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di Paul Krugman, Critica Sociale, n.4/2010,

Il vertice del G 20 in Canada è stato un passo avanti sulla strada della cooperazione, o un passo indietro sulla strada del disaccordo. Tutte e due le cose, apparentemente. L'appello al risanamento dei bilanci è stato formulato in modo da accontentare un po' tutti, ma "è tutto da dimostrare che un risanamento accelerato dei conti pubblici in questo momento possa sostenere la crescita, invece di danneggiarla". Martin Wolf sul Financial Time.
Su questo punto passa la linea che divide le due sponde atlantiche tra chi vede chiudere la forbice tra disavanzo e Pil tagliando il disavanzo, e chi stimilando la crescita del Pil. Si è asistito ad un vero e proprio spostamento delle geometrie del potere verso le nuove dinamiche della crescita tra America, Cina, India, Brasile, Russia. Europa fatica a restare al passo.
Il rapporto transatlantico è complicato da due fattori Usa:
1 - USA necessitano della crescita all'estero per tirare la propria ripresa. Anche col sostegno alla domanda interna e al credito.
2 - I repubblicani temono che nuovi finanziamenti statali portino a nuove tasse, e preferiscono l'austerità. In questo trovano negli europei degli alleati.
In Italia Tremonti mette in guardia sui volumi della dinamica finanziaria che sono tornati ai livelli pre-crisi. Francesco Forte insiste sul contenimento del deficit per ridare fiducia a imprese e famiglie per rilanciare l'economia. E teme una prospettiva di ripresa che si leghi ad una spinta inflattiva.
Il punto dolente, oggi, è nel rapporto incestuoso che si è determinato in Europa tra Banche-Stato: lo Stato ha finanziato le banche per sostenere il credito ed evitare default, per far questo ha accresciuto il proprio indebitamento. Ma con chi ha il debito lo Stato? Con le Banche. Lo Stato si incarta e le banche se lo divorano.
Sempre Martin Wolf: "Quando lo Stato arriva in soccorso, la finanza può vincere giocando allo scoperto contro quegli Stati che lei stessa ha mandato in bancarotta". Ora la concorrenza è tra gli Stati, dunque, e il gioco è a chi si lascia il cerino in mano: dopo aver "messo in crisi i conti pubblici - sostiene Martin Wolf - questa concorrenza tra Stati "ha contribuito a dare origine alla crisi e ora ostacola la ripresa".
Alcune citazioni, dopo il vertice canadese:
"Nessuno può sfuggire alla necessità di attuare politiche che stimolino la crescita". Questa la lettura autentica delle conclusioni del G 20 proposta, all'indomani del vertice di Toronto, da Dominique Strauss Kann, direttore generale del FMI.
Obama: "La nostra salute fiscale sarà basata in futuro in gran parte sulla nostra abilità nel creare oggi crescita e occupazione" .
Per il WSJ: si tratta della "fine del neo-kenyesianesimo".
Nel testo finale approvato al summit di Toronto, il presidente americano è riuscito a includere delle dichiarazioni di segno diverso dalla linea Merkel. "Esiste il rischio - vi si legge - che tagli di spesa sincronizzati danneggino la ripresa".
Commenta, e spiega fuori dai denti, il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: "Se spingiamo tutti insieme sul pedale del freno, si torna in recessione".
Il consigliere economico di Obama, Larry Summers, aggiunge che "se non torna la crescita è inutile illudersi, i deficit pubblici continueranno a salire in modo automatico". Di qui l'altra raccomandazione adottata al G20: "Per riequilibrare la domanda globale, le economie che hanno attivi commerciali con l'estero sono chiamate a favorire la crescita interna".
India e Brasile sono sulla stessa lunghezza d'onda. Il premier indiano Manmohan Singh ha parafrasato Geithner: "Se tutti tagliano le spese simultaneamente, si va verso una nuova crisi".
Per tornare all'impressione iniziale descritta in queste note, infine, il vertice di Toronto disegna uno scenario futuro in cui il ceto medio cinese, indiano e brasiliano sostituirà gradualmente il consumatore americano, come motore propulsore dell'economia mondiale.
Chi ha dato voce in modo più netto alle conclusioni del vertice è stato il neo-Nobel, Paul Krugman sul NYT. Pubblichiamo il suo articolo (The Third Depression, New York Times, 27 giugno 2010)


