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Gigliola Sacerdoti Mariani

“Il futuro alle spalle”
Margaret Fuller attraversò l'Atlantico nell'agosto 1846 - all'età di trentasei anni - e divenne europea. Avrebbe dovuto compiere quel viaggio nel 1835, in compagnia di Harriet Martineau, ma la morte del padre alla vigilia della partenza glielo aveva impedito. Se avesse realizzato quel primo progetto, non avrebbe incontrato Mazzini a Londra. Il fato aveva rinviato l'impatto diretto, non libresco, di Margaret con una cultura che l'avrebbe portata a scelte fondamentali e l'avrebbe indirizzata verso precisi impegni ideologici e politici.
Prima di accingersi alla traversata - insieme agli amici Spring, i coniugi Rebecca e Marcus con il giovane figlio Eddie - Fuller aveva preso accordi con Horace Greeley, l'ardente seguace di Fourier, proprietario della New York Daily Tribune: al giornale - con il quale lei già collaborava con articoli su tematiche di carattere sociale, artistico e letterario - avrebbe inviato dei reportages dall'Europa, in forma di ‘lettere'. Senza esserne consapevole, sarebbe diventata la prima donna americana corrispondente dall'estero e la prima donna corrispondente di guerra, nel breve periodo della Repubblica romana.
Alle spalle aveva il trascendentalismo - alla Emerson, per intendersi – che esortava alla fiducia in se stessi. Dominava in lei, dunque, un atteggiamento ottimistico, nel senso che contava sul potere del pensiero, della volontà, dell'ispirazione, della percezione intuitiva; contava sulla cultura del singolo, credeva nella capacità degli esseri umani di cambiare il mondo e quindi credeva alla possibilità delle riforme sociali. Aveva una concezione organica vitale, non meccanicistica dell'universo: apparteneva, pertanto, a quello che Emerson avrebbe definito il “partito del futuro”, formato dai “partigiani della speranza”.
Per le sue esperienze americane - come quella di essere stata, nel periodo 1840-42, editor della rivista ufficiale del trascendentalismo, The Dial, che aveva fondato insieme a Emerson - e per ciò che aveva pubblicato prima del suo viaggio in Europa, aveva già una sua collocazione in diversi settori: il giornalismo, la storia, la traduzione, la critica letteraria, la teoria del femminismo.
L'opera di lei più nota, Woman in the Nineteenth Century, del 1845, che era l'elaborazione di un articolo pubblicato, con altro titolo, su The Dial nel 1843, l'aveva già resa famosa in Europa, anche per quanto aveva sostenuto - con grande scandalo, e largo anticipo sui tempi - che non esiste “un uomo interamente maschile né una donna puramente femminile”. E per costruirsi un'immagine dei due elementi, il femminile e il maschile, presenti nella donna, Fuller aveva fatto ricorso a figure mitologiche, affiancando Minerva - dea guerriera scaturita dalla mente del padre Giove, che impersonava la saggezza - alla Musa che rappresentava la componente femminile, ovvero “the unimpeded clearness of the intuitive powers”.
Aveva cercato, in tal modo, di conciliare emozione e ragione, intuizione e cultura, sul piano teorico – conciliazione che avrebbe messo in pratica nella sua scrittura.
Di straordinaria cultura lo era davvero – a giudicare dalle sue ‘corrispondenze' pubbliche e private - e sicuramente molto ambiziosa sul piano intellettuale; si trattava di un'ambizione che le faceva intravedere un futuro personale rivolto alla sfera storica, politica e sociale, più che di tipo letterario. Pensiero e azione in lei andavano di pari passo, come in Mazzini. Basti solo prendere in considerazione le risposte epistolari che dava ad amici, come Emerson, che la invitavano a rientrare negli Stati Uniti, dopo la lunga permanenza nell'Europa in fermento, e le riflessioni che andava facendo sulla New York Daily Tribune, di fronte agli avvenimenti romani del 1848-49.
Ne riporto alcune, una di seguito all'altra – senza un ordine cronologico, ma tutte scritte dall'Italia - perché ci consentono di cogliere la misura della fede che riponeva nel ruolo che il fato sembrava averle assegnato:
“Quanto qui vedo è degno di essere ricordato e se non posso offrire un aiuto attivo in quest'opera, sarei felice d'essere almeno storiografa di questo momento”.
“Sono profondamente interessata a questo dramma pubblico e desidero vederlo rappresentato. Spero di avervi la mia parte o come attore o come storico”.
“Se tornassi adesso mi parrebbe d'esser costretta a lasciare il mio paese, la mia gente e l'ora che ho sempre atteso”.
“Un altro secolo e potrei essere nominata ambasciatrice [a Roma] io stessa – ma il giorno della donna non è ancora arrivato”.

