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NAPOLITANO AL COLLEGE D'EUROPE DI BRUGES: "REGOLE E ISTITUZIONI COMUNI PER IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA"
L'invito a prendere oggi qui la parola è stato da me accolto non solo come un onore, ma, lo ripeto e sottolineo, come un impegno significativo e delicato in rapporto al momento, o meglio alla difficile fase storica, che l'Europa, e per essa l'Unione Europea, sta attraversando.

Da molti mesi, ormai, il tema dell'Europa è quotidianamente presente e dominante nella comunicazione politica, nell'informazione economica, nell'attenzione dei cittadini e delle famiglie, in tutti i nostri paesi. Vi è presente e dominante in termini critici, per le preoccupazioni via via cresciute in ordine alle incertezze del vivere quotidiano e al nostro comune futuro e destino. Ma anche così si è diffusa come forse mai nel passato la percezione di quel che ci lega, che lega le nostre società e le nostre persone in tutta l'Europa via via unitasi in un inedito processo d'integrazione democratica. Di qui la responsabilità – che abbiamo noi tutti – di cogliere l'occasione impostaci da impreviste drammatiche evoluzioni del contesto economico-sociale, non soltanto europeo, per spiegarci con noi stessi, per riflettere sul passato e sul presente.

Essenziale è gettare luce sul percorso compiuto dall'audace progetto annunciato il 9 maggio del 1950, visto che la mia generazione è l'ultima ad aver vissuto la tragedia abbattutasi con la seconda guerra mondiale sui nostri paesi, già flagellati dalla prima, e a conservare il vivo ricordo delle fatali divisioni e distruzioni da cui dovemmo risollevarci. E dopo più di mezzo secolo di unità e di continui progressi, occorre ragionare ora, in un rapporto chiaro e convincente con i cittadini, sulla crisi che ha investito l'Eurozona, e offrire risposte persuasive. C'è, in sostanza, da render chiaro qual è la posta in giuoco per il nostro continente. E non solo per esso : in definitiva quel che di recente si è detto da parte di non europei sul rischio che le nostre difficoltà possono comportare per l'intera economia mondiale costituisce in qualche modo il riconoscimento obbiettivo del peso dell'Europa nel mondo d'oggi, benché il quadro sia così diverso dal passato per effetto di un'impetuosa trasformazione e globalizzazione.La riflessione, sia retrospettiva sia proiettata verso il futuro che qui sollecito, non prescinde dunque dagli imperativi del presente, dal confronto sulle scelte cui l'Europa e le sue istituzioni sono chiamate ora, quasi – si potrebbe dire – giorno per giorno. Ho il massimo rispetto per lo sforzo che affrontano, per i dilemmi dinanzi ai quali si trovano da quando una grave crisi ha investito l'Eurozona, i capi di governo, i massimi responsabili delle istituzioni dell'Unione, i policy-makers che partecipano alla formazione delle decisioni.

