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1848, 1968, 1989
Ollie Cussen, Prospect, marzo 2011,

Mentre la libertà si fa strada nel mondo arabo, i commenti sulle pagine dei giornali ricercano con ostinazione suggestive analogie storiche. Nel tentativo di cogliere il pieno significato degli eventi di Bengasi, del Bahrain e di Sidi Bouzid (in Tunisia, ndt), gli editorialisti si affrettano ad evocare la grandiosa tradizione europea di rivolta e resistenza all'oppressore. Quale illuminante modello sceglieranno i giovani arabi per esprimere al meglio il loro desiderio di democrazia e giustizia: il 1848, il 1968 o il 1989? Se è vero che la prospettiva storica è fondamentale per comprendere gli eventi di oggi, è altresì necessario utilizzare gli strumenti appropriati. L'ansia comparativa e il richiamo eccessivo ai precedenti europei mistificano e impoveriscono la narrazione di quanto sta avvenendo nel mondo arabo.

In realtà, alcuni commenti si sono rivelati appropriati. Alcuni esperti riuniti da Open Democracy (un think tank londinese che si occupa di diritti umani e democrazia, ndt) hanno identificato alcune corrispondenze tra la sollevazione araba di queste settimane e il crollo del Comunismo nell'Europa Orientale: "Si è verificata, come mai prima d'ora, la concomitanza di fattori esplosivi, quali la stagnazione economica della regione, i fallimenti di corrotti e repressivi regimi autocratici e il disincanto delle giovanissime popolazioni." Con il suo tipico spirito provocatorio, lo storico Niall Ferguson ricorda di aver preferito, "mentre altri commentatori si precipitavano a Piazza Tahrir, considerandola il centro nevralgico del 1989 arabo", recarsi a Tel Aviv per toccare con mano il "colossale fallimento della politica estera americana" denunciato negli ultimi mesi da diversi esperti di Medio Oriente. Tratteggiando un intrigante parallelo con l'ambigua risposta di Jimmy Carter agli eventi iraniani del 1979, Ferguson suggerisce che la "debacle nella politica estera di Obama" sia il risultato della mancanza di "un coerente modo di pensare" e di una "grande strategia". Gli accostamenti storici appropriati, come il noto saggista britannico Timothy Garton Ash ha giustamente sottolineato, offrono "un utile armamentario di esperienza, mostrando le diverse circostanze che possono condurre al fallimento una rivoluzione e la rara combinazione di elementi che possono invece fare in modo che essa abbia successo."

Il valore di una corretta analogia storica, poi, sta nella capacità di chiarificare gli eventi passati e presenti. Troppi esempi recenti non hanno invece fatto altro che intorbidire le acque. Tariq Ali, intellettuale di origine pakistana, afferma semplicisticamente che "come gli europei nel 1848, i popoli arabi stanno combattendo per la giustizia economica e contro élite accecate dal loro stesso illegittimo potere." Motivazioni senz'altro presenti nelle proteste, che in qualche modo giustificano il parallelo tra l'Europa dell'ottocento e il mondo arabo del duemila. Si tratta tuttavia di analogie troppo generiche per migliorare la nostra comprensione di quanto sta avvenendo.

Con più attenzione ai dettagli, il Premio Pulitzer Anne Applebaum ha evidenziato l'importanza dei contesti nazionali, nel 1848 come nel 2011. Come le lagnanze anti-austriache della nobiltà ungherese differivano dalle lamentele dei nazionalisti tedeschi, allo stesso modo i conflitti tra sciiti e sunniti rendono diverse le sollevazioni del Bahrain da quelle in Libia, dove la violenta risposta di Gheddafi ha modificato il corso degli eventi. I rivoluzionari del 1848 fallirono ovunque nel tentativo di ottenere immediati cambiamenti istituzionali, ma il loro impatto di lungo termine sulla cultura politica democratica degli Stati europei è stato significativo. Forse, anche la battaglia libica tuttora in corso otterrà miglior comprensione dalla posterità.

La Applebaum è senz'altro nel giusto quando conclude che le rivoluzioni arabe finiranno per essere, come avvenuto nel 1848, "complicate e disordinate". Tuttavia, considerando in retrospettiva le barricate del diciannovesimo secolo, vi è qualche elemento che possiamo utilizzare con successo per decifrare al meglio i fatti attuali? Forse dovremmo rassegnarci a scimmiottare quanto esprimeva Zhou Enlai pochi decenni or sono. Quando chiesero allo statista cinese un parere sull'impatto della Rivoluzione Francese egli rispose: "E' troppo presto per esprimersi."

Una simile risposta demoralizzerebbe Garton Ash che in un recente festival letterario ha sostenuto la possibilità di scrivere la Storia anche dei fatti più recenti. La buona ricerca storica e il buon giornalismo, ha sostenuto, condividono gli stessi criteri che, se soddisfatti, possono dar corpo non tanto a una prima bozza storiografica quanto piuttosto a un'analisi autorevole degli eventi dell'oggi. Questa "Storia del presente" consiste nel corretto utilizzo delle fonti rilevanti e nella loro analisi critica; richiede una forma di simpatia rispetto a tutte le parti coinvolte e una aspirazione a all'analisi obiettiva; infine, l'attenzione allo stile letterario, caratterizzato da una scrittura vivida e chiara.

E' giusto, desiderabile e possibile aspirare a una disamina dei fatti correnti che possegga le suddette caratteristiche (ricordiamo, per esempio, "Omaggio alla Catalogna"di Orwell). Tuttavia, invece di convergere nel felice ibrido descritto da Garton Ash, le pratiche degli storici e dei giornalisti sembrano divergere, creando un vuoto di ignoranza che editorialisti e commentatori riempiono con affrettati paragoni tra l'attualità e le rivoluzioni europee del passato. Le emittenti televisive e i media in generale si stanno affidando troppo alla vox populi e alle testimonianze delle parti in causa, mentre gli iper-accademici occidentali si limitano, dalle loro cattedre, a speculare su come i conflitti nordafricani colpiranno gli interessi britannici, europei o americani.

Raramente, gli accademici e i giornalisti danno l'impressione di aver familiarità con i linguaggi e le culture contemporanee di cui parlano. Non sorprende che uno dei recenti esempi di analisi comprensibile e coinvolgente (e priva di verbose speculazioni sulle svariate cause e conseguenze delle rivolte in atto) venga dalla penna di Max Rodenbeck, inviato dell'Economist in Medio Oriente e residente fisso al Cairo.

Un "armamentario di esperienza" rappresenta una risorsa pratica per interpretare gli eventi, ma solo se gli strumenti utilizzati funzionano a dovere. "Quando ho letto le mie vecchie note, ormai ingiallite, e i miei laceri manuali di Storia, non ho trovato alcun modello utile per interpretare la Rivoluzione Egiziana", scrive lo storico statunitense Robert Darnton mentre tenta di stabilire analogie tra Piazza Tahrir e la Bastiglia. Se anche uno studioso del valore di Darnton dichiara il suo fallimento, forse è il caso che i media internazionali mettano da parte le confuse analogie storiche che tanto li attirano, si impegnino a raccogliere con accuratezza le fonti sul campo e raccontino con accuratezza quel che vedono con i propri occhi. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)

 

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