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LA “GUERRA AL TERRORISMO” DOPO BIN LADEN
Critica Sociale, maggio 2011,

Cosa cambia dopo la morte di Osama bin Laden? Il terrorismo internazionale di matrice jihadista ha subito un colpo letale oppure conserva chance di sopravvivenza? Nei giorni immediatamente successivi all'eliminazione dello sceicco del terrore da parte delle forze speciali Usa, l'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) ha organizzato una tavola rotonda sul tema.

La morte di bin Laden ha effetti solo marginali, sia sulla guerra in Afghanistan che sulla cosiddetta lotta globale al terrorismo. Ne è convinto Andrea Carati, Associate Research Fellow all'Ispi e e ricercatore presso l'Università degli Studi di Milano. Ciò non significa che il colpo dell'intelligence americana rimanga senza conseguenze. Barack Obama potrà fregiarsi del risultato nell'imminente, lunga, campagna presidenziale americana. Le circostanze della clamorosa operazione incideranno anche sul futuro dei rapporti con il Pakistan, alleato inaffidabile quanto indispensabile per l'America, chiamato ora a recuperare la credibilità perduta agli occhi di Washington. Naturalmente, al-Qaeda non potrà rimanere indifferente davanti a un simile scacco, che tuttavia non la indebolisce a livello operativo. Secondo molte fonti, il ruolo di bin Laden, come quello del suo vice Ayman al-Zawahiri, era da tempo squisitamente ideologico. Oltretutto, al-Qaeda conta su un'organizzazione flessibile e orizzontale che le consente di ramificarsi in diversi contesti territoriali e la rende meno vulnerabile alla decapitazione del vertice. Tuttavia, il qaedismo sconta lo scarso radicamento negli svariati contesti territoriali dove è presente, utile per celarsi e rigenerarsi ma non per interagire con il tessuto sociale e diventare un attore politico rilevante. Difficile che "la base" segua il tragitto intrapreso da Hamas ed Hezbollah negli ultimi anni.

In Afghanistan, dal 2001 in poi la presenza e il peso qaedista sono andati scemando. Per sfuggire alla pressione militare occidentale, gli jihadisti hanno spostato le proprie basi altrove (Pakistan, Maghreb, Penisola Arabica). In tempi recenti i comandi militari americani hanno concentrato le energie nella stabilizzazione della situazione sul campo piuttosto che impegnarsi a fondo nella caccia ai pochi terroristi rimasti nel paese. Caccia che ha invece dato risultati molto soddisfacenti nel vicino Pakistan.

In effetti, ora il governo di Islamabad si trova a gestire una situazione complicata, chiosa Elisa Giunchi, che insegna Storia e Istituzioni dei paesi islamici presso l'Università degli Studi di Milano. Da un lato, vi è la perplessità americana dovuta alla lunga residenza di bin Laden in una zona sotto il controllo dell'esercito pachistano. Dall'altro, l'irritazione di larghi settori dell'opinione pubblica per la passività con cui Islamabad è stata costretta ad accettare un'operazione di intelligence Usa sul proprio territorio, senza o con scarso preavviso. O fiancheggiatori di al-Qaeda, o proni alla volontà Usa oppure incompetenti; questi i poco lusinghieri capi d'accusa che il governo e i servizi segreti pachistani si trovano a fronteggiare. Vi sono peraltro risvolti promettenti. Quanto accaduto ad Abbottabad potrebbe indebolire le forze armate e l'intelligence pachistane e dare forza all'élite civili, con esiti interessanti sul versante degli investimenti nello sviluppo sociale e umano del Paese. Sul fronte afghano la morte di Osama è forse suscettibile di agevolare i negoziati, indebolendo ulteriormente al-Qaeda e inducendo i taliban ad affrancarsi dalle aderenze qaediste e a partecipare in qualche modo al governo del Paese.

Non ricorre a cautele verbali Marco Lombardi, esperto di terrorismo e docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che considera un'ottima notizia la morte di bin Laden, di gran lunga preferibile a un suo arresto ed eventuale processo, che gli avrebbero consentito di sfruttare una platea globale per lanciare messaggi bellicosi. L'euforia non deve tuttavia indurre a errate valutazioni, poiché l'ideologia jihadista è per sua natura resiliente alla morte del capo. La fine del leader non è un vulnus, ma costituisce piuttosto un'occasione di rilancio per al-Qaeda.

