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di Fabrizio Cicchitto

Fabrizio Cicchitto, presidente del gruppo alla Camera del Pdl, riflette con la Critica sulla crisi che ha scosso la vita politica in agosto e che giungerà ad una sua ricomposizione con il voto in Parlamento sul documento programmatico di 5 punti messo a punto dal Governo. Berlusconi intende verificare la tenuta della sua maggioranza e Cicchitto auspica una ricomposizione del conflitto con i finiani per evitare le elezioni anticipate. Invita a prendere atto delle differenti valutazioni "ormai emerse all'interno del partito", e "a farle valere, ma ad andare avanti" in Parlamento.
Se il futuro resta tuttavia incerto, la collaborazione sui importanti temi con l'Udc va coltivata. Ad ogni modo, in caso di crisi politica la strada sarebbe quella delle elezioni: non è un aut-aut, ma "ragionevolezza politica", oltre che un ricalcare posizioni identiche già assunte dai DS nel candidare D'Alema al Quirinale nel 2006.

La strada del confronto interno al partito, per comporre i contrasti nel "primo cerchio", non avrebbe evitato di rovesciare la conflittualità in Parlamento mettendo a rischio lo stesso Governo?

"La crisi consente di fare anche alcune riflessioni di carattere più generale.
Innanzitutto essa dimostra quanto sia stato più facile costruire un soggetto politico per le elezioni che potesse raccogliere il consenso dei cittadini su alcune idee chiare, come è riuscito a fare Berlusconi con il PdL in successive serie di vittorie elettorali, piuttosto che - paradossalmente - tradurre questo soggetto politico elettorale in un partito politico caratterizzato da una sua metodologia e da una sua stabilità.
L'operazione PdL è riuscita per tutta la parte relativa all'obiettivo di aggregare l'area del centro destra, di conquistare successi elettorali ripetuti (dopo le politiche anche quello alle regionali) di affermare una leadership carismatica riconosciuta nel Paese, e la capacità di tradurre tutto questo in una politica di governo positiva condotta in condizioni difficilissime. Questo è un governo che è riuscito, da un lato, a fare alcune importanti riforme come la "delegificazione", l' ammodernamento per una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, l'avvio del federalismo fiscale, la riforma della scuola e dell'università. Ha poi messo all'ordine del giorno interventi di grande rilevanza come quello del taglio della spesa pubblica, sia dello Stato che delle Regioni, con un particolare riferimento alla razionalizzazione della spesa sanitaria. Insomma è un governo che in condizioni di congiuntura mondiale difficilissime, ha messo molta carne riformista al fuoco.
Dall'altro lato, è un governo che ha gestito una politica economica, non brillante nei suoi effetti di crescita, ma necessaria. L'unica possibile in questa fase. Solo la follia della sinistra poteva sostenere che in una fase del genere sarebbe stato possibile condurre una politica economica che avrebbe comportato una riduzione di un punto del Pil, cosa che ci avrebbe messo nella stessa situazione della Grecia. Questa è una sinistra che è diventata pericolosa anche per le proposte che fa. La politica economica del governo doveva evitare i danni e i danni li ha saputi evitare. I cittadini se ne sono resi conto, tant'è che le polemiche della sinistra sulla crescita che non è stata stimolata, sono cadute nel vuoto e la conflittualità sociale non c'è stata.
C'è però anche il rovescio della medaglia: l'operazione PdL è riuscita come collettore elettorale, è riuscita nel sostegno alla politica di governo, è riuscita nell'affermazione di una leadership come quella di Berlusconi, ma ha poi fallito, o per lo meno è andata incontro a serissime difficoltà, nella sua trasformazione in partito politico.
