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Policy Network, 17 febbraio 2010,

Il ruolo del governo è centrale non solo per favorire la ripresa e l'espansione economica, ma anche per porre le basi per una futura e duratura crescita. In questo senso, uno Stato che voglia far sentire il proprio peso negli affari economici non dovrebbe temere il cambiamento, adoperandosi piuttosto per favorirlo. La crisi globale e gli interventi pubblici nell'economia da essa sollecitati l'hanno recentemente ricordato ai più distratti. Al riguardo, le vicissitudini che hanno contraddistinto ciclicamente la storia economica degli Stati Uniti si rivelano un prezioso caso di scuola per gli economisti, keynesiani e non. Ne è convinto Jeff Madrick, già editorialista economico per il  New York Times e  senior fellow presso lo  Schwartz Center for Economic Policy Analysis, The New School.
E' forse giunto il momento di liberare il dibattito da un pesante fardello, ossia il pregiudizio secondo il quale il governo centrale non abbia giocato alcun ruolo nella crescita economica della giovane nazione americana nel XVIII e XIX secolo. Tutt'altro, esso fu un dinamico vettore di innovazione. Sicuramente, l'influenza di Washington si è accrebbe durante la Grande depressione, quando Franklin Delano Roosevelt esaltò le prerogative dei poteri pubblici come dispensatori di giustizia sociale e di progresso attraverso l'investimento diretto in un sistema economico che era fallito miseramente negli anni venti del novecento. L'impronta del New Deal sarebbe rimasta nella carne del Paese nel trentennio successivo, caratterizzato dalle tensioni internazionali legate alla fase più rovente della Guerra fredda e dalla continua crescita del benessere del ceto medio americano.
La nuova crisi degli anni settanta scompaginò equilibri e certezze che parevano acquisite. Dal dibattito che fece seguito all'involuzione del sistema (non solo americano ma occidentale) emerse trionfante l'opzione neoliberista per cui “good government is less government”. Gli innegabili fallimenti dei governi vennero esagerati sia da alcuni ascoltati opinionisti che da diversi eminenti economisti quanto bastò per vincere, stravincere, la battaglia culturale contro l'interventismo. L'ossessione per la riduzione dei deficit di bilancio e il dilagare della deregulation finanziaria diventarono i capisaldi di una dottrina che dagli Stati Uniti venne poi esportata nel Regno Unito e in Europa. Milton Friedman, lo studioso di riferimento delle scelte di politica economica e monetaria delle amministrazioni Reagan, conserva molti ammiratori negli Stati Uniti e a Londra, ma forse più ancora in Polonia! Del resto, negli anni ottanta il modello americano poteva contare sull'attenzione di gran parte del mondo occidentale e non solo. Con l'esempio del suo sfavillante lifestyle consumistico, finì per attrarre anche ciò che rimaneva del vecchio mondo sovietico. Con il 1989 venne a cadere l'ultima barriera; il sistema americano aveva vinto, sia a livello politico, che culturale, che economico. Ciò non significò semplicemente, e soltanto, la vittoria del liberalismo sul totalitarismo. L'approccio neo-liberista, sebbene ammantato del multilateralismo clintoniano, poteva estendersi incontrastato.
Nel frattempo, la rete infrastrutturale americana si avviava all'obsolescenza, la dipendenza dal petrolio diventava drammatica e l'educazione pubblica si rivelava sempre più iniqua e discriminatoria. Infine, al cambio del millennio, gli statistici scoprirono come il salario medio dei lavoratori americani non fosse cresciuto nelle ultime decadi del novecento, dando anzi segnali di preoccupante flessione. La crisi scoppiata traumaticamente nel 2008 si è incaricata di sbugiardare la tesi secondo cui la crescita economica americana fosse stata sostenuta dalla rivoluzione tecnologia lanciata da Ronald Reagan, dalla finanza deregolamentata (e quindi libera dai controlli statali) e dal proverbiale spirito imprenditoriale statunitense. Una mezza verità. E' stata la finanza speculativa a sorreggere in modo fittizio l'espansione economica Usa degli ultimi decenni. Un'espansione peraltro caratterizzata, come anticipato, da grossi squilibri e dalla crescita della distanza tra le fasce più ricche della popolazione e il resto del paese.
Con queste premesse, come può stupire il fatto che la storia più recente degli Stati Uniti si risolva in un susseguirsi di crisi? Negli ultimi anni il deficit federale è cresciuto insieme al Pil. Purtroppo tutto ciò si è tradotto in una crescita insignificante dei salari, mentre i capitali sono stati assorbiti dalla speculazione edilizia e non dalla piccola e media impresa. Certo si è riscontrata una crescita dei profitti, che tuttavia non è stata adeguatamente investita dai governi dove più ce ne sarebbe stato bisogno: il sistema dei trasporti, l'istruzione, il settore energetico e la sanità. Prima della crisi il comparto finanziario rappresentava il 40% dei profitti realizzati.
Il caso americano mostra cosa può accadere quando il ruolo regolatore dello Stato viene attaccato in nome dell'ideologia e quando i governi stessi accettano di essere ridimensionati, rimuovendo le vecchie regole in determinati settori e non sostituendole con regimi di controllo adeguati. Non è una questione politica: negli anni novanta i governanti Democratici si sono rifiutati di regolamentare i derivati, negli anni duemila i Repubblicani non hanno vigilato sulla bolla immobiliare e sulle frodi collegate.
Un caso che dovrebbe far riflettere anche gli europei, negli anni pesantemente influenzati dal modello americano. Un modello accettato volontariamente, anche se spesso i governanti del Vecchio continente si sono giustificati sostenendo che la natura stessa del processo di globalizzazione accelerato degli anni novanta li abbia spinti verso il neoliberismo estremo. Ora che gli errori del passato sono stati riconosciuti, sia in Europa che sulla sponda opposta dell'Atlantico, esistono i margini per ripartire, proprio nel momento in cui più forte viene avvertita la concorrenza delle grandi economie emergenti asiatiche. Davanti alle sfide e alle inquietudini, i governi, rivalutati, sono ora chiamati al compito di sostenere gli individui, le comunità e il mondo imprenditoriale nella competizione globale. Come dimostrato dalle vicissitudini degli Stati Uniti, quando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche viene intaccata si va incontro a un deterioramento sociale ed economico della qualità della vita collettiva, con grave pregiudizio per la giustizia, il benessere e i valori democratici. (F.L.)
 

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