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ROMNEY VS OBAMA
Critica Sociale, ottobre 2012,

Da tempo si discute del declino della potenza americana, ma nessuno mette in dubbio che il presidente degli Stati rimane l’attore più influente della scena internazionale. E’ pertanto normale che i paesi membri della Nato seguano con attenzione le ultime battute della campagna presidenziale che il 6 novembre designerà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Un research paper del Nato Defense College di Roma, curato da Patrick Keller, ricercatore della Konrad Adenauer Foundation, cerca di enucleare le differenze tra l’approccio in politica estera del presidente Obama e quello del suo avversario, Mitt Romney. Differenze, occorre subito dirlo, non abissali, come ha mostrato l’ultimo dibattito presidenziale del 22 ottobre in Florida, ma comunque meritevoli di attenzione e analisi.
Innanzitutto, la critica di Romney all’azione e alle idee di Obama deve confrontarsi con tre questioni di fondo. In primo luogo, il cosiddetto “Cuomo Problem” dal nome dell’ex governatore dello Stato di New York, secondo il quale si fa campagna elettorale in poesia per poi governare in prosa. In effetti, i proclami elettorali spesso dicono poco di come un candidato si comporterà una volta in carica. Non si tratta necessariamente di malafede. Talvolta è l’imponderabile a condizionare le scelte di chi governa – si pensi a George W. Bush, divenuto presidente difendendo la necessità di un minor impegno Usa nel mondo e poi, dopo l’11 settembre, determinato a intervenire ovunque ritenesse annidarsi una minaccia agli interessi americani (Afghanistan e Iraq).
Il secondo problema è legato nello specifico alle elezioni 2012, che non si decideranno affatto sulla politica estera, ma sui grandi temi interni dell’economia. Tornando al dibattito in Florida, ha colpito molti osservatori il fatto che i due candidati si siano allontanati dal fuoco del confronto, la politica estera appunto, per tornare a sfidarsi sulle vicende dell’occupazione, ricordando agli spettatori le rispettive ricette per uscire dalla crisi. Infine, la vaghezza di molte posizioni di Romney non contribuisce a chiarire le sostanziali divergenze tra i due candidati sul ruolo dell’America nel mondo.
Per certo, i due candidati condividono l’impostazione strategia che si è affermata come reazione all’attivismo unilaterale di George W. Bush e che si fonda su tre capisaldi: primo, mantenere l’economia Usa in ordine; secondo, eliminare ogni minaccia immediata agli interessi nazionali (colpendo  i terroristi e i nemici grazie all’utilizzo di droni e sabotando informaticamente il programma nucleare iraniano); terzo, disimpegnarsi dai teatri di conflitto ed evitare nuovi onerosi impegni militari. Ciononostante, le opinioni dei due sfidanti divergono su alcuni elementi specifici, che Keller elenca puntualmente.

