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Nel novembre 1989 nasceva a Milano il Cipmo, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente. Enti fondatori furono la Regione Lombardia, il Comune e la Provincia di Milano, cui si sta aggiungendo in questi giorni anche la Camera di Commercio di Milano. Tra i promotori, un significativo gruppo di personalità di vario orientamento politico e culturale, tra cui l'attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e la Senatrice e Premio Nobel, Rita Levi Montalcini, oggi Presidente Onoraria del Centro riconosciuto quale Ente internazionalistico di interesse nazionale del Ministero degli Esteri Italiano. Vent'anni dopo, abbiamo discusso dell'importante ricorrenza con Janiki Cingoli, fondatore e direttore del Cipmo.

Dottor Cingoli, come si è sviluppata l'attività del Cipmo in questi venti anni di impegno?

Abbiamo perseguito obbiettivi ambiziosi, ma con il necessario gradualismo, non adagiandoci mai sull'esistente e cercando di far compiere "un passo in più" al processo di pace. Già prima degli accordi di Oslo del 1993, il nostro Centro organizzava conferenze internazionali per favorire il dialogo tra israeliani e palestinesi. Incontri in seguito ai quali si crearono contatti che furono utili anche ai fini dei negoziati segreti che condussero agli accordi norvegesi, suggellati poi a Washington dalla storica stretta di mano tra Itzhak Rabin e Yasser Arafat. Ricordo la nostra conferenza internazionale di apertura, "Israeliani/Palestinesi. In cammino verso la pace", che vide allora riunite circa settanta personalità israeliane, palestinesi, arabe e internazionali, rompendo consolidati tabù: allora la legge del loro paese impediva ancora agli israeliani di incontrare esponenti dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp).
In seguito, abbiamo preferito organizzare incontri più ridotti e riservati, seminari tra israeliani, palestinesi e arabi su temi specifici connessi al negoziato finale, come il problema di Gerusalemme. Fra questi, forse il più significativo fu quello Likud-Fatah del 1998, il primo al mondo di quel genere, che vide insieme come capi delegazione Meir Sheetrit, che poi è stato Ministro degli Interni israeliano, e Marwan Barghouti, futuro leader della seconda intifada, oggi in carcere. Il seminario fu di grande utilità, perché creò canali tra Arafat e Benjamin Netanyahu per arrivare agli accordi di Wyie Plantation e al parziale ritiro israeliano da Hebron. Ancora, in riferimento al nostro impegno sulla spinosa questione della Città Santa, vorrei citare la pubblicazione, curata dal Centro nel 2001, di una corposa e qualificata raccolta di ricerche e contributi sul tema: Israelis, Palestinians coexisting in Jerusalem.
Altre iniziative del Cipmo hanno avuto invece un carattere più sociale, come gli incontri tra young leaders israeliani e palestinesi, che mettono a confronto giovani che spesso non hanno mai incontrato esponenti dell'altro popolo, infrangendo incomunicabilità e pregiudizi e creando nuovi stimoli a possibili collaborazioni. Sono di queste settimane due iniziative altamente significative, che abbiamo organizzato in Italia.
A Milano si è svolto un seminario riservato tra importanti personalità ed esperti di sicurezza israeliani e palestinesi, che hanno discusso approfonditamente sulla situazione e sulla necessità di un nuovo approccio che consenta di rilanciare il processo di pace, a partire dai possibili accordi relativi alla Striscia di Gaza. Oltre al Cipmo, l'evento è stato promosso dall'Economic Cooperation Foundation (Ecf) di Tel Aviv e dal Palestinian Center for Strategic Studies (Pcss) di Ramallah. La sua realizzazione è stata resa possibile grazie al contributo del Ministero degli Affari Esteri, della Regione Lombardia, del Comune di Milano, della Fondazione Cariplo e della Fondazione tedesca Friedrich Ebert Stiftung. A Roma si è tenuto un seminario tra giovani leaders palestinesi e israeliani, con l'obbiettivo di  accrescere le competenze dei ragazzi impegnati in attività di pace e di rafforzare la loro abilità nell'influenzare sia l'opinione pubblica che gli attori politici. Fondamentale in questo caso la nostra collaborazione con il palestinese Panorama Center, l'israeliano Peres Center for Peace e il Forum delle Ong israelo-palestinesi. La realizzazione di questa iniziativa è stata possibile grazie al sostegno della Regione Lazio e alla cooperazione della Provincia di Roma.
Accanto a questo lavoro più riservato, vi sono stati i grandi avvenimenti, come quello con la Regina Rania di Giordania del 2002 e il grande Convegno sull'Islam in Europa del 2005, o quello dell'inizio di dicembre a Torino sui "Diritti e doveri di cittadinanza dei Giovani Musulmani di seconda generazione". E le conferenze pubbliche, culminate nel ciclo "Cattedra del Mediterraneo", con la collaborazione dei maggiori atenei milanesi e la presenza di grandi personalità della cultura europea, mediorientale e mediterranea, poi riunite in prestigiose pubblicazioni.

