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Chris Patten, New York Review of Books, marzo 2010,

Alcuni tra gli amici americani temono che la nostra civiltà cristiana in Europa (a volte bisogna ricordarselo), stia per essere sopraffatta da quelle orde islamiche che, bloccate più di trecento anni fa alle porte di Vienna, sono riuscite alla fine a irrompere nel cuore del nostro continente. Altri, un po' irritabili, credono che noi europei abbiamo dimenticato cosa si debba fare per avere un ruolo nel mondo.
Bruxelles vorrebbe smentire simili preoccupazioni. Dopo mercanteggiamenti insistiti sono emersi i nomi, precedentemente poco conosciuti, del primo presidente permanente del Consiglio Europeo (Herman Van Rompuy) e dell'Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune (Catherine Ashton); in altre parole, il ministro degli esteri europeo.
Ruoli che sono la progenie del Trattato di Lisbona e che alcuni ritengono essere la risposta alla famosa domanda che Henry Kissinger: "Se voglio chiamare l'Europa per scoprire che cosa pensa, qual è il numero di telefono? "La risposta è ora più chiara? Spero che le due nomine si rivelino felici, ma non sono sicuro che l'Europa abbia improvvisamente trovato un'unica voce. Mister Van Rompuy e la baronessa Ashton vogliono dare un primo sguardo allo stato dell'alleanza transatlantica. Quando guardano a ovest, che cosa vedono?
In primo luogo, un fiorente traffico commerciale con positive ricadute per entrambe le sponde dell'Atlantico e anche per il resto del mondo. Il Centro per le Relazioni Transatlantiche presso la Johns Hopkins University raccoglie regolarmente i dati relativi al flusso degli scambi e degli investimenti tra America ed Europa. Stati Uniti ed Europa restano di gran lunga i più importanti partner commerciale gli uni dell'altra. Prima del crollo finanziario e l'inizio della recessione, l'economia transatlantica stava generando circa 2.500 miliardi di interscambio commerciale annuo.
Alcuni pensano che i legami commerciali potrebbero essere ancora più forti se solo avessimo potuto negoziare un'area atlantica di libero mercato. Mi permetto di dubitarne. La maggior parte degli ostacoli a un'ulteriore intensificazione degli scambi non sono le tariffe, ma le questioni di regolamentazione che devono essere affrontate di volta in volta da parte di organismi spesso indipendenti dai governi. Si consideri, ad esempio, il tempo impiegato a negoziare un accordo piuttosto insoddisfacente sui "cieli aperti" relativo al traffico aereo tra America ed Europa. I politici europei tendono a considerare scontato il successo del nostro rapporto commerciale con gli Stati Uniti. Quando vanno a Washington cercano altre cose, forse soprattutto la certezza di essere ancora importanti, amati, e che agli Stati Uniti interessi ancora ciò che essi hanno da dire sui problemi del mondo.
Non è corretto sostenere che oggi gli europei siano condizionati dalla loro debolezza rispetto agli Stati Uniti. La nostra attuale condizione non è paragonabile agli anni del secondo dopoguerra, quando le nostre economie erano in rovina e l'auto-stima di gran parte del continente era a brandelli. Ma allora avevamo consapevolezza della nostra importanza. L'Europa era il fulcro della situazione di stallo geostrategico tra l'impero comunista dell'Urss e gli Stati Uniti. Ma quanto contiamo ora che il Muro di Berlino è crollato e la Guerra Fredda è terminata? Certo, abbiamo raggiunto un sorprendente grado di integrazione economica, siamo diventati, come spesso è stato detto, un gigante economico, un grande blocco commerciale, un peso massimo nella diplomazia ambientale e il più grande contribuente mondiale per l'assistenza allo sviluppo ai poveri del mondo. Politicamente, d'altra parte, siamo rimasti un peso mosca. Trattare con noi a Washington ha spesso significato una scelta tra Francia e Gran Bretagna piuttosto che un confronto serio su una posizione coerente e costante dell'Europa rispetto a questioni delicate come la Russia, il Medio Oriente o il Pakistan.
