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Foreign Policy, novembre 2010,

Parag Khanna
, ricercatore del think tank New America Foundation, in un dettagliato saggio breve per la rivista statunitense Foreign Policy affronta la nuova, e in apparenza sfuggente, realtà dell’urbanesimo post-contemporaneo. Il ventunesimo secolo non sarà dominato dall’America o dalla Cina, dal Brasile o dall’India, ma piuttosto dalla città. In un’epoca che sembra impossibile da comprendere e maneggiare, le città piuttosto che gli Stati stanno assurgendo a capisaldi su cui costruire il futuro ordine mondiale. Il mondo che verrà non sarà un villaggio globale, ma un network di diverse reti locali. Il tempo, la tecnologia e la crescita della popolazione hanno enormemente accelerato l’avvento di questa nuova Era urbana.
Centri tradizionali come Londra, New York, Parigi e Hong Kong rimangono i motori della globalizzazione e la loro rilevanza continua a basarsi sul denaro, la conoscenza e la stabilità. Khanna le definisce “le città globali”. Accanto a loro reclama spazio una nuova categoria di megalopoli. L’ingresso delle masse nelle città ha non solo contributo alla crescita dei centri esistenti ma né ha creati di nuovi, enormi, dalle città industriali della provincia cinese del Guangdong alle città artificiali che spuntano nel deserto arabico. La scala di misurazione di questi agglomerati farà presto riferimento alle decine di milioni.
Molte tra le megalopoli porranno sfide insidiose alle nazioni di appartenenza. E’ certo che la globalizzazione consentirà sempre più alle principali città di oltrepassare i rispettivi confini nazionali per sfruttare le opportunità offerte dall’ambiente internazionale, mentre i contesti iper-urbanizzati metteranno a nudo i pericolosi squilibri economici tra le aree cittadine e quelle periferiche, in particolar modo nei paesi emergenti (Brasile, Cina, India e Turchia).
Né l’equilibrio di potenza del diciannovesimo secolo, né la divisione in blocchi del ventesimo rappresentano categorie utili per capire il mondo in divenire. Invece, dovremmo tornare indietro di quasi mille anni, al Medio Evo, quando città come il Cairo e Hangzhou erano i centri di gravità globale e espandevano la propria influenza in un mondo senza confini rigidi. Come allora, anche oggi le città sono i veri magneti dell’economia, gli innovatori della politica e, sempre più spesso, i vettori della diplomazia. Di più. La politica estera si svolge oramai anche tra città appartenenti alla medesima nazione, come dimostrano le rivalità tra Washington e New York negli Stati Uniti e tra Abu Dhabi e Dubai negli Emirati Arabi Uniti. Un sistema che non seguirà le norme che governano i rapporti tra i vecchi Stati sovrani; le città redigeranno codici di condotta confacenti ai propri interessi, animati dalle esigenze di efficienza, connettività e sicurezza.
Gli hub finanziari dell’Asia e del Pacifico (Hong Kong, Seoul, Shanghai, Sydney e Tokyo) stanno asianizzando il processo di globalizzazione, accelerando tra l’altro il passaggio verso nuovi centri di gravità e snodi quali ad esempio Dubai, che Khanna definisce la Venezia del ventunesimo secolo. Zone franche dove i prodotti vengono agilmente smerciati e re-immessi sui mercati globali senza dover soggiacere a tariffe e dazi governativi. Lì, i fondi sovrani vengono utilizzati per acquisire le tecnologie più avanzate dall’Occidente, comprare lotti di terreno agricolo in Africa e proteggere gli investimenti mediante corpi privati di sicurezza e servizi di intelligence.
Nel frattempo, gli sviluppi del mercato determinano velocemente le alleanze. Si vanno formando assi commerciali tra Amburgo e Dubai, tra Abu Dhabi e Singapore, tra Doha (Qatar)  e San Paolo, tra Buenos Aires e Johannesburg. Nessuno ha chiesto il permesso di Washington. Per questi hub finanziari globali la modernizzazione non equivale all’occidentalizzazione. Le potenze asiatiche emergenti vendono giocattoli e petrolio all’Occidente e comprano progetti architettonici di pregio e know-how ingegneristico. I valori occidentali quali libertà di parola e di religione sono esclusi dagli accordi.
E’ il caso soprattutto delle monarchie del Golfo Persico, dove le ambizioni di urbanizzazione sono manifeste nei nuovi distretti sorti dalle sabbie del deserto. L’autore cita il progetto in progress dell’emirato di Abu Dhabi, intento a creare Masdar, che dovrebbe diventare la prima città al mondo in grado di sostentarsi senza petrolio, automobili e senza produrre rifiuti, grazie alla propulsione dell’energia solare. L’emirato si sta impegnando in un piano ventennale, investendo non solo in nuove città, ma anche in centri urbani più ridotti, a dimensione d’uomo, che valorizzino l’uso razionale della terra, l’igiene, l’efficienza nei trasporti e persino il community building! L’obiettivo non troppo nascosto è accentuare il cosmopolitismo che attraversa da tempo il Golfo Persico, esemplificato al massimo da Doha, dove i residenti rappresentano 150 nazionalità diverse e dove gli stranieri superano ampiamente i nativi. Se gli emergenti hub arabici giocheranno bene le proprie carte, saranno sempre più numerosi gli occidentali agiati che decideranno di trasferirsi in un ambiente accogliente e tutt’altro che vessatorio sotto il profilo fiscale.
Ma torniamo alle megalopoli. Pensiamo a Lagos, Manila, Città del Mexico, Jakarta e il Cairo, ai 100 milioni di persone che si affollano negli hinterland di Mumbai o Shanghai e al fatto che in India oltre 275 milioni di individui andranno a intasare ulteriormente gli ambienti urbani nelle prossime due decadi.
