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Mancano ormai poche ore al voto in Gran Bretagna e il Daily Telegraph annuncia che ai Tory mancano 14 seggi per ottenere la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni, tale da permettere loro di formare un governo auto-sufficiente. Lo stesso popolare quotidiano britannico, non insensibile alla causa conservatrice, tuttavia nota come un exploit dei liberaldemocratici, unito a una convergenza tattica con i laburisti nei collegi contesi, potrebbe impedire la netta affermazione di Cameron e compagni e consegnare al paese un hung parliament incapace di esprimere una chiara maggioranza. Innegabilmente due fattori stanno incidendo sulla campagna elettorale; da un lato, l'affermazione personale del leader Lib-Dem Nick Clegg, dall'altro la non remotissima prospettiva della costituzione di un'alleanza Lib-Lab.

Il fattore generazionale spiega l'ascesa di Clegg
Jonathan Pontell, collaboratore del quotidiano The Independent da sempre interessato a valutare in chiave socio-culturale gli avvenimenti dell'attualità politica, cerca di contestualizzare l'ascesa di Clegg. Una dinamica simile al grande successo riportato da Cameron al suo primo apparire sulla scena nazionale nel 2005 e che sarebbe da ricondurre al bisogno avvertito nella società, non solo britannica, di un ricambio generazionale nelle posizioni di vertice. Un ricambio fisiologico che sta avvenendo in tutti gli ambiti della società e che molti si augurano possa essere sancito a livello simbolico dalla sostituzione di Gordon Brown, appartenente alla generazione dei baby boomers (legata all'esplosione demografica del dopoguerra e cresciuta negli anni sessanta), con personalità più giovani. Qualcuno peraltro guarda con preoccupazione e disillusione al declino dei sessantenni idealisti a vantaggio del cinismo della cosiddetta X generation, cresciuta nell'apatia post ideologica degli anni ottanta e novanta. La realtà è che Clegg e Cameron appartengono a un altro segmento generazionale, mediano tra i due succitati, nel quale Pontell colloca i nati tra il 1954 e il 1965. Due terzi dei primi ministri e dei capi di Stato dei paesi membri della Ue e della Nato, Obama, Merkel e Sarkozy su tutti, appartengono a questo comparto generazionale che, sebbene incastonato anagraficamente tra i baby boomers e la X generation, presenta delle caratteristiche proprie e originali.  Si tratta di idealisti pragmatici, condizionati dai grandiosi e drammatici avvenimenti sociali degli anni sessanta senza tuttavia averne preso direttamente parte. Mentre i baby boomers sessantottini cercavano vanamente di cambiare il mondo, la generazione Jones (come Pontell la definisce) si formava nelle aule scolastiche con la speranza di poter partecipare un giorno alla ridefinizione delle società occidentali. Vanamente. Al momento di entrare nell'arena, costoro hanno dovuto confrontarsi con la disillusione, il riflusso politico e la stagnazione economica degli anni settanta e con il trionfo consumistico del decennio successivo. L'auto-gratificazione, l'affermazione personale e il successo professionale sono diventati così gli unici orizzonti plausibili.
Il momento del riscatto sembra tuttavia arrivato. Ovunque i boomers, la generazione che ha tenuto a lungo la scena per sé e che non è stata in grado di mantenere le promesse di rinnovamento che aveva lasciato intravedere, devono segnare il passo. La generazione Jones, che rappresenta ormai un quarto della popolazione adulta del mondo occidentale, sta occupando tutte le posizioni di responsabilità non solo nel campo dell'economia e delle professioni ma anche nei parlamenti e negli esecutivi di governo. Cameron ieri, Clegg oggi e, forse, David Miliband domani, si stanno avvantaggiando di questo ricambio che, si badi bene, non è soltanto demografico. Pontell, che si include nella generazione Jones, lo evidenzia in chiusura del suo contributo: "Siamo ottimamente posizionati per comprendere e gestire i cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo. Il nostro idealismo pratico si è formato a contatto diretto con le spesso irrealistiche pretese dei sessantottini. Non ci siamo compromessi e consumati in sterili e distruttive battaglie ideologiche, motivo per cui siamo meglio attrezzati per tenere insieme una società che rischia di andare in pezzi, a causa delle inconcludenti divisioni interne al mondo dei baby boomers e al disimpegno e alla volatilità della X generation. Insomma, siamo pronti per la leadership, anche in Gran Bretagna."