Il ruolo dell’America nel mondo

Romney rifiuta l’idea dell’inevitabile declino degli Stati Uniti negli affari globali. Per il candidato Repubblicano “il declino è una scelta”, che egli si impegna a contrastare “restaurando i tre fondamentali del potere americano, ossia solidi principi, un’economia e un esercito forti.” Romney considera la preponderanza strategica del suo paese come un bene non solo per l’America in sé ma anche per la sicurezza e la stabilità dei diversi quadranti geopolitici. Un ordine mondiale “americano” sarà di beneficio a tutti coloro che perseguono la prosperità e che seguono con convinzione i valori della liberaldemocrazia. Partendo da tali convinzioni, non sorprende che l’ex governatore del Massachusetts imputi al presidente una scarsa difesa della leadership statunitense nel mondo.
Nel quadriennio alla Casa Bianca, Obama ha in effetti evitato ogni sorta di retorica nazionalista, ricorrendo di frequente ad espressioni di basso profilo perfino sull’American exceptionalism: “Credo nell’eccezionalità americana, ma altresì sospetto che a Londra si creda nell’eccezionalità britannica e ad Atene in quella greca”. Aldilà dello stile, il presidente si è mostrato riluttante a ricorrere persino al soft power in alcune crisi che in passato avrebbero indotto una ben diversa reazione a Washington. Sia in Iran ai tempi della repressione seguita alla rielezione di Ahmadinejad, sia durante la guerra civile libica, sia nel corso delle attuali violenze siriane, Obama ha mostrato un’estrema riluttanza a impegnarsi diplomaticamente e militarmente.
E’ plausibile che l’atteggiamento presidenziale sia dovuto ai limiti oggettivi all’azione americana piuttosto che alla applicazione pratica di convinzioni personali in tema di relazioni tra Stati. Del resto, l’interventismo della precedente amministrazione in Iraq e Afghanistan ha avuto luogo sullo sfondo di un epocale attentato sul suolo americano e in una situazione economica ben diversa.
L’aspetto forse più interessante della retorica di Romney è la sua prossimità alle tesi di Robert Kagan (colui che una decina di anni fa paragonò gli Usa a Marte e l’Europa a Venere). La vicinanza del candidato Repubblicano ad alcune delle personalità influenti dell’Era Bush è confermata dalla collaborazione con John Bolton, già duro rappresentante Usa alle Nazioni Unite. Non è il caso tuttavia di accomunare frettolosamente Romney al neoconservatorismo, dato che il suo team include anche un autorevole membro della scuola realista delle Relazioni Internazionali come Robert Zoellick.

Alleati e partner strategici

Cosa pensa lo sfidante della Nato? La difesa territoriale dei paesi membri non è più la finalità principale dell’alleanza, sostiene Romney, che ritiene che per difendere la sicurezza e gli interessi dell’Occidente la Nato debba rafforzare la sua capacità di proiezione militare in territori lontani. Una tesi sostanzialmente condivisa dal presidente in carica. L’alleanza può inoltre funzionare efficacemente solo se guidata con autorevolezza dagli Usa e non timidamente, “dalle retrovie”, come fatto da Obama in Libia. Per rilanciare la leadership di Washington in seno all’Alleanza, Romney promette di invertire la politica di tagli alla spesa militare che è stata uno dei punti qualificanti del primo mandato di Obama.
E l’Europa? Il candidato Repubblicano condivide il malcontento espresso dal presidente in questi anni rispetto agli scarsi investimenti militari dei partner europei. Ma con un’importante distinzione; se Obama contesta l’austerity tedesca e ritiene che l’Europa possa superare la sua crisi economica attraverso programmi di stimolo e spesa pubblica, il rivale mette sotto accusa gli ancora troppo pesanti sistemi di welfare che a suo dire ostacolano la ripresa nel Vecchio Continente. Tornando alle problematiche della sicurezza, egli invoca “il completamento di un sistema complessivo di difesa missilistica nell’Europa orientale”, polemizzando col presidente per avere abbandonato le installazioni missilistiche in Polonia e Repubblica Ceca che l’amministrazione Bush aveva messo in cantiere.
La maggiore divaricazione riguarda la posizione verso Israele e il conflitto mediorientale. Essendo un tradizionale amico di Israele, in caso di elezione, Romney non eserciterà grandi pressioni sul governo di Tel Aviv e si mostrerà meno comprensivo di Obama verso la causa palestinese. “Chiariremo ai palestinesi che ogni tentativo di risoluzione unilaterale della questione non sarà accettabile. Gli Stati Uniti ridurranno l’assistenza ai palestinesi se continueranno a perseguire, unilateralmente, il riconoscimento alle Nazioni Unite o se formeranno un governo di unità nazionale che includa Hamas”. Ciò non deve peraltro sminuire l’accordo con Obama sull’imprescindibilità della sicurezza israeliana per gli interessi americani e sulla preferenza per la soluzione due popoli-due Stati.

