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di Ugo Finetti

Da venti anni - dal referendum del 1991 - in Italia si continua a cambiare la legge elettorale. Una nuova legge elettorale è ancora oggi - nel 2010 - una priorità per il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel 1992 come presidente della Camera, era stato protagonista delle iniziali modifiche dell'epoca.
In Italia la fuoriuscita dal "secolo breve" e dalla "guerra fredda" ha significato all'inizio fuoriuscita dal sistema dei "partiti di massa", dal proporzionale, dalle preferenze. Da venti anni insieme a nuove leggi elettorali ha quindi preso forma un sistema maggioritario con una moltiplicazione di partiti, sistematiche destabilizzazioni che contraddicono il mandato elettorale, continue improvvisazioni di costituenti di nuovi partiti-guida prefiguranti il bipartitismo tra "popolo delle primarie" e "patrioti del predellino".
In questo numero di "Critica Sociale" viene iniziato un nuovo approfondimento sul tema di tale ingorgo politico-costituzionale evitando però la critica "nostalgica". Gli interventi di Fabrizio Cicchitto e Rino Formica infatti mettono a fuoco - molto liberamente e nel comune richiamo alle idee guida del riformismo socialista - ragioni e prospettive del caso italiano, di questo ingorgo che blocca la strada di una democrazia dell'alternanza in un quadro di comuni valori di democrazia occidentale.
Il caso "specifico" italiano è infatti quello di uno stato di emergenza democratica. Mentre negli altri paesi dell'Europa occidentale dopo il 1989 si è assistito ad una relativa sdrammatizzazione della conflittualità, in Italia ci siamo trovati di fronte all'inizio di uno scontro politico con al centro la reciproca delegittimazione. Oggi, all'indomani della fine del "secolo delle ideologie", il tasso di avvelenamento e di demonizzazione nei rapporti politici non solo non ha paragoni con gli altri paesi democratici, ma è clamorosamente superiore all'Italia della "guerra fredda". Salvo due-tre settimane - nel luglio del 1948 per l'attentato a Togliatti oppure nel luglio 1960 con il governo Tambroni appoggiato dal MSI - mai nella "Prima Repubblica" il segretario del Pci ha apostrofato il capo del governo con il linguaggio oggi in voga tra opposizione e maggioranza. Ciò è indubbiamente conseguenza del fatto che la "questione giustizia" - ovvero il disarcionamento di chi ha vinto le elezioni per via extraparlamentare - è diventata la "strada maestra" dell'opposizione politica in una mancata "resa dei conti" con il passato totalitario. All'indomani della caduta del comunismo ha preso naturalmente piede la tesi riassunta da Francis Fukuyama come "fine della storia" nella convinzione che si aprisse una prospettiva di globalizzazione come omogeneizzazione. La fine del comunismo venne vissuta non come risultato di una lotta esterna, antagonista, ma letta come implosione, come una grande "autoriforma" (esaltando Gorbaciov e irridendo Eltsin che voleva incriminare il Pcus). Non quindi resa dei conti, ma grande riconciliazione al motto di "meno politica" e "meno nazione". Uno scenario indolore nel segno di meno partiti, meno politica, meno Stato.
In Italia si è aggiunto "un di più" che fu rappresentato dal "caso Craxi". Nella demonizzazione del leader socialista confluì al tempo stesso da un lato l'insofferenza verso un sistema di "partiti di massa" (più pesante e meno riformato rispetto ad altri paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna) e dall'altro - soprattutto - il fatto che in Italia si era avuta la più lieve e la più pesante guerra fredda: il maggior consociativismo e coinvolgimento dei filosovietici nello Stato e il più lungo e cruento terrorismo di sinistra.
Con "Mani Pulite" venne disegnata una dialettica che nel 1993 era tranquillamente imperniata sul bipolarismo postfascista e postcomunista come evidenziato dalle elezioni di Roma (Fini-Rutelli) e Napoli (Mussolini-Bassolino). L'irruzione nel 1994 di Berlusconi che unificava "nuovismo" e anticomunismo fece saltare quell'assetto di cartongesso che vedeva protagonisti i "nipotini" di Togliatti e Mussolini. Da allora si è reagito tentando di imporre per via extraparlamentare il ripristino di quella dialettica politica originariamente sognata ed imperniata su due soggetti politici deboli.
Oggi il mancato consolidamento di una nuova dialettica condivisa senza reciproche delegittimazioni si concretizza in un ingorgo istituzionale tra Costituzione "formale", "materiale" e "di fatto". La sovrastruttura del "maggioritario" imposta alla struttura del proporzionale che era l'anima della Costituzione ha infatti annullato il funzionamento degli organi di garanzia che da poteri neutri sono diventati "contropoteri".
Con gli interventi di Cicchitto e Formica è offerta una base di riflessione che "Critica Sociale" intende proseguire nel quadro delle iniziative che ricordando i 120 anni dalla fondazione diano continuità e attualità all'impegno riformista.
 

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