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Critica Sociale, febbraio 2011,

Il ruolo dei social network nei giorni della rivoluzione egiziana è stato considerevole. Fenomeno colto con tempismo dal Dipartimento di Stato americano che ha creato un proprio account su Twitter in lingua Farsi (fonte Huffington Post/Reuters). L'obiettivo è comunicare con gli utenti iraniani, nella speranza che il focolaio di protesta dei giorni scorsi, il più consistente nella Repubblica Islamica da un anno a questa parte, possa mettere in moto un movimento contestatario analogo a quello che ha condotto al rovesciamento del regime egiziano. Riusciranno Facebook e Twitter dove ha fallito il movimento dell'Onda Verde? La dissidenza interna iraniana sarà in grado di sfruttare l'arma mediatica per replicare, sebbene in un contesto molto diverso, la success story egiziana? A Washington ci sperano.

E' doveroso tuttavia ricordare che i social network hanno recitato una parte importante, ma essenzialmente strumentale, nei fatti egiziani. A fare la rivoluzione è stata la gente. Twitter, Facebook e gli altri media non hanno fatto altro che amplificare l'indignazione popolare e la determinazione a reclamare il cambiamento. Lo sostiene Bob Glaberson nel suo contributo al sito web di Progress, think tank dell'area laburista britannica. I supporti tecnologici hanno permesso ai manifestanti di "creare" essi stessi, mediante la loro azione nelle strade del Cairo e delle principali città egiziane, le notizie per poi diffonderle in tempo reale in tutto il mondo.

E' sin troppo evidente come il movimento giovanile del 6 Aprile e la pagina Facebook dedicata a Khaled Said (il ventottenne di Alessandria d'Egitto torturato a morte da due poliziotti in un internet café nel giugno scorso) abbiano contribuito a scardinare il muro di paura che tratteneva da anni milioni di egiziani scontenti, ma alla base delle virulente proteste riposa la frustrazione di un popolo costretto a subire l'immobilismo e gli abusi di un regime ossificato. Blake Hounshell, di Foreign Policy, mette l'accento sulla perizia con cui gli animatori del dissenso egiziano hanno scelto i messaggi per risvegliare l'indignazione dei compatrioti e sulla saggia cautela con cui la stragrande maggioranza dei manifestanti ha gestito il confronto fisico con le temute forze di sicurezza schierate nelle piazze per bloccare la protesta. Uno dei leader del movimento, Wael Ghonim, ha inoltre sottolineato i ripetuti errori tattici del regime, che ha tentato tardivamente e goffamente di oscurare internet e gettato nella mischia squadroni di teppisti per impaurire i contestatori. Il tutto senza offrire una reale prospettiva di cambiamento negoziato.

Nel corso dei diciotto giorni della sommossa, le folle anti-Mubarak hanno maturato gradualmente consapevolezza nelle proprie forze e dimostrato che il popolo, se informato e coinvolto, può rappresentare la miglior garanzia per il futuro di una nazione. Coloro che in Occidente temono una deriva estremista o anarchica nel Paese dovrebbero forse trovare motivi di rassicurazione nella capacità dei giovani del Cairo di resistere alle stanche logiche repressive del regime e di accelerare in maniera inattesa il processo di rinnovamento.

E' evidente che l'addio dell'anziano presidente rappresenta solo il primo passo verso l'instaurazione di una vera democrazia, ma nel movimento di massa che ha invaso le piazze egiziane sembra albergare la consapevolezza dei rischi di manipolazione e di involuzione presenti sul percorso. Insomma, le modalità che hanno condotto alla fine della dittatura inducono a un moderato ottimismo: non si ripeterà il 1979 iraniano, l'Egitto non si trasformerà in una teocrazia o in un rogue state.

Zvi Mazel, ex ambasciatore israeliano al Cairo, la pensa diversamente. Dalle colonne di Yedioth Ahronoth, il più popolare quotidiano dello Stato ebraico, il diplomatico si dimostra particolarmente pessimista: "Ora che il rassicurante quadro governativo che ha retto l'Egitto per trent'anni si è dissolto, ci vorranno almeno due-tre anni perché un nuovo regime si stabilizzi...Non vi è alcuna garanzia che dal processo in corso emerga un governo pragmatico e moderato e vi è anzi il rischio che una forza compatta e organizzata come i Fratelli Musulmani giochi un ruolo di primo piano nella transizione."

Non esistono certezze per il futuro, riconosce anche Glaberson, poiché all'interno del gigantesco ed eterogeneo movimento potrebbero presto esplicitarsi le divisioni sul vero significato della democrazia e su come costruire un sistema pluralistico funzionante. L'insidia più grande deriva dall'inevitabile competizione partitica che si scatenerà nei mesi a venire. Sotto l'aura della tanto agognata democrazia, i gruppi di interesse potrebbero aizzare una contro l'altra le varie fazioni e pregiudicare l'intero processo. Tuttavia, il cittadino egiziano che esce dalle lunghe giornate di Piazza Tahrir sembra più attrezzato ad affrontare le opportunità e i rischi della democrazia, fortificato com'è dalla discussione serrata, dalla partecipazione e dal contatto con il mondo esterno reso possibile dai nuovi media. L'unità dei manifestanti è stato un altro fattore facilitante, dovuto all'inusitata apertura mentale dei ragazzi egiziani che, liberi dai pregiudizi che hanno inquinato il recente passato del Medio Oriente, hanno collaborato all'obiettivo comune a prescindere dalle differenze confessionali. I cristiani e le altre minoranze sono state fianco a fianco della maggioranza musulmano sunnita. Una comunanza di intenti che avvicina gli eventi egiziani di questi giorni alle più felici esperienze rivoluzionarie del secolo scorso e ricorda ai più timorosi fautori dello status quo in Medio Oriente una semplice lezione: chi è realmente impegnato nel perseguimento di un sistema democratico troverà il modo di realizzarlo.

Rassicurante anche il punto di vista di Khaled Diab, collaboratore egiziano del Guardian, che in un pezzo scritto per Haaretz invita gli israeliani a considerare i cambiamenti in atto al Cairo e a Tunisi come delle opportunità. Da un lato, le rivoluzioni nordafricane hanno suscitato l'inquietudine di diversi osservatori internazionali e del governo israeliano in particolare. D'altro canto, l'ondata di speranza e consapevolezza che si va diffondendo tra le masse arabe, sino a poche settimane fa schiacciate dall'oppressione e accusate di passività, può dischiudere grandi prospettive. Lo status quo che ha regnato sinora non ha certo risolto le contraddizioni che lacerano il Medio Oriente. La crescita, anche nel mondo arabo, di opinioni pubbliche informate e pronte a contestare (e persino rovesciare) governi inefficienti e non rappresentativi è un'opportunità da cogliere senza esitazioni. Ora che i semi del pluralismo sembrano germogliare anche in Medio Oriente, è giunto il tempo per arabi e israeliani di liberarsi dal pregiudizio e dalla diffidenza e di riannodare, su basi condivise, i fili del dialogo interrotto. (F.L.)

 

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