Sfide e minacce

Tre sono le principali minacce individuate da Romney: la crescita militare della Cina, l’espansione dell’influenza russa e le azioni del movimento jihadista globale. Senza dimenticare l’emergenza del nucleare iraniano: “Se rieleggerete Barack Obama, l’Iran avrà l’arma nucleare. Se mi eleggerete come presidente, questo non avverrà.”  Ma non è chiaro cosa potrà fare di diverso rispetto all’attuale amministrazione.  E’ comunque probabile che nei prossimi mesi, se le sanzioni e la diplomazia dovessero fallire nel modificare la politica iraniana, il conflitto militare diverrà l’opzione più plausibile. Chiunque sieda a Washington.
Romney accusa la Cina di manipolazione valutaria  e di violazione dei diritti d’autore, auspicando ritorsioni commerciali contro Pechino. Una politica realistica? Gli Usa devono muoversi con estrema attenzione se desiderano prevenire l’ascesa cinese evitando, allo stesso tempo, tensioni destabilizzanti con la Repubblica Popolare. Romney condivide la crescente attenzione, anche militare, dedicata da Obama alla regione del Pacifico, ma intende svilupparla in senso più aggressivo per rassicurare gli alleati asiatici preoccupati dalla politica cinese.
In una intervista televisiva l’aspirante presidente ha dichiarato che la Russia è senza dubbio la minaccia geopolitica numero uno per il suo paese: “Resettare la politica del reset di Obama”. Aldilà delle uscite da campagna elettorale, l’unica vera rottura nei confronti di Mosca potrebbe riguardare il controllo degli armamenti, in particolare il nuovo accordo START, che Romney promette di rivedere se eletto presidente.  Per il resto, è solo il tono a separarlo da Obama, dato che entrambi auspicano una maggiore indipendenza energetica dei paesi europei dalla Russia e un miglioramento delle relazioni di Washington con i paesi ex sovietici dell’Asia Centrale.
Romney continuerà a combattere la minaccia terroristica con il massiccio utilizzo di droni e tramite operazioni sotto copertura, senza invadere i failed o failing states sospettati di essere basi jihadiste, ricalcando l’operato di Obama negli ultimi quattro anni in Pakistan e Afghanistan. Il candidato Repubblicano opera dei distinguo verso la scelta presidenziale di un rapido ritiro dallo stesso Afghanistan e di un troppo conciliante atteggiamento verso i talebani, ma in fondo concorda sul piano Nato per il ritiro di tutte le forze combattenti dal paese entro la fine del 2014. La postura di Romney su molte tematiche sembra insomma ispirata dalla volontà di apparire semplicemente “più duro” del presidente. Di apparire, appunto.

Conclusioni

In conclusione, è lecito aspettarsi una certa continuità nella politica estera americana del quadriennio a venire. Obama può essere considerato a pieno titolo un internazionalista liberale, mentre il suo avversario si inserisce nella tradizione nazionalista e realista, con venature neocon.  Tuttavia, a meno dell’imprevedibile (un altro 11/9), le scelte di politica estera verranno condizionate dai limiti imposti dalla situazione economica interna, forse con l’unica eccezione, se vincesse Romney, di un aumento delle spese militari. Con una presidenza Repubblicana, le relazioni con i paesi non amici (Russia, Cina, Iran, Corea del Nord, Cuba e Venezuela) potrebbero lievemente peggiorare. I toni meno concilianti di Romney avrebbero anche l’effetto di irritare qualche alleato europeo, almeno nel breve periodo. Ma nulla più.
Paradossalmente, la maggiore discontinuità potrebbe celarsi nella continuità. Se confermato in carica, è presumibile che Obama, non più alla ricerca della rielezione e comunque limitato negli affari domestici dalla maggioranza Repubblicana alla Camera e forse al Senato, cerchi il suo posto nei libri di Storia con una politica estera più ambiziosa. L’azzeramento degli arsenali nucleari, la pacificazione del conflitto israelo-palestinese e un rinnovato dialogo con i paesi ostili all’America risulterebbero gli ambiti di azione di un rinnovato idealismo obamiano. Non sembra che l’Europa occupi un posto speciale nei pensieri dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Un dato di fatto destinato a permanere anche in caso di ricambio a Washington e che invita a riflettere sull’urgenza di porre rimedio al declino del progetto europeista. Pena l’irrilevanza dell’Ue e l’allargarsi della frattura euro-atlantica. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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