Le recessioni sono frequenti; le depressioni sono rare. Da quel che mi consta sono esistite soltanto due epoche nella storia dell'economia definite comunemente ai loro tempi "depressioni". Si tratta degli anni della deflazione e dell'instabilità che fecero seguito al Panico del 1873, e agli anni della disoccupazione di massa successivi ala crisi finanziaria del 1929-31. Né la Lunga depressione del XIX secolo, né la Grande depressione del XX secolo furono epoche di declino ininterrotto. Al contrario in entrambi i casi vi furono periodi nei quali l'economia crebbe. Tali miglioramenti, in ogni caso non furono mai sufficienti a rendere nullo il danno arrecato dalla depressione iniziale, e furono pertanto seguiti a ruota da ricadute. Temo tanto che oggi ci troviamo nelle prime fasi di una Terza depressione. Quasi certamente assomiglierà alla Lunga depressione che alla molto più terribile Grande depressione. Nondimeno, i costi legati a tale circostanza saranno incalcolabili per l'economia globale e, più di ogni altra cosa, per milioni di vite rovinate dalla mancanza di un posto di lavoro.
Questa depressione sarà innanzitutto un fallimento della politica. Pressocchè in tutto il mondo - e di recente anche allo sconsolante e deprimente meeting de G 20 di Toronto - i governi sono ossessionati dal'inflazione allorchè la vera minaccia è la deflazione, e predicano la necessità di stringere la cinghia nel mercato tesso in cui il vero problema è una spesa inadeguata.
Nel 2008 e 2009 pareva avessimo tratto qualche utile insegnamento dalla storia: a differenza dei loro predecessori - che a fronte a una crisi finanziaria avevano alzato i tassi di interesse - gli attuali responsabili della Federal Reserve e della Banca Europea Centrale hanno tagliato tassi e si sono adoperati per sostenere il mercato del credito. Diversamente dai governi del passato che avevano tentato di pareggiare i bilanci a fronte di un'economia in forte calo, i governi contemporanei hanno lasciato salire i deficit.
Infine migliori politiche sono tornate utili, evitando al mondo intero il tracollo completo: si può affermare che la recessione provocata dalla crisi finanziaria si sia conclusa l'estate scorsa.
In futuro, però, gli storici ci diranno che quella non sarà stata la fine della Terza depressione, proprio come la ripresa degli affari che ebbe inizio nel 1933 non segno la fine della Grande depressione.
Dopo tutto, la disoccupazione - in particolar modo quella sul lungo periodo - resta a livelli che fino a non molto tempo fa sarebbero stati considerati catastrofici, e non vi è segnale alcuno che all'orizzonte si profili un'inversione di tendenza.
Sia gli Stati Uniti, sia l'Europa sono a buon punto nel raggiungere le trappole deflazionistiche di stile giapponese. A fronte di questo cupo contesto, uno potrebbe aspettarsi che i politici si siano resi conto di non aver ancora fato abbastanza per promuovere la ripresa.
Invece no: negli ultimissimi mesi abbiamo assistito a una strabiliante riaffermazione dell'ortodossia della moneta forte e dell'ortodossia del pareggio di bilancio.
Se ci si attiene al linguaggio adoperato, questo revival del culto dei vecchi tempi risulta quanto mai evidente in Europa, dove le autorità paiono riprendere pari pari le espressioni che utilizzano dalle raccolte dei discorsi di Herber Hoover, fino al punto da includere la dichiarazione che alzare le tasse e tagliare la spesa, di fatto espanderà l'economia migliorando la fiducia nelle imprese.
Se ci occupiamo di questioni pratiche, in ogni caso, l'America non sta facendo molto meglio. La Fed pare essere consapevole dei rischi di deflazione.Il fatto è, però, che in relazione a questi rischi sta proponendo di fare...beh, un bel niente. L'Amministrazione Obama è perfettamente consapevole dei pericoli legati all'approvazione prematura del rigore fiscale, ma poiche i rappresentanti repubblicani e i democratici conservatori al Congresso non daranno la loro approvazione per ulteriori aiuti ai governi statali, l'austerità entrerà in vigore in ogni caso, sotto forma di tagli al bilancio a livello statale e locale.
Come spiegare questa rota sbagliata in politica? I difensori della linea dura per legittimare le proprie azioni invocano i guai con i quali sono alle prese la Grecia e le altre nazioni ubicate ai confini esterni dell'Europa. Ed è vero che chi investe in obbligazioni si è rivolto a governi con deficit intrattabili. Non vi sono tuttavia prove attendibili che il rigore fiscale sul breve periodo possa rassicurare gli investitori a fronte di un'economia depressa. Al contrario: la Grecia ha approvato rigide misure di austerità, per poi ritrovarsi solo con spread del rischio che aumentavano sempre più.
L'Irlanda ha imposto drastici tagli alla spesa pubblica, per poi ritrovarsi considerata da parte dei mercati in una situazione persino peggiore della Spagna. Quanto a quest'ultima, finora è stata più riluttante a somministrare la medicina dei più intransigenti.
E' un po' come se i mercati finanziari capissero ciò che i politici non sembrano capire: che mentre la responsabilità fiscale a lungo termine è importante, tagliare la spesa nel bel mezzo di una depressione ch si aggrava e spiana la strada alla deflazione, di fatto è controproducente.
Pertanto non penso che tutto ciò abbia a che vedere davvero con la Grecia o con un altro qualsiasi realistico apprezzamento dei bilanciamenti tra deficit e posti di lavoro.
Piuttosto, si tratta della vittoria di un'ortodossia che ha poco a che vedere con l'analisi razionale, il cui dogma principale è che nei tempi duri si dimostra di avere leadership imponendo sacrifici al prossimo.
E chi pagherà il prezzo di questo trionfo dell'ortodossia? Le decine di milioni di lavoratori disoccupati, molti dei quali resteranno senza occupazione per gli anni a venire, e alcuni dei quali potrebbero non trovare mai più un posto di lavoro.
 

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