“Spero di avere la mia parte”
Prima tappa del suo viaggio dagli Stati Uniti fu l'Inghilterra, dove giunse nell'autunno del 1846. Incontrò personaggi come Wordsworth e i coniugi Carlyle. Era stato Emerson a consegnare a Fuller una lettera di presentazione per Carlyle e quest'ultimo aveva sentito il bisogno di esternare all'amico americano le sue impressioni immediate su “quell'anima”: “A high-soaring, clear, enthusiast soul in whose speech there is much of all that one wants to find in speech. A sharp subtle intellect too […] we liked one another very well” .
Conobbe Mazzini, probabilmente a casa di Thomas e Jane Carlyle. In Francia ebbe occasione di frequentare Chopin, George Sand, Lamennais e Adam Mickiewicz, il poeta polacco in esilio; in Italia, dove arrivò nel marzo del 1847, prese contatti con diversi affiliati della “Giovine Italia”, passò da Genova per rendere omaggio alla madre di Mazzini, poi da Livorno, quindi da Napoli che le sembrò il vero simbolo dell'aspetto divino della natura, ciò che Dio aveva voluto profondere a larghe mani nella campagna italiana.
A Roma, in primavera, mentre si trovava in San Pietro, si imbatté casualmente nel marchese Giovanni Angelo Ossoli, nobile di idee liberali – non molto colto, una decina d'anni più giovane di lei, figlio cadetto di una famiglia ormai in ristrettezze economiche, legata al Papa – col quale strinse una relazione. Si allontanò quindi da Roma per quattro mesi, forse per trovare il modo di riflettere su quel fatale incontro, ma soprattutto per continuare a visitare il nostro paese, capirne l'anima, conoscerne grandi personaggi, come Manzoni. Rientrata nella capitale, in ottobre, dopo un lungo viaggio che aveva toccato anche la Svizzera, si immedesimò sempre più profondamente nelle aspirazioni liberali italiane e sciolse ogni dubbio in merito al rapporto con il patrizio romano. Lui dovette tenerlo segreto per paura di essere totalmente diseredato – anche perché Fuller era protestante, oltre che di ideali repubblicani.
Il loro bambino venne alla luce il 5 settembre 1848 a Rieti. Proprio per nascondere la gravidanza e la nascita di Angelino, Fuller trascorse un periodo a L'Aquila e a Rieti e non inviò le sue corrispondenze alla New York Daily Tribune per circa sette mesi, da maggio alla fine del novembre 1848, quando rientrò a Roma e andò ad abitare nel cuore della città, in Piazza Barberini.
Prima di questa interruzione, l'articolo datato 19 aprile 1848 - che presentava due appendici scritte in maggio - iniziava con una nota quasi ottimistica nei confronti del fato italiano: “Alla fine della mia ultima lettera mi auguravo di poter riferire ora qualche notizia definitiva sul destino dell'Italia. Ma benché finora tutto sembri essere dalla parte degli italiani, non vi sono state ancora battaglie decisive, né alcuna azione risolutiva” . Mentre l'incipit del saggio con cui, il 2 dicembre, Fuller riprendeva la collaborazione alla Tribune, faceva intravedere un fato ‘rovinoso': “Sono sei mesi che non scrivo e nel frattempo quali cambiamenti sono avvenuti su questa sponda dell'ampio oceano, mutamenti di enorme importanza drammatica sul piano storico e di interesse illimitato sul piano ideale. Nella rovina la discesa si fa spedita” .
Fuller non dimenticava, dunque, che a lei erano state richieste delle ‘corrispondenze' e, in quanto tali, le sue pagine italiane relative al periodo 1848-49 spesso si articolavano come se, nella forma, fossero vere e proprie lunghe lettere. Come se avesse creato nel fruitore delle aspettative ‘epistolari', Fuller poteva chiudere un saggio con: “Presto altre notizie”; come se immaginasse dei commenti, delle risposte, delle reazioni immediate alla sua eccessiva spontaneità, poteva presentare una sorta di excusatio finale: “Non so che cosa ho scritto: ho semplicemente lasciato parlare i miei sentimenti pensando all'America. Ma in queste righe c'è amore sincero. Accoglietele con generosità amici; è di per se un merito quando le parole stampate sono sincere”.
Sincerità non disgiunta dalla competenza politica-sociale, analisi puntuale non disgiunta da una profonda emozione di fronte alle vicende italiane: queste le caratteristiche della sua prosa. I suoi scritti sono espressione di un costante impegno e del desiderio di capire e comunicare la verità storica. Mai fu osservatrice distaccata o semplice cronista; mai, come a Roma, l'intreccio tra vita personale e azione pubblica fu tanto intenso. E Fuller lo fece intendere ai suoi lettori (la Tribune ne contava cinquantamila), rivolgendosi loro in forma diretta, in prima persona, con espressioni rivelatrici, le quali contengono anche opportune riflessioni metatestuali e metadiscorsive, che vanno ad accrescere il valore della sua testimonianza, mentre confermano la fede che nutre nel destino d'Italia, secondo principi mazziniani:

“Credo che se qualcuno negli Stati Uniti presterà attenzione a queste mie parole, capirà che non sono persona da accendersi di entusiasmi e sentimenti infantili e che per parlare così deve aver visto sicuramente qualcosa dell'Italia. […] Avrei molto da scrivere su questa grande tragedia, ma lo farò altrove e in una forma più compiuta, in modo da poter abbozzare, a suo tempo, il ritratto di attori poco conosciuti in America. Il materiale è copioso. Ne ho acquistato i diritti attraverso grande sofferenza e grande solidarietà; tuttavia, pur in mezzo al sangue e alle lacrime dell'Italia, è una gioia assistere ad alcuni avvenimenti importanti. Gli italiani stanno guarendo dall'adulazione gretta e dalle vanterie avventate; stanno imparando ad apprezzare e a ricercare i fatti; si abbattono le effigi di paglia e il loro posto è preso da uomini in carne e ossa in piena evoluzione. L'Italia si sta istruendo per il futuro e i suoi capi imparano che è passato il tempo della fiducia nei prìncipi e nel passato, che non esiste speranza se non nella verità e in Dio; il popolo più umile apprende a urlare di meno e a pensare di più”.

“Questa causa è nostra”
In nome dei “diritti” da Fuller acquisiti “attraverso grande sofferenza e grande solidarietà”, gli articoli scritti da Roma sempre di più si spostano dai temi artistico-letterari a quelli politico-sociali, e vi si intrecciano diversi genres e quindi una varietà di registri. Ci sono brani di taglio narrativo-espositivo, altri di taglio argomentativo-didascalico, altri ancora di taglio emotivo-confessionale. Fuller dimostra di conoscere bene il proprio pubblico, adottando, come fa, efficaci strategie linguistiche - compresi alcuni riferimenti intertestuali, da Shakespeare a Goethe a Wordsworth a Byron - per persuadere e/o convincere i lettori americani (facendo quindi appello sia alle emozioni che alla ragione) perché prendano posizione, perché organizzino manifestazioni a favore degli sforzi liberali e democratici italiani.
I suoi ‘pezzi' presentano una costante e diffusa interazione tra descrizione dei fatti, riflessioni pertinenti, commenti documentati e documenti commentati; fra questi ultimi possiamo leggere il discorso di Pio IX al Concistoro (riportato nel saggio del 10 gennaio 1848), la lettera del governo provvisorio di Milano alla “Nazione Germanica” (riportata nel saggio del 19 aprile 1848), il discorso che Mickiewicz fa a Firenze (riportato nello stesso saggio), il Manifesto di Pio IX del 1° gennaio del 1849 (che Fuller chiama “avviso di scomunica”, riportato nel saggio del 20 febbraio 1849); la lettera dei triumviri a Lesseps (riportata in francese nel saggio del 10 giugno 1849). Ma i documenti citati da Fuller, che a noi più interessano per il tipo di analisi che qui conduciamo, sono quelli che portano la firma di Mazzini.
Con o senza citazioni di documenti, i saggi di Fuller sono tutti densi, ricchi di dettagli; la scrittrice non solo ‘fa storia', ma dà motivazioni per le sue scelte etiche e politiche: mostra fiducia nel futuro dell'Italia, perché, sostiene, “dal popolo stesso deve venire l'aiuto non dai principi […] e non da una Chiesa vecchia, ricoperta d'edera, da tempo minata alle fondamenta, corrosa dal tempo e divorata dai parassiti”; disprezza i gesuiti, in quanto “la loro influenza è e sarà sempre contraria al libero progresso dell'umanità”, nutre ammirazione per Giuseppe Montanelli, “modello di purezza e sincerità”; è molto critica nei confronti di Gioberti, a cui riconosce l'unico merito di aver attaccato i gesuiti.
Le sue sono pagine che parlano della breve illusione liberale del papato di Pio IX, dell'eccitazione per i fatti della prima guerra d'indipendenza; sono corrispondenze che lanciano strali contro l'Austria; che indugiano sugli eventi che portano alla fuga del Papa a Gaeta (compreso l'assassinio di Pellegrino Rossi); che denunciano “la stupidità, la bigotteria e il tono meschino” di Pio IX dopo la scomunica con la quale, il 1° gennaio del 1849, ha condannato i rivoltosi. Sono pagine che disprezzano “il re del sud” in quanto “nemico sanguinario, collerico e ben armato” e “quello del nord” in quanto “ben noto traditore”; che indugiano sulla proclamazione della Repubblica romana, sulla drammatica situazione di Roma “oltraggiata” dai Francesi, che Fuller vive in prima persona, perché, mentre Ossoli, che si è arruolato nella Guardia civica, combatte sul Gianicolo, lei partecipa attivamente alle cure dei feriti. In quel periodo, mentre avverte e manifesta il peso della responsabilità per la sofferenza altrui, acquista ulteriore consapevolezza della propria vulnerabilità.
La scrittrice registra il tradimento della Francia repubblicana, descrive la devastazione di Roma, ammira il coraggio del popolo, accenna, in un esemplare rigo pregnante, al ruolo di Mazzini:

“Vi scrivo da una Roma barricata. La madre di tutte le nazioni si trova spalle al muro a fronteggiare tutte le altre […] e sebbene non possa fronteggiare a lungo il mondo che si arma contro di lei, intende per lo meno provarci. Alla sua testa si trova Mazzini. Ora Roma ha una guida che ‘comprende il suo credo' e quanto c'è di nobile verrà in superficie. Siamo tutti preoccupati […]. Tuttavia io difenderò Roma fino all'ultimo. Non deve arretrare dinanzi all'alta speranza che si è alzata al suo orizzonte. Non deve piombare nuovamente nel servilismo e nella corruzione”.

Alla figura di Mazzini, in quel contesto, nonché alla sua filosofia politica in generale, Fuller dedica pagine intere, compresa la parte finale del saggio iniziato il 6 e concluso il 10 luglio 1849, dove ribadisce la sua fede nell'esule genovese e prevede il fato riservato alla sua ideologia: “Mazzini lo conosco, conosco l'uomo e le sue azioni grandi, pure, costanti, un uomo a cui soltanto l'epoca futura potrà rendere giustizia, quando mieterà il raccolto del seme che egli in quest'epoca ha seminato”.
Poco dopo la partenza di Mazzini da Roma, terminano anche le corrispondenze di Fuller inviate dalla capitale; torna a Rieti a riprendere Angelino e poi con Ossoli e il bambino si trasferisce a Firenze. Continuerà a scrivere qualche saggio per la Tribune anche dalla Toscana e la sua penna indugerà su descrizioni paesaggistiche che diventano eloquenti metafore della situazione che si è venuta a creare in Italia, per passare a lucide riflessioni più strettamente politiche, coniugate a domande retoriche, caratterizzate da sarcasmo, e a riferimenti biblici che contengono più di un elemento profetico sul futuro, sul fato dell'Italia e dell'Europa, che lei non vedrà. Decide, infatti, di tornare in America, perché Ossoli non ha alcuna fonte di guadagno, mentre lei ha fede nella sua scrittura - a cominciare dalla Storia della rivoluzione italiana che ha già completato - e conta di poter vivere grazie alla sua professione. Partono insieme da Livorno e quando giungono vicino alla costa di New York, nel luglio 1850, la nave cola a picco. Nessuno di loro tre si salva e il manoscritto va perduto. Il fato travolge la fede.

“Between faith and fate"
 

Data:





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