Io che vi parlo non faccio più parte di questa schiera, sono un Capo di Stato senza poteri esecutivi, ma so quale sia la fatica dello scegliere e dell'agire ; e nello stesso tempo mi sento corresponsabile, nel bene e nel male, della esperienza compiutasi in Europa negli scorsi decenni. Me ne sento corresponsabile date le funzioni che ho assolto nel passato, nel Parlamento nazionale e in quello europeo, per breve tempo anche nel governo italiano e per lungo tempo nel movimento politico e culturale a favore dell'unità europea. Vorrei che si comprendesse perciò lo spirito – non recriminatorio né didascalico – delle considerazioni critiche che verrò svolgendo.Non mi soffermerò sull'antefatto della crisi dell'Eurozona e cioè sulla crisi finanziaria – con indubbie origini e quindi forti proiezioni nell'economia reale – innescata su scala globale dal crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, ma le cui premesse erano già operanti da un anno e mezzo. E' noto il giudizio, difficilmente contestabile, sulla causa originaria e di fondo di tale crisi globale : individuata nell'indebitamento verso l'estero della più avanzata economia del mondo, nella crescita, per molti anni – negli Stati Uniti – della spesa pubblica e privata oltre le entrate sia dell'uno che dell'altro settore, così da alimentare uno “sviluppo senza risparmio” , e nei conseguenti abnormi squilibri globali. Ma mi interessa rilevare – e a ciò quindi mi limiterò – quella che è stata indicata come una delle criticità che hanno, in più decenni, finito per minare il sistema economico internazionale : il fuorviante assunto che i mercati in generale, e quelli finanziari in particolare, fossero capaci di autoregolarsi e non avessero perciò bisogno di regolazione pubblica .E' precisamente dalla constatazione del danno provocato, e del pericolo costituito, da tale assunto, che è scaturita la consapevolezza dei governi, di tutti i continenti, della necessità di mettere a punto un nuovo sistema di regole, capace di fondare una efficace governance economica globale. E' il compito che si è assunto, e su cui continua a lavorare, tra difficoltà e contraddizioni, una istituzione di nuova creazione, il G20. Per l'Europa, la questione si pone in termini peculiari : cioè anche come questione interna allo sviluppo del processo d'integrazione da noi finora portato avanti, nel senso che dobbiamo adottare revisioni e rafforzamenti di un sistema già operante di regole e di istituzioni comuni. E' attorno a questa acuta esigenza che ruota la discussione, così problematica e serrata, suscitata nell'Unione Europea, nell'Eurozona e nelle diverse sue espressioni istituzionali, dalla crisi greca, da quelle irlandese e portoghese, ma anche dalle tensioni e dai rischi che hanno investito la Spagna e l'Italia in termini di crisi del debito sovrano. A ciò si è reagito e si sta reagendo, da parte delle istituzioni europee e dei governi nazionali, con misure straordinarie e con rilevanti innovazioni, quali la creazione di tre nuove autorità di supervisione e soprattutto la istituzione del Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF), cui è destinato a succedere nel 2013 un Meccanismo permanente che ne persegua in via sistematica e non a termine le finalità. Ed è da apprezzarsi il contributo che è venuto e viene dalla Banca Centrale Europea, anche riempiendo qualche vuoto politico-istituzionale.

Non posso – anche perché non ne ho titolo – tirare le somme dell'insieme delle decisioni e degli interventi di cui il Consiglio Europeo, insieme con l'Eurogruppo, ha via via scandito l'evolversi, da ultimo il 21 luglio scorso e ancora in questi giorni. C'è da tenere presente anche l'importante pacchetto legislativo sulla governance economica varato congiuntamente da Consiglio, Commissione e Parlamento. Nei limiti e nella logica di questa mia esposizione rientrano semplicemente alcune osservazioni su incertezze e contrasti che hanno segnato il cammino dell'Unione nel corso del 2011 e che toccano in modo rivelatore nodi di fondo irrisolti rispetto al comune progetto europeo e al suo futuro.

La grande questione è quella di ciò che ha rappresentato la scelta della moneta unica, e quindi la nascita dell'Euro ; ed è nello stesso tempo, più in generale, quella del seguito che doveva darsi e non è stato dato al Trattato di Maastricht. Quel Trattato rappresentò uno storico avanzamento – e resta una pietra miliare – del processo di integrazione europea : la scelta della moneta unica ne fu parte integrante ma non separabile dal suo più vasto quadro complessivo. Il percorso di più anni che sfociò a Maastricht – mai c'è stata una più attenta, graduale, meditata e discussa preparazione di un Trattato europeo – e le decisioni finali, faticosamente raggiunte, recano l'impronta di leaderships lungimiranti dei paesi allora membri della Comunità, e innanzitutto dei tre maggiori paesi fondatori. Per l'Italia, uomini di governo che guidarono il semestre di presidenza europea nella seconda metà del 1990 e concorsero fortemente alla definizione del Trattato – tra essi voglio ricordare Guido Carli – e diplomatici di valore, civil servants dello stampo di Carlo Ciampi, Tommaso Padoa Schioppa, Mario Sarcinelli, Mario Draghi. Per la Germania, più di chiunque altro, Helmut Kohl, che colse con eccezionale lucidità e coraggio la necessità di legare in una prospettiva comune l'unificazione tedesca, divenuta ormai realizzabile, e un balzo in avanti sulla via dell'unione, economico-monetaria e politica, dell'Europa. E per la Commissione Europea il Presidente Jacques Delors, autore del decisivo Rapporto del 1989. A Maastricht nacque, raccogliendo i frutti e le eredità delle tre Comunità preesistenti, l'Unione Europea. E non si trattò certo di un mutamento semantico, ma di un cambiamento in senso politico, e di un deciso allargamento di orizzonti e obbiettivi. Al centro si collocò indubbiamente la prospettiva ravvicinata della introduzione della moneta unica, e della istituzione di un Sistema europeo di banche centrali e di una Banca centrale europea. Il grande progetto di integrazione, enunciato nel maggio 1950 e decollato nel 1951-52 con la firma e l'entrata in vigore del Trattato istitutivo della CECA, raggiungeva così un livello, toccava una profondità, di valore storico, trasferendo al livello sovranazionale la sovranità monetaria, un attributo che al pari della spada, dell'esercito, era in ogni dottrina riservato agli Stati nazionali.