La nostra consapevolezza dell'inadeguatezza politica dell'Europa è aumentata dopo l'implosione dell'Unione Sovietica e lo smembramento della Jugoslavia. Negli anni novanta abbiamo finalmente sviluppato una linea politica nei Balcani occidentali e abbiamo combattuto in Bosnia e Kosovo al fianco degli Stati Uniti per stabilizzare la regione. Più di recente, l'Europa nel suo complesso è stata sgravata e deresponsabilizzata dall'unilateralismo sfortunato del Presidente Usa George W. Bush. Se è vero che i governi di alcuni Stati membri dell'UE, Gran Bretagna, Spagna e Italia in testa, hanno seguito per anni l'amministrazione Bush allo stesso modo di Ruth nel Vecchio Testamento ("dove vai tu, andrò anch'io"), l'opinione pubblica europea si è mantenuta prevalentemente ostile alla politica estera e di sicurezza americana dopo il 2003.
Quale è stata in quegli anni la posizione degli europei? Semplice. Definire se stessi (a costo zero) moralmente superiori rispetto agli americani, a Bush, a Cheney e a Rumsfeld. Con il sottinteso che se solo l'America avesse avuto un presidente multilateralista avrebbe trovato nell'Europa un partner affidabile e pronto a cooperare per fare del mondo un posto migliore.
E poi è arrivato Obama. Durante la campagna elettorale egli è stato, forse rischiando di perdere per questo, il candidato dell'Europa. Ci è apparso premuroso, saggio per la sua età, dotato di grazia ed eloquenza. Un moderato audace, una star se confrontato con i grigi leader europei (pronti a fare la coda nella speranza di rubargli un poco di fascino tra i flash e le riprese). E ora? Come possiamo rispondere alla sfida di avere finalmente un multilateralista alla Casa Bianca, un uomo che vorrebbe un'Europa più attiva, ad esempio nella guerra in Afghanistan? Che cosa deve fare l'Europa?
Cominciamo con il mettere meglio a fuoco gli Stati Uniti. A parte i bei discorsi sul multipolarismo e su un mondo post-americano, gli Stati Uniti rimangono l'unica superpotenza, l'unico paese che conta davvero in tutto il mondo. Ha creato tra un quinto e un quarto della produzione mondiale per oltre 130 anni. Conta su di una popolazione ancora in crescita, anche se si tratta ormai di una crescita alimentata soprattutto dall'immigrazione dall'Asia e dall'America Latina piuttosto che dall'Europa. E' un paese che ha raggiunto l'eccellenza militare sulla terra, sul mare, nell'aria e persino nello spazio e che spende la metà dell'investimento complessivo delle altre nazioni in personale militare e tecnologia. L'America investe il 2,7% del proprio Pil nell'Università e nella "ricerca e sviluppo", il doppio di quanto fanno gli europei, e di conseguenza attrae le menti più brillanti al mondo.
Dato che gli Stati Uniti sono, più di ogni altro paese, una società globale e un microcosmo, gli americani spesso sembrano stranamente ripiegati su se stessi. Julian Barnes ha scritto una volta che se uno volesse vedere il proprio paese scomparire, non dovrebbe far altro che andare in America e sfogliare un giornale. Gli americani sono più propensi a credere in Dio e ad andare in chiesa rispetto agli europei. Divorano risorse energetiche e sono fieri di avere una costituzione che permetta loro di portare armi con cui difendersi dal prossimo. A differenza degli europei, tollerano a cuor leggero una maggior grado di disuguaglianza sociale e, come notava John Kenneth Galbraith, hanno un particolare concetto di ragionevole adeguatezza nel soddisfare le loro esigenze; di conseguenza spendono molto più di quanto guadagnano (sicuramente una delle ragioni che spiegano gli attuali guai dell'economia globale). L'America a volte ci sorprende per la determinazione con cui persegue i propri obiettivi nazionali, specialmente quando sono diversi dai nostri, come spesso accade negli affari economici internazionali e in merito alla politica energetica e ambientale.
E allora, l'Europa come dovrebbe impostare il suo rapporto con gli Usa per catturare l'attenzione del presidente Obama? Come può evitare di cadere nell'irrilevanza se la popolazione, la produzione e il tasso di crescita economica calano, se la quota europea nel commercio internazionale diminuisce e se l'eurozona sviluppa profonde linee di faglia a causa del deficit di bilancio in Grecia e, forse, in Portogallo e Spagna? Suggerisco cinque linee guida per la politica europea, anticipando che le mie speranze sono superiori alle mie aspettative.