E questo, a mio avviso, è derivato da due ragioni.
Una era già visibile in partenza: non c'è stata una fase di riflessione sulla forma-partito, ma si è fatta, appunto, una aggregazione sul tamburo, e su un'intesa Berlusconi-Fini basata sulle rispettive percentuali, settanta e trenta. Ma è mancata una riflessione sul tipo di partito che si stava formando, sul meccanismo di funzionamento di un partito che nasceva dall'unione di due storie politiche e organizzative completamente diverse.
La storia di Forza Italia, in primo luogo, non ha un precedente. Sorge nell'emergenza democratica del 1994. E' un partito, come lo ha definito lo stesso Berlusconi, "monarchico e anarchico" allo stesso tempo. "Monarchico" perché ha una leadership non discussa, e anarchico perché in realtà poi ognuno è libero di dire e fare quello che vuole.
E' un partito non strutturato in correnti: l'unica corrente a struttura organizzata è quella di Comunione e Liberazione, che è entrata come tale già in Forza Italia, ma nel complesso il PdL è un partito nel quale coloro che provengono dalla DC, dal PSI e dal PRI hanno tutt' al più dato vita a delle Fondazioni per affermare la propria tradizione di cultura politica, ma non hanno fatto certamente delle correnti.
Quindi è un partito che è rimasto allo stato gelatinoso e che ha degli aggregati a livello locale e regionale sulla base di solidarietà, appunto, localistiche, amicali o di potere, ma non sulla base di cordate politiche nazionali che si riaggregano regione per regione e che hanno poi i loro leaders al governo.
Invece AN è esattamente il contrario. Ha avuto un leader che in passato ha saputo esercitare il potere nel partito in modo duro e che non è stato un esempio esercizio della vita democratica interna. Tuttavia in AN c'erano tre o quattro correnti fortemente organizzate, di cui almeno due (quella di La Russa-Gasparri e quella di Alemanno) forti di retroterra storici abbastanza significativi che vanno indietro nel tempo.
Il PdL nasce quindi con uno squilibrio originario.
In questa situazione è stato addirittura devastante il fatto che Fini abbia scelto una caratterizzazione politica contestativa delle linee tradizionali del centrodestra, spostandosi su posizioni assai prossime al centrosinistra. Per di più egli ha usato un personale politico che ha esercitato una sorta di "squadrismo polemico", con prese di posizioni durissime che non hanno nulla a che fare con la normale dialettica politica interna.
Noi che veniamo da un partito come il Partito socialista, che è stato un partito di battaglie interne continue e anche di scissioni, mai nel PSI abbiamo visto quattro, cinque o sei mesi segnati dal quel tipo di polemiche che alcuni esponenti finiani, il "Secolo d'Italia" e Fare Futuro, hanno scatenato ininterrottamente: ogni giorno una "scissione".
Su questo il PdL si è arenato. Primo, sulla mancata definizione più generale della forma-partito; secondo, si è arenato su un dato politico costituito dal fatto che paradossalmente il "cofondatore di destra", si è spostato sulle posizioni del centrosinistra, come è stato per il tema della cittadinanza, per i temi etici, per una certa concezione del laicismo. Quando Fini ha abbandonato questi temi (già propri della sinistra) ha sposato un'altra posizione della sinistra, ma questa volta della sua parte peggiore. Ha cioè sposato una concezione del "legalitarismo" molto vicino ormai al "giustizialismo".

Sarebbe giustificato non sorprendersi.