Quando oggi diciamo con tanta forza – tutti quelli tra noi che hanno ruoli istituzionali e di governo nell'Unione – che l'Euro è pilastro irrinunciabile dell'Europa unita, ci riferiamo innanzitutto al valore storico della sua introduzione nello spirito di una Europa federale. Valore che sarebbe stato colto da Altiero Spinelli, se fosse rimasto in vita, meglio che da chiunque altro, come coronamento delle sue profetiche battaglie.Per suffragare questa nostra affermazione, è giusto documentare e mettere in luce i benefici che l'esistenza dell'Euro ha apportato a tutti i paesi che vi hanno aderito, nessuno escluso : è giusto ed è necessario farlo più di come lo abbiamo fatto di fronte alle turbolenze di questo difficile 2011, talvolta esitando a reagire a ondate di opinione fondate sulla disinformazione e sulla diffusione di meschini pregiudizi nazionali. Ma non basta. Su due altri elementi è indispensabile richiamare l'attenzione.

Il primo riguarda la genesi della scelta della moneta unica. Questa è stata concepita e adottata non sulla base di uno schema astratto, in ossequio a una visione pregiudiziale di stampo federalista, bensì sulla base dell'evoluzione reale della costruzione europea, in ossequio a una sua interna, ormai matura necessità. Indicativa era stata, negli anni '80, l'esperienza dello SME, il Sistema Monetario europeo, i cui limiti erano emersi a mano a mano che si avanzava verso la piena realizzazione dei principi sanciti nel Trattato istitutivo della Comunità europea e verso il completamento del mercato unico. Diventava ineludibile il problema enunciato da Tommaso Padoa Schioppa con la formula del “quartetto inconciliabile” : libero scambio, liberi movimenti di capitale, tassi di cambio fissi, e autonomia delle politiche monetarie e macroeconomiche nazionali in un sistema di Stati sovrani non possono coesistere a lungo. Non si poteva uscirne che con il passaggio – nell'Europa in via di già crescente integrazione – all'unione monetaria. Era, questa, una necessità oggettiva di cui via via si accrebbe la consapevolezza.Il secondo elemento su cui richiamare l'attenzione è il vero contenuto delle discussioni recenti, in corso da mesi, e delle ulteriori decisioni da prendere al livello europeo. Nessun argomento consistente è stato portato per mettere in questione la validità della scelta dell'Euro e la sua irreversibilità : già all'inizio degli anni '90, quando si fece quella scelta, non c'era alternativa all'Unione monetaria ; e non ce n'è oggi alcuna alla prosecuzione del cammino dell'Euro. Il vero nodo è costituito dal rapporto tra unione monetaria e unione politica : esso in effetti fu ben presente a quanti ebbero parte nella preparazione del Trattato di Maastricht e nel negoziato finale. Ma che cosa mancò allora e, soprattutto, è mancato dopo?

