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Foreign Policy, Gennaio/Febbraio 2010,

Né un freddo realista, né un ambizioso idealista. Questa la postura di Barack Obama quando si discute di politica estera. Un atteggiamento che lo accomuna a molti presidenti americani di successo, ma che non lo rende immune dal rischio di cadere nelle contraddizioni che hanno affossato la presidenza di Jimmy Carter. Questa l'opinione di Walter Russel Mead, Henry A. Kissinger senior fellow press il Council on Foreign Relations e autore di Special Providence: American Foreign Policy and How It Changed the World.

Generalmente, gli inquilini della Casa Bianca si rifanno a quattro grandi riferimenti ideali quando si tratta di impostare la politica globale della prima potenza al mondo. Si tratta di personalità che hanno segnato la storia della giovane repubblica americana, ossia Alexander Hamilton, Woodrow Wilson, Thomas Jefferson e Andrew Jackson.

Gli appartenenti alla scuola hamiltoniana condividono la convinzione del primo segretario del Tesoro Usa secondo cui un forte governo nazionale e un forte esercito dovrebbero perseguire una politica estera realista e che l'esecutivo avrebbe il dovere di promuovere lo sviluppo economico e gli interessi americani in patria e all'estero. I wilsoniani concordano con gli hamiltoniani sulla necessità di una politica estera globale, ma ritengono la promozione della democrazia e dei diritti umani l'elemento qualificante della strategia Usa. Dal canto loro, i jeffersoniani dissentono; essi desidererebbero un impegno minimo di Washington sulla scena internazionale e auspicherebbero lo smantellamento del sistema di sicurezza nazionale. Infine, i jacksoniani sono animati da una forte carica populista, diffidano dell'esaltazione hamiltoniana del business globale, delle pie intenzioni dei seguaci di Wilson e della percepita debolezza dei jeffersoniani.

Sembra oziosa teoria, ma così non è. Come spesso accade in America, le enunciazioni apparentemente astratte e intellettualistiche finiscono per trovare pronta applicazione nella prassi politica e sociale. In questo caso, le scelte dei predecessori di Obama ne danno evidente testimonianza. Alcuni hanno impostato la propria politica estera attingendo dalle diverse scuole di pensiero brevemente descritte, altri si sono ispirati agli insegnamenti di un singolo lume tutelare.

Alla fine della Guerra fredda, George H.W. Bush decise di seguire un corso d'azione prettamente hamiltoniano; infatti, molti dei membri della sua amministrazione avrebbero in seguito contestato la decisione presa da Bush figlio di invadere l'Iraq. Bill Clinton ha preferito miscelare gli apporti di Hamilton e Wilson e ciò si è tradotto in atteggiamenti contradditori rispetto alla necessità dell'interventismo umanitario (solerte in Bosnia, molto meno in Rwanda) e al peso relativo assegnato a diritti umani e vantaggi commerciali nei rapporti con la Cina. Più recentemente la presidenza di George W. Bush ha tentato di operare una sintesi tra la scuola jacksoniana e wilsonaina, ma si è risolta in un sostanziale insuccesso che ha creato le condizione per l'avvento di Obama.

L'ingresso trionfale del nuovo presidente sulla scena globale, suggellato dal successo del G-20 di Londra e dal quantomeno prematuro Nobel per la pace (ndr), è stato influenzato dell'apporto teorico dei jeffersoniani, autorevoli e presenti nella tradizione politica del Partito democratico. Obama si è insomma presentato con l'obiettivo di contenere i costi e i rischi dell'azione americana nel mondo, in base alla convinzione che gli Stati Uniti possano contribuire al meglio alla diffusione della democrazia e della pace grazie al loro esempio di potenza civile e moderna. Ancora, secondo la logica obamiana un eccessivo impegno globale à la Bush rischierebbe di erodere alle fondamenta le stesse istituzioni democratiche nazionali, quando invece un sistema mondiale ordinato e pacifico, dove i costi per il mantenimento della stabilità fossero equamente suddivisi tra gli Usa e i loro alleati, permetterebbe al presidente di concentrarsi sulle improcrastinabili riforme interne.

Se i wilsoniani, come parzialmente è stato George W. Bush, mal tollerano la sopravvivenza di regimi dittatoriali e ostili, i jeffersoniani, come l'attuale presidente, non escludono la possibilità di trovare un modus vivendi con governi non democratici quali Siria e Iran. Anche con Damasco e Teheran il dialogo risulta una opzione praticabile. Per specificare meglio, forse semplificando un poco: secondo Bush la Corea del Nord è un male in quanto regime totalitario, secondo Obama in quanto minaccia per l'ordine nella regione del Pacifico. In questo l'ex junior senator dell'Illinois ricorda due personalità apparentemente assai distanti dalla sua, quali Richard Nixon e Henry Kissinger. La politica di disimpegno in Iraq ricorda la "vietnamizzazione" degli anni settanta, mentre le recenti aperture all'Iran potrebbero essere assimiliate all'avvicinamento nixoniano alla Cina maoista.

Si tratta di prospettive suggestive, dove i successi della diplomazia finirebbero per alleviare le tensioni internazionali grazie a una riduzione nell'impegno degli Stati Uniti, che rimarrebbero la potenza dominante senza tuttavia rischiare il coinvolgimento in imprese costose e improduttive. Purtroppo per Obama lo scenario appare sempre più scoraggiante per i seguaci di Jefferson e il povero Jimmy Carter è stato la prima vittima della crescente difficoltà nell'applicare i principi di quella scuola di pensiero. Giunto alla Casa Bianca con la speranza di porre fine alla Guerra fredda tramite il dialogo, il trentanovesimo presidente terminò il suo mandato con un record paradossale: si trovò costretto a sostenere gli sforzi dei mujaheddin per respingere l'invasione sovietica dell'Afghanistan, ad aumentare il budget per la difesa e a porre le basi per una crescente presenza americana in Medio Oriente.

Nel modo del ventunesimo secolo il presidente degli Stati Uniti deve tenere in conto un certo numero di questioni che attengono alla mutevole natura, politica-economica ma anche tecnologica, del sistema internazionale, alla crescita di nuovi attori e allo spostamento del baricentro del potere verso il Pacifico. Obama ha indubbiamente scelto una linea rispettabile e condivisibile, ma difficile da portare avanti. E' dunque urgente apportare qualche correttivo per evitare il definitivo fallimento dell'impostazione jeffersoniana, che comunque in passato ha donato un certo grado di moderazione "anti-imperiale" alla politica estera Usa.  Se Obama dovesse fallire, magari arenandosi nella gestione del conflitto afghano, riprenderebbero piede le concezioni interventiste che hanno caratterizzato la prima fase dell'era Bush. Uno scenario auspicabile? Il dibattito è aperto. (F.L.)

 

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