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Critica Sociale, novembre 2010,

A due anni dalla sua trionfale elezione alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama assapora le asprezze della sconfitta e deve rassegnarsi al confronto nei prossimi 24 mesi con una Camera dei Rappresentanti in mano Repubblicana. Una situazione non dissimile a quella vissuta dai suoi predecessori, ma cionondimeno disturbante per il programma di ambiziose riforme che il presidente aveva in animo di sviluppare e che si troverà invece giocoforza a dover ridimensionare. La vittoria del Partito Repubblicano viene comunemente associata all’azione del movimento del Tea Party, descritto dalla stampa italiana come il fronte avanzato di una protesta antistatalista che affonda le radici nei primordi della storia americana. Il movimento deve il nome al Boston Tea Party, un atto di insubordinazione da parte dei coloni americani contro le leggi sulla tassazione imposte dal governo britannico e che si risolse nella distruzione di  molte ceste di tè nel porto di Boston. L’episodio, risalente al 1773, venne poi interpretato come l’antefatto della rivoluzione americana.
Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl), ha moderato un incontro pubblico “Dopo le elezioni di Mid-Term. Quanto pesano i Tea Party? Parlano i protagonisti”, per sviscerare il tema. L’evento è stato organizzato al Caffè degli Atellani di via della Moscova a Milano da Chicago-blog, il blog dell’Istituto Bruno Leoni attivo nella promozione del liberismo economico.  Hanno partecipato Oscar Giannino (direttore di Chicago-blog), C. Boyden Gray (già ambasciatore americano presso l’Unione Europea), Matt Kibbe (presidente di Freedomworks, associazione cardine dei Tea Parties).
“Give Us Liberty”. Questa, in sintesi, la parola d’ordine dei Tea Parties, lanciata da Dick Armey, ex leader Repubblicano alla Camera dei Rappresentanti ora a capo di Freedomworks, come titolo del libro che rappresenta il vero e proprio manifesto del movimento. Armey è stato anche uno degli estensori del famoso Contract with America che nel 1994 permise la vittoria ai Repubblicani guidati da Newt Gingrich alle elezioni di midterm, mettendo in seria difficoltà l’amministrazione Clinton. Nel presentare il testo, Mingardi ricostruisce la genesi della versione moderna del Tea Party, nato anni fa dallo sbigottimento dell’opinione pubblica Usa di fronte all’espansione della spesa pubblica voluta dall’amministrazione di George W. Bush. Reazione di netto rifiuto che si è estesa e rafforzata nei confronti dell’azione di Obama in tema di sanità e mercati finanziari. Il movimento ha definitivamente fatto irruzione sulla scena il 12 settembre 2009, quando ha organizzato una grande manifestazione a Washington in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone, non tanto per reclamare la riduzione delle tasse, ma per protestare contro l’aumento della spesa pubblica e del ruolo dello Stato. Una novità assoluta, sottolinea Mingardi introducendo Matt Kibbe, presidente di Freedomworks e coautore di Give Us Liberty.
Kibbe percepisce evidentemente lo scetticismo europeo nei confronti del Tea Party e mette in chiaro come la sua genesi non debba essere ricondotta alla pregiudiziale opposizione politica a un presidente Democratico o (peggio) all’avversione antropologica dell’America profonda a un presidente di colore. Non si tratta di conservatorismo versus progressismo. Il movimento è nato dall’opposizione alle politiche di un presidente Repubblicano, e dunque naturalmente più vicino alla filosofia del Tea Party, anche se è evidente che la sua azione sta acquisendo in questi mesi una maggiore efficacia e rilevanza. Meno governo, tassazione più bassa e maggiore libertà. Kibbe auspica che termini presto la stagione del tanto temuto big government, caratterizzata dal ritorno sostanziale del ruolo regolatore dello Stato nella vita economica.
Una presa di posizione che convince quegli americani che hanno percepito la vittoria di Obama nel 2008 come una minaccia alla libertà individuale. L’intervento regolatore di Washington (impostato già negli ultimi mesi dell’amministrazione Bush) per gestire le conseguenze della crisi finanziaria che nel 2008 ha investito l’America, l’aumento della spesa pubblica legato all’ambiziosa riforma sanitaria obamiana non possono che essere stigmatizzati dai Tea Parties, che credono che le libertà di competere sul libero mercato accresca le scelte dei consumatori e garantisca a ognuno il controllo sulle proprie risorse economiche. Valori quest’ultimi condivisi da gran parte dell’elettorato statunitense. E' profondamente ingiusto, insiste Kibbe, sia descrivere semplicisticamente il Tea Party come un’accozzaglia di conservatori bigotti e razzisti sia incardinare il movimento tout-court nel Partito Repubblicano: il Contract with America del 1994 venne calato dall’alto e accettato dagli elettori, mentre il Contract from America proviene dalle associazioni che coordinano il Tea Party (Freedomworks in primis) e sono stati i candidati Repubblicani a doverlo sottoscrivere per essere sostenuti  secondo una logica che potremmo definire bottom up, dal basso verso l’alto. Ed è proprio questo il senso del movimento: partendo dal tema cardine della responsabilità fiscale, mobilitare l’elettorato, creare un modo nuovo di fare politica, aggregare il consenso.
Suggestioni riprese anche dall’ex ambasciatore Boyden Gray, che insiste sul valore intrinseco dell’indipendenza e dell’autonomia della persona nella società e di fronte allo Stato. Una levata di scudi contro ogni forma di indesiderata intrusione del pubblico nella sfera privata che si inserisce in una lunga tradizione di pensiero libertaria ben consolidata negli Stati Uniti. Gray riafferma questo spirito anche in polemica con il potere del big business, sottolineando come i Tea Parties, data la loro natura di movimenti grassroot (di base), si configurino come vere e proprie forze di opposizione al condizionamento della grandi aziende sulla vita politica americana.
Questi gli intenti. Resta da vedere se in previsione della grande sfida presidenziale del 2012 i Tea Party riusciranno a mantenere la propria autonomia e a proseguire la loro intransigente battaglia “dal basso” senza lasciarsi condizionare e annacquare dalle esigenze elettoralistiche del Partito Repubblicano. L'esperienza insegna che non sarà facile. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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