Il concetto di unione politica è stato spesso evocato in modo piuttosto indefinito. In termini generali, si può affermare che indubitabilmente politica fu l'origine, e l'impronta, del processo di integrazione europea. Non a caso esso fu concepito partendo dall'obbiettivo della riconciliazione franco-tedesca come condizione per la pace nel cuore dell'Europa. In effetti, la Comunità, nel corso dei suoi quarant'anni di vita, assunse una dimensione internazionale, si diede uno strumento di cooperazione in politica estera e svolse un ruolo non trascurabile nella sfera delle relazioni internazionali. E più in generale nel suo sviluppo la costruzione comunitaria assunse molteplici altre dimensioni non puramente funzionali alle esigenze del mercato comune. Ciò premesso, con la trasformazione della Comunità in Unione nuovi traguardi politici si imponevano e in effetti trovarono posto nel Trattato di Maastricht : una politica estera e di sicurezza comune, una cittadinanza europea, un ruolo accresciuto del Parlamento europeo. Ma la materia del contendere, la sostanza di un processo di unione politica, stava in un ulteriore, risoluto allargamento della sovranità condivisa da esercitare in comune al livello europeo rispetto alle sovranità degli Stati nazionali. Venne compiuto il passo così importante ed audace dello spostamento al livello sovranazionale della sovranità monetaria : ma poteva bastare? O potevano bastare gli strumenti di “accompagnamento” che nel Trattato vennero previsti, per quel che riguarda in particolare la disciplina di bilancio degli Stati membri aderenti all'Euro? Potevano bastare orientamenti di semplice coordinamento delle politiche economiche nazionali, come quelli cui venne affidata – anni dopo Maastricht – l'ambiziosa Strategia di Lisbona condannandola all'insuccesso?

Quando il Cancelliere dello Scacchiere inglese replicò nell'aprile 1989 al Rapporto del Comitato Delors rilevando che “l'unione monetaria richiederebbe l'unione politica, e questa non è all'ordine del giorno”, colse senza dubbio il punto cruciale. Ci sono stati anche europeisti convinti e sinceri che avrebbero voluto lasciare sospesa la decisione sulla moneta unica per ancorarla alla più o meno lontana nascita di una Federazione europea : ma questa era una pretesa irrealistica rispetto alla maturità del passaggio all'unione monetaria. Quel che si poteva piuttosto postulare era il contestuale passaggio a una politica monetaria, a una politica fiscale e di bilancio, e a una politica macroeconomica, decisamente affidate a una sovranità europea condivisa. Ed è questo il nodo politico che sta ora venendo al pettine.

Solo avanzando in questa direzione si possono garantire principi, valori e obbiettivi che stanno a cuore a noi tutti : stabilità finanziaria, corresponsabilità e solidarietà, crescita competitiva dell'economia europea nel suo complesso secondo quella visione che un anno fa qui il Cancelliere Signora Merkel ha rivendicato con accenti appassionati come modello proprio dell'Europa unita. “Un modello di società e un modo di vita” – ella ha detto – “che coniugano la forza della competitività alla responsabilità sociale”. E non ho bisogno di ricordare a questo proposito l'importanza di quella Carta sociale europea di cui celebriamo il cinquantenario.Ma non è venuto allora il momento di riconoscere che dinanzi alla crisi della Grecia e dell'Eurozona si sono nei mesi scorsi manifestate in certi paesi esitazioni e resistenze che hanno dato il senso di un oscurarsi del principio di solidarietà? Non è venuto il momento di superare quello che è apparso un tabù rispetto a pur diverse ipotesi di introduzione di Bonds europei? Di superare persistenti riserve dinanzi all'adozione di norme e mezzi efficaci al fine di perseguire una comune strategia di sviluppo? E parlo di quella che la Commissione ha proposto per il 2020 ma di cui occorre garantire l'efficacia vincolante, l'effettiva attuazione. E come si può non vedere la contraddizione insuperabile tra l'esigenza di un balzo in avanti nel processo di integrazione, nella assertività e nella capacità realizzatrice dell'Europa unita, e un approccio restrittivo alla prova delle prospettive finanziarie dell'Unione per il periodo 2014-2020?

