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Haaretz, febbraio 2011,

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto ai fatti egiziani chiedendo che "la stabilità e la sicurezza regionale" vengano preservate e auspicando che i governi occidentali si impegnino per salvare il regime di Hosni Mubarak. L'evidente preoccupazione del premier israeliano per le sorti del suo amico e alleato riflette il timore che all'anziano "faraone" subentri un governo avverso alla pace con Israele. In generale, è chiaro che il governo israeliano sia contrario ad ogni cambiamento dello status quo nella regione mediorientale. L'Egitto di Mubarak ha rappresentato negli ultimi trent'anni una solida garanzia in tal senso. Il quotidiano moderato Haaretz, la più nota e influente pubblicazione israeliana in Occidente, sta seguendo con attenzione i fatti egiziani, considerato il peso che essi potranno avere sulla sicurezza e le opzioni politico-strategiche del governo Netanyahu.

La redazione di Haaretz, guidata da Dov Alfon, non risparmia critiche all'esecutivo e auspica in un editoriale che Israele smetta di affidarsi stancamente allo status quo e colga l'occasione della svolta egiziana per rilanciare un'azione politica e strategica per la stabilizzazione dell'area: "Una visione poco attenta (alle dinamiche in atto in Medio Oriente, ndr) ha indotto Israele a diffidare dai cittadini dei vicini Stati arabi, considerati poco influenti e nel complesso portatori di una mentalità fortemente anti-israeliana. Sinora Israele si è visto solo e unicamente come  un avamposto occidentale e non ha mostrato interesse al linguaggio, alla cultura e alle rivendicazioni dell'opinione pubblica dei suoi vicini. Lo Stato ebraico considera l'ipotesi di una vera integrazione regionale alla stregua di una controproducente fantasia. Questo è il motivo per cui Gerusalemme non si è mai preparata per i cambiamenti in atto da tempo dietro la facciata apparente stabile dei regimi che oggi si stanno sgretolando. La rivoluzione tunisina e le proteste di massa egiziane richiedono un cambiamento nel modo che i leader israeliani hanno di considerare l'ordine regionale e la collocazione del Paese in esso. Invece di cercar rifugio e conforto nel conosciuto e familiare (ma abusato) refrain - "non esistono interlocutori con cui parlare e di cui fidarsi" - la politica estera di Israele dovrebbe adattarsi a una nuova realtà in costruzione, che vede i cittadini arabi come protagonisti della traiettorie di sviluppo dei propri paesi. E' tempo di prepararsi per un nuovo ordine regionale, invece di aggrapparsi vanamente al vecchio e collassante sistema...L'obiettivo è sempre lo stesso: fare di Israele un vicino più benvoluto e accettato di quanto lo sia oggi."

Moshe Arens, in un contributo ripreso dall'edizione online del quotidiano, descrive gli umori della leadership di Gerusalemme di fronte ai sommovimenti egiziani. La domanda che molti si pongono oggi in Israele è la seguente: "Se il regime di Mubarak dovesse essere rimpiazzato da un governo diverso, magari democraticamente eletto, il trattato di pace che regola da oltre trent'anni le relazioni con Israele rimarrebbe in piedi?" La scomoda verità è che i due trattati di pace conclusi da Israele negli anni, con la Giordania e l'Egitto, sono stati siglati entrambi da dittatori; Anwar Sadat e Re Hussein. Certo, Israele preferirebbe trattare con governi democratici, ma l'opzione non si è quasi  mai presentata. Inoltre, in Israele nessuno dimentica che l'affermazione di Hamas a Gaza sarebbe stata impossibile senza il clamoroso successo elettorale ottenuto nel 2006 dalla forza islamista.

Entrando nel dettaglio, le due condizioni che Israele pretende per sedersi al tavolo e concludere accordi sono sempre state evidenziate con chiarezza: in primo luogo, un accordo con Israele deve essere risolutivo, cioè dire una parola definitiva sulle dispute territoriali e politiche che dividono lo Stato ebraico dalla sua controparte (l'esempio di Camp David del '79 è calzante); in secondo luogo, la controparte deve essere in grado di combattere efficacemente ogni attività ostile diretta dal proprio territorio contro Israele. Due condizioni sinora garantite solo da governi capaci di esercitare un controllo ferreo delle proprie opinioni pubbliche  e di reprimere duramente i gruppi eversivi attivi nel proprio territorio. Ai tempi, Sadat e Hussein furono in grado di soddisfare questi requisiti, così come, secondo l'editorialista di Hareetz, lo sarebbero stati, se solo avessero voluto, anche Yasser Arafat in Palestina e Hafez Assad in Siria.

Questo spiega perché i governi israeliani non abbiano mai insistito affinché gli interlocutori negoziali fossero emanazione democratica delle rispettive società arabe. L'assunto implicito rimandava alla convinzione che fosse più semplice per i regimi autoritari soddisfare le nette condizioni poste da Israele. L'esperienza del confronto con la fragile e spaccata "democrazia" palestinese non ha fatto altro che rafforzare questa impressione nelle élites israeliane. Così si spiega la richiesta rivolta nei giorni scorsi dal premier Benjamin Netanyahu a Europa e Stati Uniti affinché sostenessero Mubarak. Richiesta ampiamente caduta nel vuoto. Una mossa che denuncia il nervosismo israeliano davanti ai rivolgimenti in atto e alla prospettiva di dover fronteggiare presto uno scenario regionale reso più complesso dall'instabilità serpeggiante nei cosiddetti regimi arabi moderati con i quali Gerusalemme aveva trovato il modo di convivere.

Un ulteriore elemento di preoccupazione per Israele viene dall'ennesima conferma dell'indisponibilità americana a intervenire con decisione per preservare un ordine mediorientale in linea con i propri interessi. Aluf Benn va oltre: "Se Jimmy Carter è il presidente che nell'immaginario collettivo ha perso l'Iran, Barack Obama rischia di venire ricordato come colui che perderà la Turchia, il Libano e persino l'Egitto". Il criticismo dell'editorialista israeliano nei confronti della debolezza di Washington è evidente, anche se riconosce che, data la situazione, i margini di manovra per gli Stati Uniti risultano piuttosto angusti: "L'amministrazione si trova davanti a un grosso dilemma. Probabilmente Obama si identifica più con i giovani dimostranti del Cairo che con un vetusto dittatore. Ma una superpotenza non è assimilabile a un movimento per i diritti civili (già Carter equivocò e poi fu costretto dagli eventi a comportarsi in maniera incoerente e inefficace, ndt). Se il presidente Usa decidesse di abbandonare clamorosamente e definitivamente un alleato che si è dimostrato nel complesso fedele, chi crederà in futuro alla sincerità dell'amicizia americana?". Questo spiega l'iniziale cautela degli Usa, che sta evolvendo in moral suasion per indurre Mubarak a un onorevole ritiro.

Secondo Benn, la partita decisiva si giocherà nei prossimi mesi, quando occidentali e israeliani dovranno costruire il proprio rapporto con chi sostituirà Mubarak. E plausibile che il nuovo regime egiziano non segua la deriva iraniana, ma decida di navigare a vista sull'esempio turco. Ankara, nonostante l'affaire flottilla e il rinvio indefinito della sua adesione all'Ue, non ha rotto i rapporti con Israele e non sembra intenzionata mettere in discussione i suoi legami politici e militari con l'Occidente. E' possibile che il nuovo corso egiziano segua una traiettoria simile. Le diplomazie americana e israeliana dovranno mostrarsi abili ed evitare che la ritrovata autonomia del Cairo si trasformi in ostilità. (A cura di F.L.)

 

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