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I “CONFLITTI DISTRIBUTIVI” IN OCCIDENTE

Il 6 novembre Barack Obama ha vinto una contesa elettorale polarizzata intorno a due diverse visioni del ruolo e del peso del governo nella vita dei cittadini. Nonostante il primo mandato del presidente sia stato condizionato dalle difficoltà economiche e, per buona parte, dalle resistenze della forte opposizione Repubblicana, una risicata maggioranza di americani ha respinto l'appello di Mitt Romney per una nuova ritirata del governo dalla vita pubblica. Dall'altra parte dell'Atlantico, i partiti di centro-sinistra si arrovellano da tempo per mettere in campo nuovi modelli di governance in grado di gestire la crisi economica e  il doloroso post crisi che si preannuncia. Nonostante il pendolo europeo si stia spostando a sinistra (dopo la Francia, anche l'Italia?), il timore diffuso è che le forze che si ispirano al riformismo e al progressismo, ancora una volta, non riescano a colmare il gap tra buone intenzioni e capacità effettiva di affrontare le dure sfide di governo.

Come ricorda Michael McTernan, senior researcher di Policy Network, gli scambi tra le tradizioni politiche del progressismo liberal Usa e delle socialdemocrazie europee sono stati storicamente fruttuosi e stimolanti. Nonostante le differenze economiche, culturali e storiche tra il sistema americano e quelli europei (e all'interno degli stessi sistemi continentali), mai sono mancanti momenti di confronto, emulazione, apprendimento reciproco e ispirazione. Gli ultimi esempi sono stati i dialoghi sulla Terza Via, allorquando, negli anni novanta, si aprì una fase di successi elettorali ma anche di riflessione sui fallimenti dei modelli politico-economici in auge a sinistra nei decenni precedenti.

Oggi, si avverte più che mai la necessità di una ripresa del dialogo tra i progressisti delle due sponde dell'Atlantico, nel momento in cui i cittadini delle democrazie capitaliste occidentali si apprestano, forse, a concedere ai decisori politici l'ultima chance per mettere in campo un'incisiva opera di riforma, non solo economica. Un'impresa più semplice a dirsi che a farsi, tanto più che i leader occidentali si trovano  davanti un corpo sociale impoverito, frustrato e ostile.

Ciò considerato, secondo McTernan, ogni ipotesi di riformismo nel Terzo Millennio deve confrontarsi con alcune tendenze sociali.  In primo luogo, l'instabilità dei mercati ha creato un senso diffuso di insicurezza economica, che colpisce duramente anche i ceti medi. In secondo luogo, si diffonde un clima cupo e diffidente, in cui le persone, preoccupate di perdere ciò che hanno, diventano più resistenti a misure redistributive, sia in senso verticale (da chi guadagna di più a chi guadagna meno), sia in senso orizzontale (da una generazione all'altra). Infine, il cambiamento demografico in corso e l'aumento della competitività globale paiono richiedere un'espansione dell'intervento pubblico per calmierare le diverse pressioni, proprio in un contesto di penuria delle risorse pubbliche.

Queste contraddizioni, apparentemente irriducibili, spronano i decisori politici occidentali a ricercare un più ampio e condiviso corso d'azione per riformare un sistema logoro e sull'orlo del declino definitivo. Servono idee in grado di porre rimedio all'ineguaglianza diffusa che ormai mina non solo la stabilità economica, ma anche quella sociale e quindi politica e servono azioni per porre fine alla concentrazione eccessiva di potere politico ed economico. Infatti, come è evidente dal contenuto delle richieste dei movimenti di protesta, la crisi del mondo occidentale è sì economica, ma è anche crisi di rappresentanza e di democraticità e non può essere risolta mediante strumenti ragionieristici. Molti governi europei persistono purtroppo nel dimenticarlo. (A cura di Fabio Lucchini)

 

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