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IL GIOCO MORTALE DEL PAKISTAN
Salman Rusdhie, Daily Beast, maggio 2011,

Osama bin Laden è morto nel giorno della festa primaverile di Walpurgisnacht, una notte di danze e falò. Una notte indicata per la fine dello stregone più temuto, caduto dalla sua scopa e perito in una cruenta battaglia. Tra i commenti più comuni apparsi in Facebook dopo la diffusione della notizia troviamo "Ding Dong, lo stregone è morto" e lo stesso spirito, quasi immaturo, aleggia tra le folle che scandiscono "U-S-A" fuori dalla Casa Bianca, a Ground Zero e altrove. A quasi un decennio dall'orrore delle Torri Gemelle, la lunga caccia all'uomo è stata coronata da successo e gli americani possono risvegliarsi più leggeri, convinti che la morte del Nemico lanci un messaggio chiaro ai suoi emuli: "Attaccateci e noi vi daremo la caccia fino a colpirvi, non ci sfuggirete."

Molti di noi non credevano all'immagine di un bin Laden trasformato in un vecchio delle montagne che vivesse di piante e insetti in un'inospitale caverna da qualche parte, al poroso confine tra Pakistan e Afghanistan. Come ha potuto un uomo così poco ordinario, 1 metro e 93 centimetri di statura in un paese dove l'altezza media dei maschi è di circa uno e settanta, passare inosservato per dieci anni mentre la metà dei satelliti terrestri cercava di scovarlo? Non ha molto senso. Bin Laden è nato come uomo schifosamente ricco ed è morto in una casa da ricchi, che ha fatto costruire con maniacale attenzione ai dettagli. L'amministrazione Usa ha confessato la propria sorpresa davanti alla natura elaborata della struttura residenziale dove abitava.

Abbiamo sentito - anzi, ho sentito con le mie orecchie da più di un giornalista pakistano - che il Mullah Omar è stato (è?) protetto in un luogo sicuro nelle vicinanze della città di Quetta in Baluchistan dai potenti e temuti servizi di sicurezza pakistani (Isi). Anche bin Laden godeva di questa protezione? Probabilmente sì, nonostante l'atteggiamento di sorpresa prevalente in Pakistan sin dalle ore immediatamente successive al raid di Abbottabad.

Ora Islamabad deve rispondere ad alcune grandi domande. Gli Usa non devono accontentarsi del solito "Noi? Non sapevamo". Washington non lo deve tollerare ancora, dopo aver insistito per anni nel trattare il Pakistan come un alleato benché fosse a conoscenza del suo doppiogiochismo cronico. L'America finge di scordare , ad esempio, il supporto offerto da Islamabad ai gruppi insurrezionali della rete Haqqani, responsabili della morte di centinaia di americani in Afghanistan.

Questa volta i fatti parlano troppo chiaramente per essere insabbiati. Osama bin Laden, l'uomo più ricercato al mondo, è stato sorpreso (ancora in vita) alla fine di una strada polverosa a circa settecento metri dall'accademia militare di Abbottabad, l'equivalente pakistano di West Point o Sandhurst, in un acquartieramento militare con soldati in ogni angolo, a poco più di cento chilometri dalla capitale Islamabad. Stiamo parlando di una grande casa, senza telefono e connessione internet. Dovremmo dunque credere che il Pakistan non sapesse e che l'intelligence pakistana, le autorità militari e civili non abbiano fatto alcunché per facilitare la presenza di bin Laden ad Abbottabad per cinque anni, mentre egli dirigeva al Qaeda e mentre i suoi corrieri andavano e venivano in continuazione?

La vicina India, che ha subito le laceranti ferite dell'attacco terrorista del 26 novembre 2008 a Mumbai, vuole già risposte alle sue domande. Del resto, il supporto del Pakistan a gruppi jihadisti anti-indiani quali Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Muhammad è stato dimostrato senza tema di smentita. Islamabad ha fornito rifugi sicuri a queste formazioni, le ha strumentalizzate nell'ambito del conflitto con New Delhi per il Kasmir e, per certo, anche a Mumbai. Negli ultimi anni i gruppi citati si sono uniti ai cosiddetti taliban pakistani per costituire un nuovo network della violenza ed è piuttosto significativo che siano stati proprio costoro, e non un portavoce di al Qaeda, a minacciare per primi la vendetta dopo l'uccisione di bin Laden.

L'India, come sempre insana ossessione del Pakistan, è la ragione del doppiogiochismo di Islamabad. I pakistani sono allarmati dalla crescente influenza indiana in Afghanistan e temono che quest'ultimo paese, una volta bonificato dai taliban, possa diventare un cliente di New Delhi, finendo per stritolare il Pakistan tra due vicini ostili. La paranoia di Islamabad rispetto alle supposte, oscure, macchinazioni indiane non deve essere in alcun caso sottostimata.

A lungo gli Stati Uniti hanno tollerato l'atteggiamento opaco del Pakistan in cambio del suo appoggio nell'impresa afghana e nella speranza che i leader pakistani comprendessero i loro errori, che capissero la pericolosità (anche per loro stessi) degli jihadisti. Il Pakistan e il suo arsenale atomico rappresentano un premio ben più ambito del povero Afghanistan, e i generali e le spie che stanno facendo oggi il gioco di al Qaeda rischiano, nel caso le cose volgessero al peggio, di diventare essi stessi vittime dell'estremismo.

Eppure non sembra che l'élite pakistana abbia in programma un cambio di rotta. La scoperta del rifugio di bin Laden fornisce ulteriori prove degli scellerati azzardi di Islamabad. Mentre il mondo si prepara alla risposta dei terroristi alla morte del loro leader, è tempo di pretendere dal Pakistan risposte soddisfacenti a questioni che non possono essere ancora eluse. E se queste risposte non arriveranno, forse dovremo considerare l'espulsione di questo Stato terrorista dalla comunità delle nazioni. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)


Salman Rushdie è il celebre autore dei Versetti Satanici ed ex presidente di American Pen

 

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