Se al-Qaeda si sta indebolendo, non lo si deve certo all'eliminazione fisica dei suoi vertici. Il problema è di fondo. I grandiosi presupposti ideologici dello jihadismo (la cacciata degli occidentali dal mondo islamico, la ricostituzione del Califfato, ecc.) alla lunga non reggono più, perché è evidente che non hanno la minima prospettiva di realizzarsi. Molti ex simpatizzanti riconoscono ormai la vacuità degli appelli alla sollevazione islamista. Lo stesso bin Laden dimostrava di essersene accorto. In uno degli ultimi messaggi è infatti tornato a legare la sua lotta a un tema concreto e reale, il conflitto israelo-palestinese ("al-Qaeda continuerà a colpire l'Occidente sin quando quest'ultimo sosterrà Israele a danno dei palestinesi"). Un tentativo, non nuovo, da parte del qaedismo di strumentalizzare situazioni geopolitiche all'origine di situazioni di reale disagio socio-economico.

Nel frattempo, si riscontra un vero e proprio crollo dei finanziamenti diretti alla debole struttura centrale di al-Qaeda, solo parzialmente compensato dalla maggiore raccolta locale da parte delle "filiali" regionali (al-Qaeda nel Maghreb islamico-Aqim, al-Qaeda nella Penisola Arabica-Aqap, ecc.). Lo spaccio d'oppio rimane un'entrata fondamentale, nonostante il raffreddamento dei rapporti con i taliban. 

Sul fronte operativo, lo smembramento e il decentramento di al-Qaeda rendono improbabile un nuovo 11 settembre come reazione all'uccisione del capo storico dell'organizzazione. Ciò non significa escludere attacchi a soft target da parte di piccole cellule, individui solitari e imitatori. Basterebbero pochi morti in una metropolitana per tenere in scacco un'intera società. In Europa e in Nordamerica l'opinione pubblica è disposta a sopportare 3-5 vittime in un mese in seguito ad attacchi terroristici? Decisamente no.

Quali risvolti per il mondo arabo in tumulto? Lombardi vede il pericolo di infiltrazioni e ritiene necessaria una forte presenza delle intelligence occidentali nei paesi arabi che vivono una delicata fase di transizione politica. Gli americani si stanno muovendo in tal senso, intensificando la presenza militare in determinate aree. E' prioritario impedire che componenti qaediste si intromettano nei movimenti democratici arabi, orientando le frange più estreme e radicalizzando le leadership. 

Christian Rocca, giornalista del Sole24ore, si sofferma sulle circostanza che hanno condotto all'assalto fatale al covo di bin Laden per tracciare una sostanziale continuità tra Bush e Obama negli strumenti di lotta al terrorismo internazionale. Poco o nulla è cambiato: medesime tecniche di interrogatorio dei sospetti, medesime strategie contro insurrezionali, medesime modalità operative. Robert Gates, il segretario alla Difesa della precedente amministrazione, è rimasto al suo posto come gran parte dei generali attivi nei principali teatri bellici. Negli ultimi due anni e mezzo si contano oltre duecento attacchi missilistici "mirati" solo in Afghanistan. Centinaia i morti, non sempre militanti islamisti ma anche civili inermi. Guantanamo è forse stata chiusa? I detenuti ivi rimasti non avranno un processo e coloro ai quali sarà concesso non saranno giudicati da tribunali civili, come promesso dai Democratici Usa, bensì da corti speciali.

Quello che voglio dire, prosegue Rocca, è che gli Stati Uniti in questi dieci anni hanno seguito una strategia dura e coerente per rispondere all'attacco delle Torri Gemelle. Osama è morto molto prima del primo maggio scorso. Alla base del suo grande disegno vi era la convinzione che l'Occidente fosse una tigre di carta, incapace di reagire alle aggressioni subite a New York, Washington, Madrid e Londra perché condizionato da un'etica decadente "troppo legata alla vita" quando "noi (qaedisti) amiamo la morte". A corroborare una simile analisi il ritiro americano da Libano negli anni ottanta e dalla Somalia negli anni novanta, davanti a un'opinione pubblica interna poco disposta a tollerare la morte di centinaia di militari in paesi lontani. Inoltre, la sconfitta dell'Unione Sovietica in Afghanistan è stata mal interpretata da Osama e dai suoi accoliti, convinti di aver dato un contributo determinante al crollo della superpotenza, in realtà implosa sotto il peso delle sue lacune strutturali. Tutto ciò ha portato gli jihadisti a sopravvalutare le proprie potenzialità e a proporre un'analisi semplicistica secondo la quale i popoli musulmani si sarebbero presto ribellati ai dittatori filoccidentali che li governavano per volgersi all'islamismo estremista. Si sono sbagliati. La risposta veemente all'11 settembre e il fallimento del grande piano eversivo di Osama sono tra le cause profonde della primavera araba, azzarda Rocca. La grande sorpresa è stata che le piazze arabe si sono scagliate contro il dispotismo imperante in Medio Oriente invocando i principi libertari che ispirano, almeno in teoria, la cultura occidentale contemporanea. (A cura di Fabio Lucchini)


 

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