Queste domande dovremmo, tutti, rivolgerle a noi stessi. Sia chiaro : ciascuno Stato nazionale membro dell'Eurozona deve fare la sua parte, assumersi fino in fondo le sue responsabilità. Tra essi certamente l'Italia : la cultura della stabilità finanziaria ha avuto nel mio paese sostenitori autorevoli e coerenti nell'esercizio delle loro funzioni pubbliche, ma non ha, per lungo tempo, prevalso. Ebbene, ora non possiamo più tergiversare di fronte all'imperativo categorico di uno sforzo consistente e costante di abbattimento del nostro debito pubblico, né restare incerti dinanzi a riforme strutturali da adottare per rendere possibile una nuova, più intensa crescita economica e sociale. Si tratta di prove di indubbia durezza, con cui dobbiamo cimentarci ; e abbiamo in questi mesi cominciato a farlo, ma molto resta ancora da fare, senza indugio. E nessuna forza politica italiana può continuare a governare, o può candidarsi a governare, senza mostrarsi consapevole delle decisioni, anche impopolari, da prendere ora nell'interesse nazionale e nell'interesse europeo. Guido Carli, governatore della Banca d'Italia dal 1960 al 1975, scrisse poco dopo la firma a Maastricht : “la classe politica italiana non si è resa conto che, approvando il Trattato, si è posta nella condizione di aver già accettato un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne”. Sono parole ancora attuali.Ciascuno deve fare la sua parte, ma tutti insieme dobbiamo rispondere alle domande di attualità e alle questioni di prospettiva che ho prima suggerito. Fin dal momento della nascita e dei successivi primi passi del progetto di integrazione europea, l'intesa tra Francia e Germania ha giuocato un ruolo essenziale : basti ancora una volta richiamare le figure di Schuman e di Adenauer, e insieme con essa quella di Alcide De Gasperi.

Come italiani, che vantiamo un lungo percorso di costante, determinante sostegno al progetto europeo, rispettiamo ancor oggi l'insostituibile apporto di quei due grandi paesi europei amici e dei loro leaders. Rispettiamo come sempre in modo particolare la dedizione della Germania alla causa europea, e ne ammiriamo i successi conseguiti come grande paese democratico sul piano economico-sociale e sul terreno della stabilità monetaria, comprendendo le ragioni storiche del suo attaccamento a questo essenziale pilastro. Esprimiamo amichevolmente la preoccupazione per quella che appare una riluttanza ad accettare ulteriori, ormai inevitabili, trasferimenti di sovranità – e dunque anche di decisioni a maggioranza – al livello europeo. In fondo, dal Cancelliere tedesco e dal Presidente francese sono state negli ultimi tempi avanzate proposte – poi in parte tradotte nel Patto Euro Plus – tali da scavalcare la rigida parete divisoria che si volle sancire nel vigente Trattato a protezione delle competenze degli Stati nazionali, contro una progressiva estensione di quelle dell'Unione.

Comune alle leaderships di tutti i nostri paesi dovrebbe diventare la consapevolezza che è indispensabile procedere oltre i limiti rimasti ancora in piedi non solo nel Trattato costituzionale poi abortito ma anche e ancor più nel successivo Trattato di Lisbona. L'esigenza di “più Europa”, univocamente posta negli appelli, anche ricchi di indicazioni concrete, che si susseguono a firma di sperimentate e autorevoli personalità europee, è con sempre maggiore evidenza divenuta tassativa in un mondo, per di più scosso da una crisi come quella attuale, nel quale nessun singolo paese europeo, nemmeno il più grande ed efficiente, può “salvarsi da solo” e svolgere con le sue sole forze un ruolo significativo.

