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Intervista a cura di Francesca Morandi

«Stati Uniti e Russia non hanno mai smesso di studiare “la bomba del futuro”, un'arma ad alto potenziale distruttivo, pari a quello delle testate nucleari, ma con la capacità di non rilasciare radiazioni». A vent'anni dalla fine della Guerra Fredda, che per decenni ha pesato sul mondo con la minaccia di un'apocalisse atomica, Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni Internazionali presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, afferma: «Oggi pensare a un mondo senza armi nucleari è possibile, pensare a un mondo senza armi e senza guerre è fantapolitica».
«Se Obama e Medvedev hanno deciso di firmare la risoluzione Onu sull'eliminazione degli arsenali nucleari del pianeta, lo hanno fatto anche perché i loro Paesi hanno la capacità, o perlomeno la prospettiva concreta, di poter mantenere una superiorità militare basata su tecnologie alternative all'atomo. Se non fosse così americani, russi e i loro alleati si troverebbero alla mercé di iraniani, pakistani, nordcoreani, afghani, … E non credo che Washington e Mosca intendano permetterlo. Tra un paio di decenni la bomba nucleare sarà la bomba dei (relativamente) poveri, come già accade oggi con i gas».

Ci spieghi, professor Parsi …

«Nel sistema bipolare della Guerra Fredda, Stati Uniti e Urss possedevano armi nucleari in quantità enormemente superiore a qualunque altro. Ma soprattutto il condominio competitivo della Guerra Fredda, l'equilibrio del terrore tra le due superpotenze e il fatto che il loro fosse un gioco globale a somma zero, rendeva poco conveniente dotarsi di armi atomiche. A parte Israele, di cui peraltro non si è mai avuto la prova, solo i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu le possedevano. Oggi, invece, un crescente numero di Paesi detiene bombe atomiche ed è concreta la possibilità che gruppi di guerriglieri si impadroniscano di materiale fissile per compiere micidiali attacchi terroristici. Stati Uniti e Russia stanno nel frattempo investendo in nuove tecnologie militari volte a produrre armi non nucleari in grado di avere effetti di devastazione simili a quelli delle armi all'uranio ma senza rilasciare radiazioni e con capacità avanzate di selezione dei bersagli. Non si tratterebbe di un'arma nucleare, così il tabù di Hiroshima e Nagasaki non sarebbe infranto. L'obiettivo della bomba atomica è produrre un'esplosione pari a quella di migliaia di tonnellate di tritolo e i cui “effetti collaterali” sono radiazioni che perdurano per decenni continuando a uccidere e danneggiare vite umane. Nel dopo Guerra Fredda l'America è stata impegnata in numerosi conflitti, e al Pentagono vorrebbero armi più utilizzabili e altrettanto deterrenti di quelle nucleari».
 
I trattati internazionali iniziano ad essere rispettati?


«Il trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) non funziona più da tempo, l'obiettivo è allora puntare sul superamento delle armi nucleari. Per questo la ricerca militare lavora al fine di realizzare, magari tra vent'anni, una bomba che funzioni come un gas, capace di uccidere migliaia di persone, ma che non lasci gli effetti devastanti delle radiazioni. In futuro verranno probabilmente  “rottamate” le attuali mine anti-uomo e le bombe a grappolo perché ci saranno armi alternative volte a limitare le vittime collaterali. Attualmente sono in sperimentazione armi che sostituiscono le pallottole con colle speciali o agenti nervini, che invece di uccidere, immobilizzano o causano una temporanea disabilità. La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi e l'impiego della forza deve servire a piegare la volontà del nemico, non a sterminare migliaia o milioni di persone. È sempre stato così e sarà sempre così, anche quando le guerre vengono chiamate “azioni di polizia internazionale”, esercitate nel quadro delle leggi internazionali».

Nel 1989 non furono le armi a “distruggere il nemico” ma le rivoluzioni democratiche degli ex Stati satelliti dell'Unione sovietica. Che cosa ci insegnano oggi quelle rivoluzioni?