"Ma c'è un fatto nuovo. Qui veniamo ad un altro nodo della vita politica italiana. La sinistra è ridotta ormai ai suoi minimi termini, ma non per questo fa venire meno la sua contestazione al governo. Il punto è che per sua debolezza, questa contestazione non si sviluppa nei normali canali politico-istituzionali, ma si sviluppa al di fuori dei canali tradizionali, attraverso la via mediatica e quella mediatico-giudiziaria.
Da questo punto di vista i bersagli sono stati cambiati ed aggiornati, rispetto al passato. Non si punta sulle ben note vicende processuali di Berlusconi, visto che per questa strada non si risolve il loro problema, ma si è passati ad altro.
Si è passati ad un intervento occhiuto e quotidiano sulla vita privata di Berlusconi e, successivamente, alla "sventagliata di mitra" indiscriminata su persone a ambienti legati al centrodestra.
Questo nuovo modello persecutorio è stato inaugurato dal giornale-partito del gruppo Espresso-Repubblica con le inchieste sulla vita non solo privata di Berlusconi, e tenuto in piedi con le 10 domande fatte e rifatte ossessivamente. Questo nuovo stile ha implicato un cambiamento in peggio della vita politica italiana e ci ha fatto scivolare nell'imbarbarimento totale. Ogni giorno il PdL veniva totalmente massacrato, per cui adesso certi appelli alla libertà di dibattito sono ridicoli. Non parliamo poi di Fare Futuro - i cui autori soffrono di angosciosi complessi di inferiorità - che ha esaltato la "libertà di dibattito" nella sinistra.
Fino a quel momento vigeva un vincolo condiviso e implicito, quello di non occuparsi e di non intervenire nella vita privata dei leader politici. Ma dopo il bombardamento contro Berlusconi, tutto incentrato contro la sua vita privata, la degenerazione si è evidentemente estesa.
Oggi ci troviamo nel paradosso per cui dopo il profondo cambiamento dei costumi della società italiana alla fine degli anni sessanta, che ha ammesso la possibilità di una trasgressione abbastanza estesa rispetto al moralismo degli anni del dopoguerra, il giustizialismo della sinistra e il killeraggio sulla vita privata dei leader politici (ed in particolare di Berlusconi), comporta oggigiorno che la vita privata di tutti è sotto il mirino. Abbiamo un ritorno allo "scandalismo" da anni Cinquanta, ma non fondato su una sensibilità di tipo moralistico (come era nel costume di sessant'anni fa), ma che deriva dalla volontà politica di distruggere l'avversario in tutti i modi, fin nelle pieghe più intime della sua persona. Dobbiamo assistere a questo nuovo ed ulteriore passo indietro nel degrado della qualità della lotta politica.
Nel frattempo continua la pressione mediatico-giudiziaria contro Berlusconi che è ormai l'unico modo di interlocuzione di cui la sinistra è capace, cavalcando le vicende giudiziarie e riducendosi ad una "fabbrica di dimissioni". Sul resto l'opposizione è assente e ridicola, non ha un'idea comune, non ha sue proposte costruttive originali da avanzare.
Questa in sintesi è la cornice nella quale ci troviamo oggi.

La prospettiva?

E' difficile in questo momento prevedere il futuro. La via maestra è quella per cui il Governo possa continuare nella sua azione nella quale ha incontrato importanti successi; che venga riassorbita in qualche modo la frattura con i finiani; e che pur esistendo differenti valutazioni politiche emerse a livello di partito, a livello di maggioranza e di governo se ne tenga conto ma si sappia mantenere la coesione necessaria, perché questa è l'unica condizione che consente di arrivare al termine naturale della legislatura.
Io reputo che questa scelta, quella cioè "costruttiva", debba essere quella prevalente perché i problemi della società italiana sono tali che più di elezioni anticipate, essi richiedono impegno di governo.
Però bisogna vedere che succede. Se i finiani, o parte di loro, si spostano su posizioni di logoramento del governo o addirittura lo bocciano, a quel punto l'unica strada è quella elettorale. Non è certo quella del governo di "salute pubblica", perché non c'è nessuna "salute pubblica" da difendere, c'è invece un problema di "ragionevolezza politica". C'è una maggioranza che occorre far valere al di là delle differenze che possono essere intervenute, le fai valere ma vai avanti. Se non si fa questo significa che si punta o alle elezioni anticipate o ad un "governo tecnico".
Un "governo tecnico" è lo scenario peggiore che si possa ipotizzare per il Paese, perché sarebbe un governo trasformista, non eletto da nessuno, che scenderebbe in campo unicamente per fare qualche servizio a chi lo tiene in piedi".