Votare con la testa
Alla vigilia di uno scontro elettorale i dati possono essere letti e interpretati responsabilmente, ma rischiano talvolta di venire manipolati. Osservarli con distacco "statistico" può risultare pertanto complicato; Sir Robert Worchester, fondatore dell'istituto di ricerca Ipsos MORI, si cimenta nell'impresa offrendo un contributo tecnico ai lettori del Guardian. Un anno fa il partito conservatore britannico si attestava al 43% dei consensi, staccando il Labour di 14 punti percentuali e i Lib-Dem di ben 25, oggi le distanza si sono accorciate sensibilmente, con i conservatori in calo di circa 8 punti, i laburisti in leggera perdita e i liberaldemocratici a + 9. Considerazioni: Nick Clegg potrà fregiarsi nella migliore delle ipotesi di un centinaio di seggi a Westminster e nella peggiore di una sessantina; tendenzialmente, sia David Cameron che Gordon Brown dovranno ascoltare le sue richieste se vorranno avere la speranza di formare un esecutivo stabile dopo il voto del 6 maggio.
Insomma, la novità più appariscente sembrerebbe l'opportunità per i Lib-Dem di mettere finalmente a frutto il proprio rilevante peso elettorale. Nelle due ultime elezioni generali il sistema di voto maggioritario britannico a turno unico ha frustrato le loro velleità. Infatti, nel 2001, avendo ottenuto il 19% dei voti popolari, i Lib-Dem si sono visti assegnare solo l'8% dei parlamentari complessivi. Attualmente, sebbene nel 2005 avessero raccolto un lusinghiero 23%, i liberaldemocratici rappresentano solo il 10% dei deputati alla Camera dei Comuni. Rispetto a cinque anni fa il consenso per i Lib-Dem è cresciuto ed è probabile che esso si traduca in aumento nel numero dei seggi conquistati, ma non sta qui la vera possibilità di incidere sulla dinamica bipartitica britannica. Infatti, l'affermazione di Clegg e compagni potrà concretizzarsi soltanto se gli elettori, liberaldemocratici e laburisti, utilizzeranno razionalmente il proprio voto per impedire l'affermazione secca del partito conservatore. Sono i numeri a dirlo.
Come noto, decisiva sarà la battaglia nei cosiddetti collegi marginali detenuti da laburisti e liberaldemocratici; se i Tory riuscissero a conquistarli raggiungerebbero la quota di seggi necessari per governare da soli. In particolare, Ipsos MORI si è concentrato sui collegi oggetto di un contesa più serrata, identificandone una trentina dove pare possibile un'affermazione dei liberaldemocratici tale da mortificare ogni velleità del partito conservatore di tornare a Downing Street dopo 13 anni. Per trasformare questa ipotesi in realtà è fondamentale uno sforzo informativo, poiché solo il 30% degli elettori che vivono nelle costituency marginali dove verranno assegnati i seggi decisivi sono al corrente di quanto siano importanti le proprie scelte. Inoltre, 8 elettori su 10 si mostrano propensi a votare comunque il candidato preferito (ad esempio, laburista), a prescindere dalla reali possibilità di vittoria di quest'ultimo e senza considerare il fatto che favorire un altro candidato (ad esempio, Lib-Dem) significherebbe accrescere le chance di successo complessivo per il proprio partito (ad esempio, formando una coalizione Lib-Lab ed escludendo i conservatori dal governo).
Mediante calcoli complessi e accurati, Sir Worchester puntualizza che nella gran parte delle elezioni a decidere l'esito sono i voti fluttuanti da un partito all'altro, quantificabili in 4 su 100.  Dunque, basterebbe che un elettore su venticinque votasse in maniera tattica ("usando il cervello e non il cuore", come implorano da giorni alcuni leader laburisti) per determinare l'esito delle elezioni. Ovviamente si tratta degli elettori che vivono nelle aree del paese caratterizzate da collegi marginali o contesi. Senza dimenticare che un fattore di incertezza incide sul calcolo: storicamente, in Gran Bretagna il 10% degli elettori decide per quale candidato votare soltanto nelle ultime ventiquattro ore. Ciononostante, il prestigioso istituto non rinuncia a pronosticare un'affermazione parziale dei Tory, che tuttavia il 6 maggio dovrebbero fallire, per una quarantina di unità, la fatidica quota 326 (seggi) necessaria per governare. In quel caso, Gordon Brown avrebbe il diritto costituzionale di tentare per primo la formazione di un nuovo governo che, se trovasse l'appoggio parlamentare di Clegg, potrebbe appoggiarsi a una coalizione Lib-Lab, il sogno di molti riformatori britannici e europei. (Fabio Lucchini)
 

Data:





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