«Insegnano che le società civili, gli individui, possono cambiare la Storia, la quale offre possibilità di svolta imprevedibili verso il progresso. In un momento di crisi finanziaria globale, in cui i singoli paiono subire le forze della Storia, le scelte degli apparati economici e delle classi dirigenti, è bene ricordare che venti anni fa, furono le società civili, le persone, di Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia e Germania orientale a determinare eventi storici, fino a quel momento inimmaginabili. La Storia è come un'onda enorme dietro di noi, ma se noi non facessimo un passo indietro, quell'onda potrebbe esaurirsi prima di raggiungerci. Viceversa, se facessimo un passo in avanti, potrebbe travolgerci. Nel 1989 le società civili, gli individui, di Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia e Germania Orientale fecero quel passo per cui l'onda della Storia travolse tutto, distrusse e creò del nuovo. Guardando distrattamente alle sollevazioni popolari del 1989 si tende inoltre a dimenticare che il cambiamento e la stabilità non sempre vanno sotto braccio. A volte la stabilità lavora contro il cambiamento e a volte il cambiamento produce instabilità. In politica bisogna scegliere cosa è meglio, sapendo che ciò implica costi e rischi. Nel 1989 statisti del calibro di François Mitterand e Margaret Thatcher temevano danni gravi e incontrollabili dalla fine della divisione Est/Ovest, e così cercarono di mantenere lo status quo impedendo che un popolo diviso, quello tedesco, si riunisse e pretesero che popoli diversi, come quelli della ex Jugoslavia, rimanessero insieme. Si sbagliavano».

Quanto la religione, che si intreccia alla Storia e muove i singoli, gioca un ruolo nelle dinamiche che conducono alla democrazia? La cristianità ha avuto un ruolo nella fine della Guerra Fredda?

«È innegabile che colui che, fin dall'inizio dell'onda rivoluzionaria, disse che era possibile attuare un cambiamento fu un Papa polacco, Papa Giovanni Paolo II. La civiltà europea si è costruita anche attraverso il messaggio cristiano, che, a sua volta, si è nutrito del contatto con la classicità, l'Umanesimo e l'Illuminismo. Secondo lo studioso americano Samuel Huntington nello sviluppo della democrazia la presenza della religione cristiana rappresenta un facilitatore. Gli studi fatti da Huntington sui processi di democratizzazione successivi alla Guerra Fredda e pubblicati ne “La Terza Ondata”, indicavano, ad esempio, come in un Paese quale la Corea del Sud, l'accrescersi della presenza della religione cristiana si sia accompagnato all'incremento di lotta contro le dittature e successivamente la democratizzazione delle istituzioni sudcoreane. Questa tuttavia è la Storia come la conosciamo noi oggi, non possiamo sapere gli sviluppi futuri. Cinquant'anni fa si riteneva che il cattolicesimo, tra le diverse espressioni del Cristianesimo, fosse quella meno favorevole al diffondersi della democrazia, a causa della sua vocazione gerarchica. La Storia ha smentito questa tesi: proprio la Polonia, cattolica, si è rivelata un fulcro fondamentale nel processo di rivolta nell'Est europeo contro il comunismo. Anche nel caso dell'America centrale e dell'America Latina le trasformazioni interne alla dottrina della Chiesa e alla provenienza sociale del personale ecclesiastico, che iniziò a essere reclutato negli strati più bassi della popolazione, condusse a un cambiamento nelle posizioni della Chiesa che passò dal sostegno del potere alla critica del potere, e dunque a un'opposizione. Al momento constatiamo che dove non esiste una presenza cristiana significativa, la democrazia nasce con maggiore difficoltà, non è possibile tuttavia definire un rapporto di causalità».

Che cosa ha lasciato il 1989 nell'immaginario collettivo?

«Se si pensa alla data storica del 1989 in  Europa prevale la visione delle “signore tedesche con i bigodini” che attraversano il Muro nella notte del 9 novembre, e dunque la rivoluzione democratica, e non la visione dei combattimenti nell'ex Jugoslavia. Quanto accadde nei Paesi dell'Est con le rivoluzioni democratiche non si verificò nella ex Jugoslavia dove le società civili furono facile preda di classi politiche xenofobe, come quella di Milosevic, che portarono a conflitti sanguinari. Si tratta tuttavia di due facce dello stesso fenomeno nonostante le diversità evidenti. Se le rivoluzioni democratiche nell'Est e l'implosione dell'Urss furono processi incredibilmente fulminei, nella ex Jugoslavia le tensioni etnico-religiose covavano già da tempo prima del 1989 ed esplosero come un vulcano dopo questa data. Osserviamo inoltre che la ex Jugoslavia non era sotto il giogo dell'impero sovietico e la sua classe dirigente non era “coloniale” come quella della Repubblica popolare tedesca o della Bulgaria, ma era autoctona, orfana già da dieci anni del suo autocrate, Tito».

La fine della Guerra Fredda sembrò poter segnare l'inizio di un periodo di pace ma determinò invece l'inizio delle guerre locali degli anni Novanta (la prima guerra in Iraq, le guerre separatiste interne all'ex impero sovietico, l'Intifada nei territori israelo-palestinesi, le guerre nei Balcani, …) e la diffusione del terrorismo islamico. Quali considerazioni possiamo fare in merito?

«Quando guardiamo ai conflitti che sono emersi dopo il 1989, nessuno di essi ha avuto finora la portata globale della Guerra Fredda».

Neppure il terrorismo islamico è una minaccia globale?