Quel “più Europa”, prospettato in antitesi a una tendenza innegabile a ripiegamenti nazionali se non nazionalistici, sollecita l'esercizio di maggiori poteri decisionali da parte delle istituzioni dell'Unione in un clima di reciproco rispetto e di rinnovata collegialità, al di là dell'apporto propositivo di singoli governi nella fase di formazione degli orientamenti e delle decisioni. La collegialità per il Consiglio è affidata alla garanzia del Presidente stabile istituito dal Trattato di Lisbona ; per la Commissione essa è egualmente imperniata sul ruolo del Presidente, anche se sarebbe certamente favorita da una riforma – prevista per il dopo 2014 – attraverso la quale, sulla base di nuovi criteri, si definisse per la Commissione una composizione più ristretta e indipendente da condizionamenti nazionali. Il metodo comunitario – che vede anche il Parlamento europeo giuocare un ruolo paritario e di primo piano – resta incompatibile con una deriva intergovernativa, ma riconosce il giusto spazio a quella “azione coordinata degli Stati membri” su cui mette l'accento il Cancelliere tedesco ; l'essenziale è non mortificare la funzione delle istituzioni più propriamente sovranazionali, Commissione e Parlamento.Si eviti comunque di alimentare una polemica fuorviante come quella sullo spettro di un terribile super Stato europeo, novello Leviatano. Lo sbocco a cui tendere non è una replica del modello, storicamente realizzatosi nelle nazioni europee, di uno Stato in maggiore o minor misura centralizzato e pesantemente burocratizzato, ma una più complessa e articolata costruzione multi-livello, regolata da un flessibile principio di sussidiarietà.C'è tuttavia da chiedersi se una più conseguente messa in comune, al livello dell'Unione, di sovranità e di poteri decisionali, richieda ora un nuovo Trattato. La questione non è priva di fondamento e non può essere semplicemente accantonata. Ma l'esperienza che ho personalmente vissuto dell'affossamento per via referendaria del Trattato costituzionale, già modificato in qualche sua innovazione nel corso della Conferenza Intergovernativa, e poi della lunga, estenuante stagione delle ratifiche del Trattato di Lisbona, mi spinge a suggerire la massima ponderazione. Bisogna stare attenti alla delimitazione di quel che va rivisto nel Trattato, e innanzitutto mirare a superare il vincolo dell'unanimità delle ratifiche. C'è inoltre il rischio che aprendo il cantiere per un nuovo Trattato, si determini un vuoto o uno stato di attesa, mentre si può e si dovrebbe lavorare innanzitutto e subito per cogliere le possibilità presenti nel vigente Trattato anche al fine di rafforzare la disciplina di bilancio e la sorveglianza sugli orientamenti di politica economica nella zona Euro.