1. Noi europei dobbiamo cambiare prospettiva, essere audaci e credere che ciò che più si adatta agli interessi europei possa anche corroborare il nostro rapporto con l'America. Dovremmo, per esempio, impedire che l'Iran acquisisca la tecnologia nucleare per utilizzarla a fini militari per il timore che i missili di Teheran raggiungano l'Europa e non perché siamo alleati di Washington. Dovremmo lavorare per sostenere la democrazia in Pakistan e impedire che il paese cada nelle mani dei talebani e dei loro alleati estremisti. Questo per scongiurare uno scontro nucleare in Asia meridionale e per contenere le minacce terroristiche che, orchestrate nei campi di addestramento in Pakistan, potrebbero interessare nuovamente l'Europa. Ecco perché ci sono buoni motivi per combattere a fianco degli Stati Uniti in Afghanistan, dove la portata del nostro impegno militare e finanziario determineranno quanto saremo in grado di incidere nelle scelte strategie e tattiche.

2. La nostra retorica che ci descrive partner internazionali dell'America per la pace non dovrebbe allontanarci troppo dalla realtà. Gli europei tendono a identificarsi più con Venere che con Marte, circostanza di cui il resto del mondo dovrebbe essere loro profondamente grati data la storia del ventesimo secolo. Tuttavia, forse si sta esagerando. Non solo in Europa si spende poco in hard power, ma i 200 miliardi di euro investiti annualmente non sono ben allocati. Il 70% degli uomini e delle donne in uniforme non sono in grado di intervenire al di fuori del loro territorio nazionale. Manca un sistema di coordinamento della difesa comune europea e di armonizzazione delle norme militari al fine di acquisire gli elicotteri, gli aerei da trasporto, le apparecchiature di comunicazione, i droni di sorveglianza che sono necessari per le operazioni del ventunesimo secolo.
Per ragioni storiche, morali, e securitarie, l'Africa dovrebbe essere considerata un'area di particolare responsabilità europea. E' fondamentale implementare le forme d'aiuto, la diplomazia, la capacità di mantenimento della pace e di sostegno dello sviluppo sostenibile, del buon governo, e della collaborazione regionale nel continente.