«Lo scenario dello scontro di civiltà, teorizzato da Samuel Huntington, è stato ed è tutt'oggi un rischio possibile. Il conflitto bosniaco è stata una guerra locale nella quale si sono innescate dinamiche che spingevano nella direzione del conflitto di civiltà: pensiamo ai mujaheddin arrivati dai Paesi musulmani a sostegno dei bosniaci musulmani o allo spirito da crociata antiturca che animava gli irregolari serbi. Osserviamo inoltre ciò che è accaduto nella seconda guerra in Iraq dove sono affluiti guerriglieri e kamikaze dagli Stati islamici oppure pensiamo ai proclami  alla “guerra santa” di Osama Bin Laden. La presenza di gruppi radicali all'interno del mondo islamico, che non esitano a usare la violenza contro l'Occidente e contro i loro confratelli considerati apostati e corrotti, è uno dei fenomeni che ha generato maggiore violenza nel sistema politico internazionale, con una capacità di diffusione che va al di là del teatro specifico mediorientale. Tuttavia questo fenomeno non si è ancora manifestato come minaccia globale concreta: la chiamata alle armi lanciata da Al Qaeda non ha funzionato, non ha scatenato la jihad globale che auspicava Bin Laden».

A distanza di vent'anni come possiamo giudicare la transizione degli ex Stati satelliti dell'Urss?

«Molto positivamente se si considera soprattutto l'arco di tempo limitato in cui tale transizione si è attuata, quali erano le condizioni di partenza e il tipo di trasformazione che si è compiuta. In meno di vent'anni Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania e Germania orientale, insieme ai Paesi del Baltico, sono transitati da sistemi autoritari a sistemi parlamentari, da economie collettiviste sono diventate economie di mercato, da società civili embrionali a società civili attive, da membri del Patto di Varsavia a membri della NATO e dell'Unione Europea. La costruzione dell'UE ha dato un contributo fondamentale e decisivo alle transizioni di questi Paesi che godono oggi di una situazione di democratizzazione irreversibile. L'Unione Europea non ha consentito la democratizzazione di questi Paesi, dove a giocare un ruolo determinante è stato  l'allargamento della NATO e la protezione offerta dall'Alleanza Atlantica nei confronti di eventuali revanscismi russi. Questi Stati non sarebbero nell'Unione europea se non avessero goduto della protezione della NATO. L'ingresso nell'UE ha però reso il processo di democratizzazione irreversibile e questo è un dato di grande rilevanza. La NATO ha protetto le nascenti democrazie di questi Stati dalle minacce esterne, l'Unione Europea li ha difesi dalle minacce interne, dalla cosiddetta “democracy fatigue”. Pensiamo solo che dopo tre anni dalla loro sconfitta in Polonia e Ungheria, gli ex socialisti al potere hanno vinto le elezioni, sono tornati quindi al potere ma senza modificare le istituzioni democratiche, per poi perdere nuovamente alle urne e accettare l'insuccesso. Si trattava degli stessi personaggi che all'epoca del comunismo non contemplavano neppure l'idea di elezioni libere e competitive».       

Il 9 novembre 1989 inizia lo smantellamento del Muro di Berlino, evento simbolico della fine del confronto bipolare tra il comunismo e il capitalismo, e fatto di primo piano nella storia della Germania e dell'Europa. Il processo di riunificazione della Germania, presentato a suo tempo come un problema economico, politico, culturale enorme, può dirsi compiuto?
 
«Oggi 80 milioni di tedeschi sono guidati dalla Cancelliera cristiano-democratica Angela Merkel, che è nata ed ha iniziato la sua vita pubblica nella Germania dell'Est.  Si tratta di un evento significativo. Dopo il 1989 l'unificazione tedesca presentava due problemi ambedue significativi, uno di natura internazionale, l'altro di natura interna. Il primo era riconducibile a precedenti storici: fin da quando la Germania si era riunificata sotto Bismarck, la sua presenza aveva costituito un elemento di oggettiva destabilizzazione nel quadro europeo, che per secoli si era costruito anche grazie ad un vuoto di potere nel centro del suo cuore, la Germania disunita, intorno alla quale si muovevano gli altri Stati come la Gran Bretagna, l'Inghilterra, l'Austria, la Francia,... Storicamente la Germania disunita era il punto attorno al quale si univa l'Europa. Il malessere che aveva provocato l'unificazione tedesca era stato espresso dalla guerra franco-prussiana e successivamente dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. La preoccupazione seguita al 1989 era che l'unificazione tedesca facesse saltare tutto l'equilibrio europeo riaprendo una stagione di instabilità. Per evitare questo era necessaria un'invenzione istituzionale incredibile e nuova che fu l'Unione Europea. Per la precisione sono tre le innovazioni istituzionali attraverso le quali si fece in modo che l'unificazione tedesca non fosse un ritorno a un passato di caos ma un motore verso il futuro: l'Unione Europea, la moneta unica e l'allargamento».