I milioni di essere umani che ogni anno si riversano nelle megalopoli non possono essere liquidati come un una sottoclasse globale di migranti, condannata a vivere nel caos dell’anonimità urbana e lavorare nell’economia sommersa, ma concorrono a creare un nuovo ecosistema urbano in continuo divenire. Nel frattempo, sullo sfondo di un crescente ampliamento delle disuguaglianze economiche, sembra di assistere al riproporsi delle stratificazioni fisiche della città medievale. Se allora erano i fossati e i cavalieri a proteggere le aristocrazie dalla commistione con la plebe, ora la stessa funzione è svolta dagli iper-tecnologici sistemi di sorveglianza e dalle agenzie private di sicurezza.
Diamo un’occhiata alla Terra dal satellite e noteremo che nella notte le luci delle città si distribuiscono come cellule tumorali sul corpo del Pianeta, azzarda Khanna. Si possono distinguere tumori benigni e maligni, in lotta per l’egemonia e il controllo. Le città rappresentano un attendibile test quotidiano in grado di dirci se saremo in grado di costruire un futuro sostenibile o se sprofonderemo in un incubo distopico.
L’avvento degli hub globali e della megalopoli costringe insomma a riflettere sul fatto che i principali agglomerati urbani siano ormai in grado di competere tra di loro per accrescere la propria influenza globale e nel fare ciò scavalchino l’autorità dei governi ed erodano la sovranità degli Stati nazionali. Saskia Sassen, sociologa ed economista della Columbia University, ha offerto un contributo importante allo studio della grande strategia delle città. Sassen mette in evidenza come la catena dell’offerta e i flussi di capitale stiano progressivamente “denazionalizzando” le relazioni internazionali. Nelle città non vi sono divisioni nette tra governo e settore privato; se non vi è collaborazione fra i due ambiti nulla può funzionare, con esiti nocivi per il resto del sistema Paese poiché i contesti urbani sono le forze trainanti di un’economia nazionale. Il loro potere è in espansione e si estrinseca ormai in vere e proprie diplomazie parallele. Lo dimostrano, ad esempio, l’aggressività e la spregiudicatezza con cui le città cinesi bypassano Pechino per attrarre investimenti stranieri nel proprio territorio. Si chiede Khanna: Siamo di fronte a una versione ultramoderna delle lotte di potere tra i principati degli albori della storia cinese?
Se è vero che l’ordine mondiale si va costruendo sulle città e le loro economie piuttosto che sulle nazioni e i loro eserciti, allora le Nazioni Unite diventano sempre più inadeguate come simbolo della partnership globale tra gli attori che dovrebbero rappresentare le diverse realtà. Forse è tempo di pensare a un nuovo modello, da costruire sull’esempio del meno rigido del World Economic Forum di Davos, che riunisce ogni anno chi conta davvero nel mondo: primi ministri, governatori, sindaci, amministratori delegati delle maggiori multinazionali, organizzazioni non governative, leader sindacali, accademici e celebrità. Il modello Davos rappresenta un’arena meno strutturata dell’Onu, ma in grado di fungere da foro di discussione e cassa di risonanza per gli interessi e i punti di visita degli attori che con più dinamismo si stanno adattando al mutamento immanente. Le città in primis.
Le ambizioni dell’urbanesimo moderno spaziano dai nuovi distretti economici alla città che spuntano come funghi per sfruttare al meglio le opportunità finanziarie e produttive di una particolare area. E’ questa l’idea alla base delle charter cities proposte con forza dall’economista della Stanford University, Paul Romer. L’idea è di individuare un lotto di terra e attribuire a esso uno status amministrativo ad hoc per trasformarlo in una zona economica speciale, libera da vincoli burocratici al commercio e accogliente per le iniziative di intrapresa economica. Romer, ignorando le accuse di coloro che definiscono il progetto utopistico e neocolonialista, sta tentando di dar corpo alle sue idee in Africa, prendendo spunto dalla success story della provincia del Guangdong, un modello già copiato dalle enclave King Abdullah Economic City in Arabia Saudita e da Binh Duong in Vietnam.
Il progetto charter cities peraltro impallidisce davanti a quanto si sta realizzando in Corea del Sud. Il costosissimo progetto Songdo, che dovrebbe completarsi nel 2015, andrà oltre il concetto di distretto finanziario o zona economica. Si tratta di un polo iper-moderno, che, sfruttando l’estrema informatizzazione della Sud Corea, utilizzerà le tecnologie della comunicazione per rendere la vita continuamente interattiva nelle case, nelle scuole e negli ospedali. Una grande sfida per l’Asia, volta a trasformare la concentrazione demografica e l’esplosione dei consumi da rischi ad opportunità. Un modello da esportare nel resto del mondo in via di sviluppo in impetuosa crescita. Se funzionasse, Songdo potrebbe dimostrare che l’uomo è ancora in grado di alterare, e in meglio, il corso della sua esistenza sulla Terra.
Ciò che accade nelle nostre città conta di più di quel che avviene altrove, conclude lo studioso. Le città sono i laboratori sperimentali del mondo e, allo stesso tempo, gli specchi di un’epoca segnata dall’incertezza. Sono allo stesso tempo le metastasi e le fondamenta, i virus e gli anticorpi, del mondo iper-connesso di oggi. Dal cambiamento climatico alla povertà, dai conflitti all’ineguaglianza, le città sono il problema ma anche la soluzione. La capacità di gestire bene le città segnerà nei decenni a venire la differenza tra le magnifiche sorti e progressive che si intravedono a Songdo e i deprimenti scorci che si aprono negli angoli più squallidi di Mumbai. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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