Parliamo dell'attualità mediorientale. In questi giorni si fa un gran discutere della possibile liberazione di Marwan Barghouti, il leader palestinese più popolare. Per molti Barghouti è l'unica personalità in grado di ricostruire l'unità palestinese e di rilanciare seriamente il processo di pace. Tuttavia, in una recente intervista concessa al Corriere della Sera (a Francesco Battistini, 25 novembre, ndr), Barghouti ha mostrato una certa durezza nei confronti di Israele. Cosa ne pensa?

Barghouti è indubbiamente un uomo molto popolare neri territori palestinesi. E' il leader della cosiddetta "giovane generazione" e tra i primi eletti al Comitato Centrale nel recente congresso di Fatah. Può aspirare alla successione di Mahmud Abbas e ha già annunciato, se liberato, di voler concorrere per le future elezioni presidenziali palestinesi, quando sarà possibile tenerle. E' chiaro che solo un processo elettorale che coinvolgesse entrambe le anime del popolo palestinese potrebbe avere un valore concreto.
Rispetto alle parole critiche pronunciate recentemente da Barghouti verso Israele non sono affatto sorpreso. Egli è da sempre un teorico del negoziato, ma anche della lotta. Ricordiamoci che Barghouti ha guidato la seconda intifada e che è stato condannato a cinque ergastoli in Israele. Ha sempre propugnato la necessità di un accordo con Israele, basato sulla soluzione "due Stati, due popoli" e sulla costruzione di uno Stato palestinese entro i confini del '67, con Gerusalemme Est come capitale. Sul piano politico egli è lontano da Hamas, ma sul terreno della lotta conserva punti di convergenza con l'organizzazione islamica. Barghouti mira insomma ad una ricomposizione della frattura interpalestinese, come dimostrato dal suo impegno nella stesura, nel maggio 2006, del cosiddetto "documento dei prigionieri", nato dalla collaborazione con altri detenuti esponenti di Hamas e delle principali fazioni palestinesi. Un documento essenziale, le cui linee furono poi recepite nell'accordo della Mecca tra Fatah e Hamas, nel febbraio 2007, che diede vita al successivo governo di unità nazionale, crollato dopo pochi mesi con il colpo militare di Hamas a Gaza. Egli è tuttavia anche un realista, convinto che con il nemico si debba parlare, seriamente: fu lui a guidare la delegazione di Fatah al citato seminario riservato con il Likud, organizzato dal Cipmo a Milano undici anni fa.
D'altro canto, vorrei porre l'attenzione su un punto: Quali saranno le conseguenze, se Barghouti sarà rilasciato ad Hamas, e non ad Abbas, come tante volte richiesto dall'Autorità Nazionale Palestinese (Anp)? Quali spostamenti questo produrrà negli equilibri interni a Fatah e nel rapporto di forza tra Hamas e Fatah?
E qui entra in gioco il premier israeliano Netanyahu, che dovrà calibrare bene le sue prossime mosse, poiché è evidente che se decidesse, in cambio del rilascio del caporale Gilad Shalit, di consegnare Barghouti ad Hamas (oltre ad un alto numero di prigionieri palestinesi, anche macchiatisi di gravi atti di terrorismo), finirebbe per fare il gioco del movimento islamista e per indebolire ulteriormente Abbas . Infatti, un eventuale accordo tra Israele e Hamas non si limiterebbe, presumibilmente, allo scambio di prigionieri, ma dovrebbe contemplare altri aspetti, relativamente alla fine del blocco economico di Gaza e alla riapertura delle frontiere della Striscia, a cominciare da quella con l'Egitto. Fatah ne uscirebbe con le ossa rotte. L'ala dialogante dell'universo palestinese è in difficoltà e Israele ha la possibilità di contribuire a rafforzarla, riequilibrando le sorti del confronto con Hamas. Da questo punto di vista, ripeto, consegnare Barghouti a Fatah sarebbe una scelta auspicabile.

Come giudica l'azione mediorientale di Barack Obama nel suo primo anno di mandato?