3. Nei settori dove l'Europa ha una politica interna seria, è più facile stabilirne una esterna efficace. Un buon terreno di applicazione di questo assunto potrebbe essere la deficitaria politica energetica europea nei confronti della Russia. Al momento, abbiamo una crescente dipendenza dalle forniture russe di gas naturale, con il 40% delle importazioni Ue che provengono da Mosca. Si è permesso alla Russia di dividere gli Stati membri dell'Ue sulla politica energetica. Ad esempio, la Germania è entrata in una stretta alleanza con Gazprom per costruire un nuovo gasdotto (Nord Stream) sotto il Baltico, che aggira i paesi di transito tradizionale come l'Ucraina e la Polonia. L'ex cancelliere Gerhard Schroeder è diventato presidente del comitato degli azionisti di Gazprom poco dopo la cessazione del suo mandato berlinese. Nel frattempo, la Ue sta sviluppando un progetto rivale, Nabucco, con lo scopo di importare gas dalla regione del Caspio, con Gazprom che a sua volta tenta di bloccare le importazioni di gas in Europa sud-orientale mediante la costruzione di un altro gasdotto in competizione con Nabucco.
L'obiettivo di Mosca, chiaramente, è di aumentare la dipendenza dell'Europa dalle sue forniture di gas. In mancanza di un approccio comune in materia di energia, vi è il rischio che la nefasta profezia pronunciata da Richard Perle negli anni ottanta, che si riferiva all'utilizzo dell'arma energetica da parte russa, si avveri al più presto. A dispetto di tutto ciò, molte compagnie energetiche in paesi quali Francia, Austria, Italia e Germania continuano a stringere accordi bilaterali con la Russia e nella sostanza a opporsi alla creazione di un'unica politica energetica europea che permetta a Bruxelles di parlare con una voce forte nelle trattative. Un mercato unico europeo dell'energia richiede lo stabilimento di solidi network tra i paesi europei e la separazione della fornitura di gas e di energia elettrica dalla loro distribuzione.
La strategia americana verso la Russia si concentra soprattutto sulla possibilità di ottenere la collaborazione di Mosca per mettere in atto politiche collettive su questioni globali che interessano gli Stati Uniti e i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu: Iran, Corea del Nord e disarmo nucleare sono gli esempi più eloquenti. Le principali preoccupazioni europee nei confronti del Cremlino afferiscono alla sicurezza energetica e alla stabilità della regione tra il fianco orientale dell'Unione Europea e i confini occidentali della Russia. Su questo punto esiste un profondo disaccordo con la Russia che siamo troppo riluttanti ad ammettere. Mosca ha una visione ottocentesca delle sfere di influenza in Europa. Vorrebbe limitare la sovranità dei suoi vicini, come l'Ucraina e la Georgia, mentre noi europei desideriamo che questi paesi siano prosperi, democratici e indipendenti.
L'insoddisfacente approccio sin qui avuto con la Russia è stato probabilmente il più grande fallimento nel tentativo di affermare una politica estera comune europea. Per costruire una tale politica è d'obbligo, come ho appena sostenuto, costruire una politica energetica condivisa, con un mercato pan-europeo e con l'applicazione delle norme comunitarie sulla concorrenza, al fine di rompere i monopoli nazionali delle società energetiche. Curiosamente, coloro che sono usualmente in prima linea nel richiedere più Europa sono i più restii a muoversi in questa direzione quando si parla di energia, mentre coloro che sono solitamente contrari a una maggiore competenza europea (come la Gran Bretagna) sono i più forti sostenitori di una politica energetica più coordinata e decisa.

4. La politica esterna europea risulta più efficace quanto più il suo obiettivo è vicino a casa. Diamo il meglio nel nostro quartiere, e il nostro peggio quando abbiamo a che fare con la Russia. Il più grande successo della politica estera dell'Europa è stato l'allargamento della Ue. Questo ha promosso e consolidato l'affermazione della democrazia nel continente e la sua stabilizzazione senza l'uso delle armi. Questo è successo, in un primo momento, quando Spagna, Portogallo e Grecia si scrollarono di dosso i regimi autoritari e poi di nuovo quando l'impero sovietico si è sciolto.
Il lavoro non è finito. La prospettiva di nuove adesioni all'Unione europea è al centro della nostra politica nei Balcani occidentali. Altrove, gli europei guardano con favore la "vocazione europea" dell'Ucraina, ma non si impegnano per favorire la sua adesione all'Ue. C'è una bella differenza! Invece di cavillare, Bruxelles avrebbe dovuto offrire già da tempo a Kiev un programma realistico e un calendario per le riforme da intraprendere al fine di acquisire lo status di candidato. In mancanza di ciò, le forze democratiche e filo-occidentali in Ucraina continueranno a perdere terreno rispetto a quelle strettamente allineate con la Russia per interessi economici e politici.
Per quanto riguarda la Turchia, anni fa si è stabilito che avremmo negoziato l'adesione all'Ue solo dopo che quel paese fosse diventato pienamente democratico, con un'economia aperta, il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto. Più la Turchia ha riformato in tal senso, più alcuni leader europei hanno dimostrato ostilità all'idea della sua ammissione. Esiste il pericolo concreto che la questione, centrale per il futuro della Ue, possa essere risolta dal pregiudizio populista in Francia, Austria e Germania e dalla strumentalizzazione della popolazione della metà greca di Cipro, i cui leader hanno portato al fallimento il piano delle Nazioni Unite per la riunificazione dell'isola.
Perdere la Turchia costituirebbe un grave passaggio a vuoto per l'Europa e si ripercuoterebbe sul nostro ruolo negli affari mondiali. Ci troveremmo infatti nella condizione di aver rifiutato l'adesione a un paese che è una potenza regionale importante, un membro cruciale della NATO e un hub energetico di riferimento. Gli europei si esporrebbero inoltre all'accusa di voler bruciare i ponti con il mondo islamico piuttosto che costruirli.