In conclusione : concentriamoci sul da farsi nella fase attuale, ma in pari tempo cercando di spingere più lontano lo sguardo per riproporre il discorso sull'Europa alle generazioni più giovani. Non lasceremo che l'Euro ceda agli attacchi della speculazione e ad ondate di panico nei mercati finanziari: nessuno si faccia illusioni in proposito. E nessuno pensi di veder vacillare l'intera costruzione europea : da 10 anni essa si è dotata, con l'Euro, di un nuovo essenziale pilastro e punto di forza, ma si è in 60 anni definita e consolidata come qualcosa di assai vasto, ben al di là della sua dimensione strettamente economica e infine monetaria. Si è via via unito – nelle sue diversità – un continente ricco di tradizioni e di risorse, dando luogo a un processo d'integrazione che è divenuto un punto di riferimento per tutto il mondo. Si è forgiata una comunità di valori, e con essa una comunità di diritto complessa e articolata nel segno della libertà e della democrazia. Di qui la sapiente elaborazione – quale straordinario unicum! – di un diritto comunitario, sul cui sviluppo e sul cui rispetto vigila un sistema di Corti di suprema garanzia. Dalla creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia alla introduzione di una Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, è stato un continuo allargarsi di orizzonti del progetto europeo. E nello stesso tempo si è delineata la prospettiva di una comune visione e capacità d'azione europea nel campo delle relazioni internazionali e della difesa e sicurezza.Non sottovaluto tutto quel che di insoddisfacente presenta il bilancio della costruzione europea. Ma quel che voglio dire è che essa ha ormai delle fondamenta talmente profonde, che si è creata un'interconnessione e compenetrazione così radicata tra le nostre società, tra le nostre istituzioni, tra le forze sociali, i cittadini e i giovani dei nostri paesi, che nulla può farci tornare indietro, che non è pensabile uno sfaldarsi di questa costruzione. Chiunque pensi o immagini il contrario deponga le sue velleità. Ma noi uomini e donne di ogni parte d'Europa dobbiamo riacquisire consapevolezza e orgoglio del progetto e del processo di integrazione che ci ha unito. E specialmente ai giovani dico : il vostro futuro è qui, non in un qualsiasi “altrove”, tanto meno in una chiusura dei nostri paesi in se stessi, in un impossibile ritorno al passato.Tutto è cambiato rispetto al punto di partenza, al lontano 1950. Ma ci sorreggono fortissime nuove motivazioni : la missione dell'Unione di Stati e di popoli cui abbiamo dato forza crescente è quella di far vivere dentro una globalizzazione sregolata che potrebbe sommergerci, la nostra identità, il nostro esempio e modello di integrazione e unità, l'insopprimibile peculiarità del nostro apporto allo sviluppo storico e all'avvenire della civiltà mondiale.E a questa missione dobbiamo ispirarci, specialmente ora che vediamo e tocchiamo con mano quali disuguaglianze, squilibri e ingiustizie hanno finito per sprigionarsi e ancora si sprigionano dalla pressione di oligarchie irresponsabili e dalla finanziarizzazione esasperata degli ultimi tempi. Un'Europa ancor più integrata e assertiva è il solo quadro di riferimento, senza alternative, entro il quale si può operare per riaprire nei nostri paesi un sentiero di sviluppo sostenibile, per scongiurare il pericolo che più sovrasta i giovani, quello di una pesante recessione, di un futuro senza occasioni di lavoro e di affermazione sociale per un'intera nuova generazione.Ai giovani dico dunque : puntate sull'Europa, e in particolar modo su quell'impegno di socialità che è sempre stato proprio e distintivo della visione europea dello sviluppo dell'economia. E' un impegno da rilanciare oggi più che mai. Ricordo che nelle discussioni che prepararono il Trattato di Maastricht e la scelta della moneta unica, si propose – purtroppo senza successo – che si assumesse come uno dei criteri di convergenza tra le economie europee in vista dell'adesione all'Euro, anche quello di un tasso contenuto di disoccupazione e soprattutto di disoccupazione giovanile. E' un esempio dell'ispirazione sociale da recuperare fortemente, attualizzandola.Una riproposizione risoluta, nell'opinione pubblica, tra larghe masse di cittadini e di giovani, delle ragioni vecchie e nuove del progetto europeo, richiede quel che finora è largamente mancato sul piano della legittimazione e validità democratica : un dibattito pubblico trasparente, un confronto politico oltre i confini nazionali che possa sfociare anche nell'elezione diretta del presidente dell'organo di governo dell'Unione, la crescita, finalmente, di attori politici e sociali strutturati al livello europeo, una dimensione parlamentare nella quale si integrino la rappresentanza – giunta a un così alto e incisivo ruolo – nel Parlamento europeo con le rappresentanze nei Parlamenti nazionali, una rete di relazioni istituzionali che coinvolga ampiamente le autonomie regionali e locali. Non è forse questo un programma che può stimolare e mobilitare le giovani generazioni, riconciliandole con la politica?

L'impegno di quanti credono nel progetto europeo come scelta irrinunciabile guardando al futuro, deve farsi esigente. Nell'ottobre 1989, in un altro momento storico cruciale, parlando qui per l'inaugurazione dell'Anno Accademico, Jacques Delors disse : “Io sono sempre stato un adepto della politica dei piccoli passi, ma me ne allontano oggi, perché abbiamo il tempo contato. E' necessario un salto di qualità tanto in quel che riguarda la nostra concezione della Comunità europea, quanto in quel che riguarda la nostra azione verso l'esterno”. Ebbene, in quegli anni, con il Trattato di Maastricht e con l'Euro, un salto di qualità venne compiuto. E' tempo ora di compierne un altro, ancor più deciso.
 

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