L'esordio del presidente Obama è stato buono sul piano delle intenzioni e delle enunciazioni, ma anche caratterizzato da una gestione costellata da ingenuità ed incertezze che rischia di sfociare in un vicolo cieco. Nel discorso del Cairo, dello scorso giugno, Obama chiedeva agli israeliani il congelamento completo delle colonie, senza eccezioni. Ciò ha spinto Abbas a fare propria la richiesta, contando sul fatto che le posizioni espresse dal nuovo presidente Usa sembrassero più vicine a quelle dell'Anp che a quelle del governo Netanyahu. Tuttavia, l'esecutivo israeliano si è mosso con grande abilità, condizionando la posizione Usa e spiazzando la presidenza palestinese. Le condizioni sono così cambiate rapidamente in pochi mesi. In primo luogo, Obama è riuscito a convincere il premier israeliano ad accettare la posizione "due Stati per due popoli" e ad accogliere l'idea di uno Stato palestinese; Netanyahu ha tuttavia posto le condizioni che un simile Stato fosse smilitarizzato, che Gerusalemme restasse capitale unica e indivisa di Israele e che Israele venisse riconosciuto come Stato ebraico dai palestinesi e dal mondo arabo. In secondo luogo, lo stesso Obama ha compiuto un errore di metodo, ponendo l'accento sulla questione degli insediamenti israeliani invece che impegnarsi a fondo sui nodi cruciali e sostanziali del negoziato (Gerusalemme, i rifugiati e i confini). Il nuovo presidente avrebbe fatto meglio a lavorare a delle linee guida negoziali da proporre alla parti, assimilabili ai parametri proposti da Bill Clinton nel 2000. Invece, forse timoroso di incontrare delle resistenze interne, Obama ha preferito occuparsi prioritariamente degli insediamenti, una questione avvertita come meno sensibile negli Stati Uniti. Ciononostante, le pressioni interne non sono mancate: una lettera promossa dall'Aipac, la potente lobby ebraica statunitense, e firmata da 73 senatori Usa, ha invitato il presidente a tenere presenti gli storici legami di amicizia con lo Stato ebraico e i suoi interessi di sicurezza.
Così, negli ultimi tempi i toni della diplomazia americana sono cambiati. Pur rimanendo a favore del blocco totale degli insediamenti, gli Stati Uniti hanno ribadito che il congelamento totale non può costituire un prerequisito per l'inizio del negoziato. Ciò ha naturalmente disorientato Abbas, già fortemente indebolito per avere inizialmente accolto la richiesta degli Usa e di Israele di rinviare la discussione sul Rapporto Goldstone sulla guerra di Gaza, che condanna Israele e Hamas per crimini di guerra.
In conclusione, è probabile che al Cairo il presidente Usa avesse posto l'asticella troppo in alto e ciò ha prodotto dei guasti, indebolendo la leadership di Abbas e provocando delusione in tutto il mondo arabo. D'altro canto, egli ha probabilmente mancato anche nel non rivolgersi direttamente all'opinione pubblica israeliana, che si è sentita messa in qualche modo in secondo piano rispetto a quella araba, e ciò ha consentito a Netanyahu di evitare l'isolamento, di occupare il centro dello spettro politico del suo paese, svuotando il ruolo dell'opposizione di Kadima e della sua leader, Tzipi Livni, e presentandosi in patria come statista di livello, in grado di resistere alle pressioni esterne pur rimanendo disponibile alla trattativa. In questa fase, è innegabile che Netanyahu stia giocando meglio le sue carte, sia rispetto al debole Abbas che e all'ondivago Obama. Il rischio è che gli errori della Casa Bianca finiscano per favorire anche Hamas, abile nello sfruttare le contraddizioni e l'impopolarità crescente dell'Anp.

Uno scenario decisamente complesso. Lei è ancora fiducioso sulle possibilità di raggiungere finalmente la pace?

Per rispondere a questa domanda voglio ispirarmi ad Emil Habibi, arabo-israeliano, vincitore del Premio Israele e autore della pièce teatrale "Il Pessottimista". Come suggerisce il titolo della sua opera, voglio conservare un atteggiamento positivo ma al contempo realista rispetto al conflitto israelo-palestinese, fiducioso che il processo di pace, per quanto complesso, possa un giorno approdare ad una soluzione soddisfacente per tutte la parti in causa. Noi del Cipmo riteniamo che creare canali di dialogo e contribuire a far nascere idee per favorire la comprensione reciproca sia quanto di più importante si possa fare e per questo proseguiamo nel nostro percorso, centimetro per centimetro, verso la costruzione della pace. (Intervista a cura di Fabio Lucchini)
 

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