Nel documento programmatico che sarà sottoposto alla verifica della maggioranza, vi è un nocciolo di temi essenziali.

"Il punto relativo al Mezzogiorno non ha bisogno di una particolare illustrazione, poiché è evidente la necessità di un riequilibrio che tenga conto della condizione del Sud del Paese. Il quale - è bene averlo presente - è un dato politico variabile. In tutte le elezioni si è registrata una stabilità elettorale nel Nord a favore del centrodestra e nelle regioni "rosse", appunto, della sinistra. Quindi le elezioni si decidono da Roma in giù, in Campania, in Calabria, in Puglia e in Sicilia, perché sono regioni ad alta "mobilità politica".
Nel Sud abbiamo vinto le elezioni regionali. Ora c'è l'esigenza di identificare un quadro di proposte di politiche economiche e sociali che vengano incontro alle esigenze del Mezzogiorno. Su questo il ministro Raffaele Fitto ha steso punti più specifici contenuti nel documento programmatico.
C'è poi la questione della riforma della Giustizia. Sarà una riforma globale che comprenderà la separazione delle carriere e la distinzione di due CSM. Una riforma capace di incidere in modo profondo in questo settore. Si tratta, però, di mettere in atto anche degli "scudi" di garanzia che proteggano il vertice della classe politica da un uso politico della giustizia che non è mai stato pesante come in questi anni e in queste settimane. Questo sarà il vero punto di scontro con il centrosinistra, ma anche il vero elemento di verifica con i cosiddetti finiani.
C'è inoltre il federalismo fiscale che è in via di realizzazione, concepito nella prospettiva di rendere più congruo il rapporto tra il fisco e la spesa pubblica. Una grande occasione per organizzare sulla base di dati non storici, ma ricavati da modelli, una politica fiscale che sia di mediazione tra Nord e Sud.
Il federalismo fiscale è anche il presupposto per arrivare a cogliere nel 2013 l'obiettivo della riduzione del carico fiscale, e questo dipenderà anche da come la spesa pubblica verrà "tagliata", altro grande tema sul tappeto. Questo è il nucleo del complesso di proposte contenute nel documento programmatico che dovranno essere sostenute da forze politiche coerenti.

Ovvero?

Noi siamo perché a sostenerle siano le forze politiche che hanno vinto le elezioni, ma si pone anche il problema del rapporto con l'UDC che ha elementi di omogeneità politica con noi. Non condivido, indipendentemente da come verrà chiusa questa crisi, gli attacchi di Bossi e della Lega all'UDC. Si tratta di un partito che appartiene al Partito popolare europeo e che ora rimane all'opposizione, ma a differenza dell'IDV e del PD con il partito di Casini saranno possibili convergenze su temi molto significativi.

Potrebbe far parte in prospettiva di questa maggioranza?

"Per il momento questa situazione non si determina, ma se si dovesse determinare non dovremo essere contrari, ma favorevoli".

L'esistenza di una contraddizione tra la Costituzione storica o formale e la cosiddetta "costituzione materiale", è un problema innanzitutto politico, prima che giuridico. Ma senza mettere mano ad un aggiornamento delle regole non si rischiano ulteriori difficoltà e conflitti?

"Come ho avuto già modo di scrivere con Peppino Calderisi sul Corriere della Sera, a questo proposito, la Costituente si rifiutò di tipizzare i casi di ricorso allo scioglimento e respinse gli emendamenti volti a eliminare la controfirma governativa per evitare un eccessivo potere presidenziale. Furono intenzionalmente concepite norme assai generiche ed elastiche, la cui lettura avrebbe potuto essere aggiornata alla luce dell'evoluzione del sistema politico.
Per gli articoli sullo scioglimento (88 e 89) ricalcarono sostanzialmente quelli dello statuto albertino, avendo soprattutto presente la prassi statutaria secondo la quale era il presidente del Consiglio a proporre formalmente al re il decreto di scioglimento. Non a caso nel 1953, nei giorni precedenti al primo scioglimento anticipato del Senato, tutta la stampa - dal Corriere della Sera all'Unità! - e tutti gli ambienti politici dell'epoca ritenevano che la titolarità effettiva del potere di scioglimento fosse del governo o quantomeno che esso ne avesse la primaria responsabilità politica.

