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World Affairs, Gennaio/Febbraio 2010,

La presidenza di Barack Obama potrebbe segnare l'inizio di una nuova era nella politica estera americana ed essere ricordata come il momento della rottura con la grand strategy che ha caratterizzato l'azione globale della superpotenza occidentale dalla fine del Seconda guerra mondiale in poi. Una postura verso il mondo che ha resistito per ben sei decadi, fondata su tre solidi e indiscussi pilastri: in primo luogo, la supremazia militare ed economica, che gli strateghi del presidente Harry Truman definivano “preponderance of power”, specialmente in Europa e in Asia Orientale; in secondo luogo, un network di alleanze formali di natura politica e militare, soprattutto, sebbene non esclusivamente, con paesi democratici; infine, il supporto ad un sistema finanziario e commerciale libero e aperto. L'amministrazione Obama sembra intenzionata a porre fine a tutto ciò, sostiene Robert Kagan, autorevole e riconosciuto esperto di relazioni internazionali.

E' vero, il primo presidente post-Guerra fredda è stato Bill Clinton, ma, nonostante un atteggiamento esteriormente dialogante e ammiccante, alla fine del doppio mandato del leader Democratico la politica estera americana rimaneva ancorata ai principi che l'avevano ispirata sin dai tempi di Truman e del suo segretario di Stato, Dean Acheson: la supremazia (per quanto pacifica) degli Stati Uniti, l'estensione delle alleanze con le nazioni democratiche (in particolar modo i paesi dell'area ex sovietica) e l'impegno a favorire l'apertura dei mercati nell'era della rampante globalizzazione degli anni novanta.

Il gruppo raccolto intorno a Obama sembra invece respingere due dei tre pilastri che hanno costruito la potenza Usa nel secondo dopoguerra. Piuttosto che tentare di preservare e perpetuare la primazia americana, il nuovo corso di Washington sembra aver preso atto dell'inevitabile declino rispetto alla potenze in ascesa. Obama e i suoi consiglieri, anche se non lo possono ammettere pubblicamente, si stanno preparando a ridimensionare il ruolo dell'America nel mondo. Questo è evidente nello stato dei rapporti con la Cina. Nei confronti di Pechino l'atteggiamento è infatti remissivo e rassegnato, quasi fosse inevitabile un prossimo ribaltamento dei rapporti di forza. La logica che pare ispirare l'azione presidenziale rimanda al vecchio adagio delle profezie che si auto-avverano.

Il nuovo approccio strategico riposa sulla necessità di mostrarsi accomodanti agli occhi di Cina e Russia, assecondandone il più possibile le richieste ed evitando accuratamente di frustrare le prerogative di Pechino e Mosca. Washington accorda loro quello che ogni potenza emergente vorrebbe, ossia la sostanziale accettazione dei rispettivi sistemi di governo (pseudo o anti-democratici) e il riconoscimento del diritto di egemonizzare le proprie sfere di influenza o presunte tali.

Inevitabilmente, simili accomodamenti stanno determinando un progressivo distacco dagli storici alleati degli Usa. In effetti, come è possibile per l'America accrescere il grado di cooperazione con Russia e Cina e al contempo mantenersi pienamente fedele a quel sistema di alleanze che era stato creato proprio per contenere le mire di quei due grandi paesi?  Il riferimento è alla Nato, al reticolo di alleanze con Giappone, Australia, Corea del Sud, Filippine e alla nuova partnership strategica tra Stati Uniti e India. L'amministrazione Obama non intende costruire la propria politica estera sulle alleanze succitate, ma si propone di governare il sistema globale mediante un consorzio di potenze, il G-20.

La missione degli Stati Uniti nel Terzo millennio, secondo l'impostazione del segretario di Stato Hillary Clinton, consiste nel radunare e organizzare i principali attori della scena globale per ricercare i comuni interessi e risolvere insieme i problemi che angustiano il Pianeta. E così è naturale e conseguente “resettare” le relazioni con la Russia, seguire una politica rassicurante  rispetto alle esigenze strategiche della Cina e, più in generale, inaugurare “un'era di impegno fondata su interessi comuni, valori condivisi e rispetto reciproco” (Hillary Clinton). Ed eccoci al punto, afferma Kagan. Il governo americano nega esplicitamente che le grandi potenze possano avere interessi confliggenti e tali da impedire qualsiasi forma di cooperazione. Una convinzione generosa ma probabilmente ingenua, al punto da  far sobbalzare i cultori della Scuola realista delle relazioni internazionali, tanto critici in passato verso l'impostazione ideologica di George W. Bush. Secondo Kagan, Obama si dimostra altrettanto ideologizzato quando nega la possibilità che le autocrazie possano avere interessi inconciliabili con i regimi democratici.

La nuova dottrina strategica obamiana propugna la neutralità e ritaglia per l'America un ruolo di arbitro e mediatore. Un ruolo che non consente di fare favoritismi e di distinguere tra alleati e avversari, tra democratici e tiranni. Per questo è bizzarro che oggi gli europei si sorprendano e si rammarichino della freddezza del presidente Usa nei loro riguardi. I paesi della “Vecchia Europa” di rumsfeldiana memoria, dopo anni di pace armata con Bush e dopo essersi riavvicinati all'atlantismo con l'avvento di Nicolas Sarkozy in Francia e il rafforzamento di Angela Merkel in Germania, non sembrano aver trovato nell'Obama osannato dalle loro opinioni pubbliche un partner ideale. Le relazioni tra Washington e i membri della “Nuova Europa”, calorose ai tempi di Bush, si sono decisamente raffreddate in seguito alla scelta della Casa Bianca di cancellare il sistema anti-missile che avrebbe dovuto essere installato in Polonia e Repubblica Ceca. Decisione presa in omaggio a un rinnovato spirito di dialogo con Mosca. L'esempio europeo dovrebbe far riflettere i consiglieri del presidente sul fatto che, nel Vecchio continente come altrove, ogni passo compiuto in direzione di potenze sino ad ora considerate avversarie rischia di tradursi in uno svantaggio per gli alleati dell'America. Invece, Obama e compagni confermano con il loro agire quotidiano di essere convinti che la dinamica delle  relazioni internazionali non sia un gioco a somma zero, ma che possa risolversi in una soluzione win-win, caratterizzata dal soddisfacimento degli interessi di tutti i partecipanti al gioco, ossia le  principali potenze globali.

Gli Stati Uniti di Obama vogliono essere amici di tutti. La Casa Bianca parte dal presupposto che l'astio che molte nazioni nutrono nei confronti degli Usa sia dovuto alla percezione negativa che la potenza americana suscita nel mondo, ad esempio in Iran e nel mondo islamico. Secondo questa analisi, per vincere diffidenze e risentimenti l'America dovrebbe atteggiarsi a promotrice disinteressata di armonia e concordia nelle relazioni tra Stati. Ci riuscirà? Difficile. Di sicuro, se la linea intrapresa dovesse essere portata sino alle estreme conseguenze, è facile prevedere uno sfaldamento, o quantomeno uno svuotamento, del sistema di alleanze che hanno retto il mondo occidentale sino ad oggi. Ciò segnerebbe il definitivo declino del peso europeo, ma anche lo spostamento del baricentro globale verso Est, verso il Pacifico. Sarebbe curioso se a sancire e ad accelerare un simile processo fossero le scelte politiche della potenza di riferimento (sinora)  del mondo occidentale. (F.L)
 

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