a quanto si verificò in piazza Tienanmen vent'anni or sono. Come allora, i pur numerosi manifestanti non stanno raccogliendo sufficienti consensi nel corpo sociale e rischiano l'isolamento e quindi la sanguinosa sconfitta.

I media occidentali non l'hanno compreso e stanno veicolando un'informazione distorta e parziale. Purtroppo, per quanto fanatico ed inefficiente possa apparire, Ahmadinejad gode di un ampio consenso nel Paese e la stragrande maggioranza della popolazione sta rimanendo inerte davanti alla coraggiosa protesta dei giovani ed istruiti dissidenti. E c'è di più, probabilmente la stessa maggioranza silenziosa ha realmente confermato il proprio sostegno al discusso presidente uscente lo scorso 12 giugno. Mousavi ha pubblicato un circostanziato elenco di irregolarità che proverebbero i brogli ai suoi danni, ma molte delle prove addotte dagli oppositori non appaiono definitive per concludere che l'esito del voto si stato sostanzialmente alterato. Irregolarità ed intimidazioni non sono mancate, ma non tali trasformare il 65% reclamato dal leader riformatore nel 33% effettivamente ottenuto. E' un dato di fatto che il bieco populismo di Ahmadinejad e la sua abilità comunicativa riscuotano ancora un grande successo tra le masse più disagiate della popolazione, che costituiscono un preziosissimo bacino elettorale. Di conseguenza, Ahmadinejad potrebbe avere effettivamente vinto le elezioni e, cosa forse più importante, la società iraniana non parrebbe affatto compatta nel contestarlo. Questo ovviamente non giustifica i crimini compiuti in questi giorni dalle forze militari e dalle squadracce para-militari del regime ai danni degli oppositori. Atrocità tali da inficiare irrimediabilmente e definitivamente ogni legittimità etica e democratica accampata del regime degli ayatollah.

Quella in corso non è dunque una rivoluzione, continua Friedman, ma piuttosto una lotta interna alle elite al potere, che potrebbero al più manovrare e strumentalizzare il dissenso nelle piazze. Una lotta che coinvolge due fazioni, entrambe, a parole, sostenitrici della purezza originaria dei valori religiosi, culturali e politici del khomeinismo. Da una parte il clero, che ha egemonizzato il potere sin dal 1979 e che si riconosce ancora nella Guida Suprema Alì Khamenei, dall'altra i seguaci di Ahmadinejad, che hanno occupato negli anni gli apparati di sicurezza e che si ritengono i più genuini seguaci degli insegnamenti di Ruollah Khomeini. In mezzo ai due fuochi, si muovono i riformisti che oggi si battono nelle strade per una svolta liberale del regime. Essi si riconoscono in Mousavi e possono contare sul sostegno di un'altra figura centrale del mondo politico iraniano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Entrambi sono convinti della necessità di  sostituire un leader pericoloso ed oltranzista con Ahmadinejad, nocivo sia per la reputazione internazionale del Paese che per il suo equilibrio istituzionale, e di riformare un sistema che rischia la definitiva involuzione autoritaria.

Khamenei ha preferito schierarsi tatticamente con Ahmadinejad in attesa della resa dei conti con il presidente in carica. Uno scenario inquietante che, lungi dal prefigurare una svolta liberale in Iran, sembra anticipare un redde rationem tra due visioni ugualmente retrive ed oltranziste dell'islamismo sciita.
 

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