Tuttavia il maggioritario proposto da De Gasperi venne abbandonato, dopo una pesantissima crisi politica e l'opposizione socialcomunista.

L'esito delle elezioni con la mancata attivazione del premio di maggioranza previsto dalla cosiddetta legge truffa fu poi decisivo per mutare questa titolarità governativa, per allineare la «sostanza» alla «forma» prevalsa, alla fine, nel 1953 e per troncare ogni possibilità di sviluppo di una idea di democrazia maggioritaria e competitiva. Per i numerosi scioglimenti anticipati delle Camere (dal '72 all'87), irrilevante l'orientamento del presidente del Consiglio, del tutto notarile il ruolo del capo dello Stato. Era la «costituzione materiale» del sistema dei partiti.
Il problema interpretativo, non a caso, è esploso quando è venuto meno quel sistema di partiti e quando sono state approvate nuove leggi elettorali maggioritarie. Un problema riconosciuto dal relatore della Commissione bicamerale per la forma di governo Salvi: «Quanto al tema dello scioglimento, noi dobbiamo colmare una falla costituzionale che si è aperta in Italia a questo riguardo. So bene che non dobbiamo scrivere la Costituzione sull'onda dello shock del ribaltone, e tuttavia nell'inverno '94-'95 abbiamo attraversato una drammatica crisi in cui non soltanto le forze politiche e parlamentari, ma gli italiani erano divisi su ciò che fosse giusto fare.
Molte altre affermazioni di diversi leader del centrosinistra vanno nella stessa direzione. Particolarmente significativa è quella del segretario dei Ds Fassino quando sul Foglio del 6 maggio 2006 propose la candidatura al Quirinale di D'Alema. Esponendo i quattro punti di un «manifesto presidenziale» che intendeva «anticipare il modo con cui si propone di interpretare il proprio ruolo», Fassino così enunciò il primo punto: «L'assicurazione che se il governo Prodi dovesse entrare in crisi si tornerà a votare, in base al principio tipico delle democrazie dell'alternanza e di un governo viene dal voto dei cittadini».
Una tesi è conforme al dettato costituzionale quando serve alla ricerca del più ampio consenso parlamentare per la candidatura di D'Alema al Quirinale e diventa eversiva e contro la Costituzione quando viene sostenuta dal centrodestra, perché magari si ritiene che l'unico modo per cambiare il quadro politico sia una manovra di palazzo?

Il presidenzialismo è una tesi già sostenuta, senza successo, da Calamandrei e Valiani nella Costituente. Leo Valiani successivamente la definì in un articolo sull'Avanti!, a sostegno di Craxi che la rilanciò, e in polemica sia con la DC che con il PCI, un'idea "liberalsocialista".

Il principio in base al quale se viene meno la maggioranza di governo scelta dagli elettori si ritorna al voto è un principio fondamentale non solo a tutela della sovranità popolare ma anche a favore della stabilità dell'esecutivo. Non a caso, la tendenza nettamente prevalente nelle maggiori democrazie parlamentari è quella di porre il potere di scioglimento nella disponibilità del premier. Persino in un Paese retto da un sistema proporzionale come la Germania, il cancelliere dispone di fatto di questo potere, attraverso la richiesta del voto di fiducia, l'assenza programmata dall'aula di una parte dei deputati della maggiorana e la conseguente reiezione della fiducia; reiezione che consente al Cancelliere di chiedere e ottenere lo scioglimento da parte del presidente della Repubblica. Così hanno agito sia Brandt, sia Kohl, sia Schroeder.
 

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