5. Ecco una mia ultima raccomandazione politica. L'Europa non è e non diventare una superpotenza o un superStato. A differenza degli Stati Uniti, agli europei non interessa e non serve essere ovunque. Non abbiamo bisogno di una politica per ogni problema e per ogni luogo. Ma dove il problema riguarda l'Europa, è necessario elaborare risposte politiche che non consistano semplicemente nell'attesa delle mosse americane e nella decisione di concordare, o meno, con esse. Prendiamo ad esempio il Medio Oriente: negli anni di Bush gli europei hanno dissentito su tutto e si sono allontanati anche da Israele; ora è importante capire che la situazione di stallo che viviamo non è più sostenibile e che la soluzione di uno Stato israelo-palestinese risulta né praticabile, né auspicabile.

Quindi cosa possiamo fare per migliorare la situazione in una regione che vede l'America impegnata ma non rispettata e l'Europa inerte e insignificante? Quantomeno, porre fine alla frammentazione palestinese in Cisgiordania, a Gaza e Gerusalemme est. Potremmo fare questo, per esempio, premendo più attivamente per la creazione di un nuovo governo di unità nazionale in Palestina che si impegnasse a trattare, sulla base di un cessate-il-fuoco con Israele, per raggiungere finalmente una soluzione negoziata. Ha importanza se l'Europa non è sulla stessa  lunghezza d'onda degli Usa o dell'associazione filo-israeliana Aipac? Francamente, no.
Dubito che il presidente Obama presterà molta attenzione nei prossimi mesi al dibattito europeo suoi rapporti con gli Stati Uniti. Egli sarà invece concentrato su come rafforzare le relazioni dell'America con le grandi economie emergenti (India, Brasile e soprattutto Cina), su come prevenire il terrorismo, su come allentare i vincoli di politica interna che gli impediscono di premere su Israele per ristabilire un processo di pace in Medio Oriente, su come interdire la proliferazione nucleare, su come ridurre le emissioni di anidride carbonica, e (se è intelligente come sembra) su come evitare che la frammentazione dell'autoritarismo nei paesi arabi e dell'Asia centrale accenda le polveri dell'estremismo islamista.
Se riusciremo a mettere a punto politiche coerenti attorno ad alcuni dei punti che ho esposto, il presidente Obama scoprirà di poter contare nei prossimi anni su di un'Europa indipendente ma amica. Chiaramente, questa non è la situazione attuale. Il presidente Usa ha annunciato l'intenzione di disertare il vertice primaverile di Madrid con gli omologhi europei (come in effetti ha fatto, ndt). Chi può dargli torto? Citando la Guida Rossa Michelin, un vertice a Madrid "non" vaut le voyage. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)


Chris Patten è Rettore dell'Università di Oxford. E' Stato Governatore di Hong Kong, supervisionandone il ritorno alla Cina nel 1997. E' stato membro della Commissione Europea dal 1999 al 2004

 

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