Se l'influenza della Russia sembra assai distante dalla Germania odierna, questo non vale per Paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca che, proprio recentemente, hanno protestato per la decisione del presidente americano Obama di sospendere l'installazione del sistema anti-missile, il cosiddetto “scudo spaziale”, nei loro territori, in quanto temono tutt'oggi possibili ingerenze di Mosca. Sono fondati i timori di Praga e Varsavia?


«Non è affatto strano che cechi, polacchi, estoni e lituani conservino una sana diffidenza nei confronti della Russia, diffidenza che è ben diversa da quella americana nei confronti dell'Unione Sovietica. Si tratta, infatti, di popoli che hanno subìto l'espansionismo della Russia prima, durante e dopo il periodo sovietico. Pensiamo alla Russia degli zar che non era certamente rispettosa dell'indipendenza polacca, lituana, lettone, estone, …Stiamo parlando di popoli che hanno dovuto convivere per lungo tempo con un vicino aggressivo».

Temono un'invasione? Non è un'ipotesi irrealistica?


«È irrealistica fino a quando la NATO svolge il proprio ruolo di difesa. I Paesi dell'Est europeo e quelli Baltici temono l'indebolimento dello scudo americano perché sanno bene che non potrebbero contare sull'aiuto inglese, francese e italiano di fronte a ingerenze o ad una pressione di tipo militare russa. Nessun governo europeo farebbe la guerra per difendere questi Stati. E anche se gli europei  imbracciassero le armi contro i russi, molto probabilmente, senza l'aiuto americano, perderebbero. Il timore è che la Russia possa percepire un'attenuazione della volontà americana di proteggere quei Paesi da pressioni politico-economiche.  Pensiamo a che cosa accadrebbe se la minoranza russa presente in Lituania o in Lettonia dovesse iniziare un'attività di resistenza armata che provocasse una dura reazione da parte di questi governi e se gli insorti chiedessero aiuto a quella Russia di Medvedev e Putin che rilascia passaporti russi a tutti i russi etnici sparsi per l'ex impero. E non dimentichiamo che poco più di un anno fa circa Mosca ha usato la forza delle armi in Ossezia del Sud».

Nel 1989 gli Stati Uniti esultavano per il crollo del nemico sovietico, oggi il presidente Obama è pronto a collaborare con il suo omologo russo Medvedev e accantona il progetto del cosiddetto “scudo spaziale”. Come commenta questi fatti?


«L'abolizione dello scudo da parte di Obama è certamente un gesto importante dettato dalla politica del dialogo avviata dal presidente americano ma è anche una scelta di sano realismo politico. Per parafrasare un alto diplomatico USA, con lo scudo spaziale gli americani stavano facendo imbestialire i russi “investendo in una tecnologia che non c'è ancora, con soldi che non ci sono più, per difendersi da una minaccia che forse non esiste” La costruzione del sistema anti-missile richiedeva costi elevatissimi e una tecnologia non ancora disponibile. Inoltre lo “scudo” non era stato progettato contro la Russia ma contro Iran, Libia, Pakistan, che rappresentano minacce a basso grado di probabilità».  

Il 4 giugno 1989, il partito comunista al potere in Cina ordinava la repressione armata della rivolta popolare di piazza Tien An Men. La Cina è oggi una potenza produttiva ai vertici dell'economia mondiale e, da un punto di vista sociale, il comunismo ha ceduto il passo a uno stile di vita occidentale-consumistico. Ciononostante il comunismo cinese, che ha resistito al crollo dell'Urss e dei regimi comunisti, rimane al potere. Cosa ci può dire?


«La Cina non era un attore centrale della Guerra Fredda che era un sistema bipolare dove gli unici veri protagonisti erano Stati Uniti e URSS. Per questo motivo, una volta caduto l'impero sovietico, la Cina è rimasta in piedi. Parlare di “fallimento del comunismo” è un'espressione giusta nel quadro del pensiero occidentale ma risulta errata se realizziamo che un pezzo di quella filosofia politica in Cina ha preso una strada diversa, che tutt'oggi prosegue. In Cina il comunismo è stato utilizzato alla fine degli anni '40 come strumento per raggiungere l'indipendenza nazionale, poi è mutato completamente a partire dalla svolta di Deng negli anni '70. Nello sviluppo del comunismo cinese si rivela un elemento di continuità nel potere, di adattamento dell'ideologia a esigenze interne. I rivoltosi di piazza Tien An Men sono stati massacrati perché guardavano troppo al mondo e troppo poco alla Cina. ».
 

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