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LE OMBRE DEL LIBERALISMO USA
La netta riconferma alla presidenza di Barack Obama ha rallegrato i progressisti di tutto il mondo (europei in particolare) e galvanizzato i liberal americani. Ma è tutto oro quel che luccica? Charles Kadlec, per Forbes, sceglie una prospettiva di lungo periodo per riflettere sull'evoluzione della cultura politica statunitense e sulle tendenze future. Una proposta di lettura interessante anche per gli europei, spesso pronti ad abbracciare gli orientamenti politici predominanti dall'altra parte dell'Atlantico senza contestualizzarli e comprenderli a fondo.

L'editorialista di Forbes usa come riferimento per la sua analisi I Am the Change, Barack Obama and the Crisis of Liberalism volume di Charles Kesler, professore del Claremont McKenna College. Kesler posiziona Obama nel solco della tradizione liberal-progressista americana, una tradizione vecchia di oltre cent'anni, ormai talmente radicata nel discorso politico Usa da consentire all'attuale presidente di venir rieletto nonostante la difficile situazione economica del paese.

Il capostipite dei presidenti progressisti, Woodrow Wilson, eletto per la prima volta nel 1912, fu il primo a criticare la Costituzione americana e in particolare il suo sistema di controlli e freni per limitare il potere del governo federale nei confronti delle libertà del singolo, un caposaldo della tradizione politica e della mentalità nazionale. Limiti intollerabili secondo Wilson, che considerava l'interventismo necessario per venire incontro ai bisogni emergenti di una società in evoluzione.

Il primo decisivo contributo dell'ex preside di Princeton al moderno liberalismo fu la teoria della "living Constitution", una Costituzione vivente che si distaccasse dal dettato di quella scritta e che consentisse all'esecutivo di incidere nella società. Il secondo contributo riguardò il rafforzamento della leadership presidenziale, come agente di cambiamento in grado di guidare i cittadini verso un futuro migliore.

L'attacco portato alla Costituzione dal secondo grande presidente liberal, Franklin Delano Roosevelt (anch'egli ovviamente Democratico), fu più sottile. La sua presidenza veniva dopo un periodo di prosperità a guida Repubblicana (i "Roaring Twenties"), caratterizzato dalla bassa pressione fiscale e dalla riduzione del ruolo del governo, e concluso dal crollo di Wall Street del '29. Grazie a Roosevelt il termine "liberalismo" assunse un nuovo significato in America: non più "libertà dal governo e primazia dell'individualismo" come volevano i Padri Fondatori, ma accentuato governo della maggioranza e Costituzione vivente. Il liberalismo rooseveltiano si fondava su un governo che ricorresse a "tutto il suo potere e (a) tutte le sue risorse per far fronte ai nuovi problemi sociali con nuovi controlli sociali, assicurando alle persone il diritto alla propria vita economica e politica, alla libertà e alla ricerca della felicità".

Nel 1944, Roosevelt annunciò il Second Bill of Rights, una evocativa lista di diritti positivi che, per essere compiutamente realizzati, richiedevano un sempre più diffuso controllo dello Stato sull'individuo. Ad esempio, il diritto a un lavoro soddisfacente e remunerativo, il diritto a guadagnare abbastanza per potersi permettere cibo, vestiti e attività ricreative, il diritto per ogni uomo d'affari, grande o piccolo, di muoversi in un ambiente economico libero dalla competizione sleale e dal monopolio (in patria come all'estero) e il diritto ad usufruire di adeguate cure mediche. Roosevelt immaginava che un governo in grado di provvedere programmaticamente ai bisogni e ai desideri dei cittadini sarebbe stato in grado di ridurre l'individualismo e il materialismo che egli considerava i mali principali della società americana.

Il progetto del presidente del New Deal si infranse negli anni sessanta, quando Lyndon Johnson, subentrato a John Fitzgerald Kennedy nel 1963 e al potere fino al 1968, divenne l'alfiere della terza grande ondata progressista. Con la "Grande Società" johnsoniana l'obiettivo divenne qualitativo: migliorare la vita delle persone, porre fine alla povertà, assicurare a tutti l'abbondanza. Johnson spiegava: "La Grande Società non è un porto sicuro, un buen retiro, un obiettivo finale, un lavoro finito, ma una sfida costantemente rinnovata, che ci deve condurre a una destinazione dove il significato delle nostre vite si incontri con i meravigliosi prodotti del nostro lavoro." Utopia?

Nonostante il fallimento della Grande Società nel garantire alla generalità degli americani il benessere materiale e spirituale promesso e nonostante la fine politica di Johnson in Vietnam, alla fine degli anni sessanta il governo federale era potente come non mai. Una forza testimoniata dalla creazione del seppur parziale sistema sanitario americano, che trovò massima espressione nei programmi Medicare e Medicaid.

Le difficoltà economiche degli anni settanta anticiparono la rivoluzione liberista di Ronald Reagan, capace di rivitalizzare la fiducia dell'America e degli americani in se stessi in nome del conservatorismo, ma non di scardinare la concezione progressista dello Stato costruita dai presidenti Democratici nel quarantennio precedente.

Kesler considera Obama il quarto grande presidente liberal, come testimoniato dalla sua lotta per l'estensione della sanità pubblica. Sotto questo profilo, il cosiddetto Obamacare "è un tentativo compiuto di cambiare in senso ulteriormente interventista le strutture istituzionali degli Stati Uniti, al fine di modificare nel profondo la cultura nazionale e subordinare la libertà individuale al potere dello Stato". Lo stesso può dirsi per la legge Dodd-Frank, che mira a regolamentare e controllare le attività del settore finanziario, onde evitare gli errori (più o meno dolosi) e i rischi che hanno contribuito a determinare la crisi economica globale.

Tuttavia, avverte Kesler, la recente affermazione elettorale di Obama su Mitt Romney e l'America del Tea Party e, prima ancora, le conquiste strappate dal presidente sul terreno della politica sociale, potrebbero essere dei fattori di accelerazione per una nuova crisi del liberalismo. Una crisi che rischia di manifestarsi già durante il secondo mandato del presidente.

La crisi sarà fondamentalmente di carattere fiscale. Lo Stato liberal sta spendendo tanto, forse troppo, per mantenere le sue promesse. La risposta data dal presidente alle difficoltà di sostentamento di Medicare e Medicaid è stata l'Obamacare, un programma che costa anch'esso diversi miliardi di dollari al contribuente. Non sarà sufficiente alzare le tasse di quanti guadagnano più di 250.000 dollari all'anno per pagare il conto.

Da questa crisi potrebbe sorgerne un'altra, di credibilità. Saranno in grado i liberal di convincere gli americani ad accettare le loro scelte (da molti definite socialdemocratiche all'Europea) in una fase di incertezza economica che potrebbe "precipitare" nel fiscal cliff  e dunque in una nuova recessione? Lo scoglio è arduo e un eventuale fallimento potrebbe sancire, a un secolo dall'affermazione di Wilson, l'inizio del declino definitivo di quell'America progressista che per generazioni ha suggestionato il mondo. Nel momento del suo trionfo, Obama si prepara quindi a combattere una battaglia campale, forse decisiva, per difendere le conquiste della tradizione politica che ha ereditato. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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