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Chatam House, gennaio 2010,

Lo Yemen rappresenta una minaccia. O meglio, l'eventuale crollo del suo sistema statale costituirebbe un vulnus per la sicurezza regionale e globale, data la delicate posizione strategica di questo stato che confina a nord con l'Arabia Saudita e si affaccia a sud sul Golfo di Aden, fronteggiando le coste della Somalia, il failed state per antonomasia. Si tratta del paese più povero del mondo arabo, attanagliato da una seria crisi economica e politica, che rischia di sfociare in una guerra civile.  Il fallito attentato sul volo 235 per Detroit (che si ritiene essere stato pianificato proprio nello Yemen)  e la successiva dichiarazione di intenti di al-Qaeda nella Penisola araba (Aqap) hanno attirato l'attenzione dei media mondiali sulla nuova roccaforte qaedista nella Penisola araba. In effetti, al-Qaeda sembra aver eletto Sana'a come nuovo centro di gravità delle sue attività nell'area e, come appunto dichiarato l'8 febbraio scorso da un suo portavoce, intende prendere il controllo dello stretto strategico di Bab al-Mandeb, nel golfo di Aden, che separa lo Yemen dal Corno d'Africa.

Obama ha promesso di scovare e punire i mandanti del fallito attacco natalizio, ma è consapevole delle difficoltà di un intervento punitivo in Yemen,

considerando le difficoltà sul terreno e la sovraesposizione militare americana in altri teatri di crisi. Le opzioni statunitensi sono anche limitate dall'aperta ostilità dell'opinione pubblica yemenita nei confronti della politica Usa in Medio Oriente così come si è sviluppata negli ultimo decenni.

A partire dall'11 settembre 2001 i governi americani hanno tenuto conto delle suddette limitazioni e hanno lavorato con discrezione a fianco del governo del presidente Saleh, partecipando alla formazione dell'anti-terrorismo locale e condividendo informazioni e dati con l'intelligence di Sana'a. Anche l'amministrazione Usa in carica ha la consapevolezza che inviare forze in Yemen significherebbe rafforzare piuttosto che indebolire al-Qaeda.

E' necessario un approccio diverso, sostiene Ginny Hill nel suo dettagliato report pubblicato dal think tank britannico Chatam House. I governi occidentali dovrebbero stringere i propri rapporti di collaborazione con i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), in particolar modo con l'Arabia Saudita. La posta in gioco è altissima poiché l'instabilità dello Yemen, se non contenuta, potrebbe espandersi e contagiare un vasto quadrante geopolitico, dal nord del Kenya, attraverso la Somalia e il Golfo di Aden, per arrivare all'Arabia Saudita. La pirateria, il crimine organizzato e l'estremismo jihadista riuscirebbero così a prosperare indisturbati, con implicazioni di notevole gravità per la sicurezza delle rotte marine, del transito attraverso lo Stretto di Suez e per la stabilità dei paesi vicini allo Yemen.

Le sfide alla propria sicurezza che Sana'a si trova attualmente ad affrontare sono sintomi di problematiche dalle radici molto profonde. Se si seguiterà a ignorare la natura delle cause della crisi attuale, che sta erodendo dalle fondamenta le istituzioni statali, al-Qaeda e i gruppi affiliati troveranno sempre più spazio per operare sul confine. Gli occidentali, e in generale chiunque abbia interessa alla stabilità dell'area, hanno il compito di contribuire con il loro expertise anti-terroristico, ma anche di favorire una comprensiva riforma sistemica nei paesi del Golfo, tale da agevolarne una progressiva transizione verso economie meno di dipendenti dalle esportazioni petrolifere. Oggi è il caso dello Yemen, in futuro potrebbe toccare all'Arabia Saudita.

Il budget del governo di Saleh è sproporzionatamente dipendente dalle entrate legate all'export di greggio, mentre gli investimenti negli atri settori dell'economia rimangono insufficienti per garantire la sostenibilità del sistema paese. Sotto questo profilo, è da notare che i 5 miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo promessi dai donatori internazionali nel 2006 sono stati erogati in minima parte. Allo stesso modo, gli sforzi diplomatici per indurre Saleh a dar vita a un processo di riforma inclusivo e trasparente del sistema politico nazionale si sono rivelati inconsistenti. In queste condizioni la temperatura dei conflitti interni è destinata ad alzarsi ancora. L'humus ideale perché lo jihadismo possa crescere e alimentarsi,

E' necessario fare di più, ma con una controindicazione. Una mediazione diretta occidentale sarebbe inopportuna e controproducente: un ruolo centrale nel comporre le fratture tra governo centrale e gruppi ribelli deve spettare agli stati arabi, certamente con un fattivo e discreto sostegno degli alleati americani ed europei. Il dramma attuale dello Yemen, con le sue ricadute in termini di insicurezza e instabilità, rappresenta una cupa anticipazione di quanto potrebbe accadere ai suoi vicini della Penisola araba. Motivo per cui i paesi del Ccg hanno tutto l'interesse a promuovere fattivamente la normalizzazione dello Yemen, mediante un approccio strategico che consideri parte del problema anche la regione del Corno d'Africa. Urge la costituzione di un gruppo di contatto internazionale che si incarichi al più presto di identificare e analizzare le sfide emergenti non solo nello Yemen, ma anche in Somalia e sul Golfo di Aden.

 

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